Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 05-04-2011) 26-05-2011, n. 21254 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 14 ottobre 2010 il Tribunale di Trieste, costituito ai sensi dell’art. 309 c.p.p., rigettava la richiesta di riesame avanzata da B.A. e, per l’effetto, confermava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei suoi confronti il 5 agosto 2010 dal gip del locale Tribunale in relazione ai delitti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74 e 73.

Ad avviso del Tribunale gravi indizi di colpevolezza in ordine a tutti i reati erano costituiti dalle dichiarazioni confessorie rese dall’indagato in ordine ai singoli episodi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, dal contenuto delle intercettazioni ritualmente disposte, evidenzianti gli stretti e costanti rapporti intrattenuti da lui e M. con i fratelli A. e E.C. per questioni concernenti gli approvvigionamenti di droga, la disponibilità di basi logistiche in cui custodire e tagliare lo stupefacente, di autovetture intestate a donne rumene e albanesi, funzionali ai trasferimenti per la gestione degli illeciti traffici, di un rilevante numero di schede telefoniche, frequentemente sostituite per ostacolare eventuali indagini in corso.

Il contenuto delle conversazioni trovava, a giudizio del Tribunale, obiettivi elementi di riscontro nelle dichiarazioni accusatorie di I.A., arrestato nel dicembre 2008, subito dopo avere ricevuto da B. un modesto quantitativo di droga, e nelle attività di osservazione e pedinamento svolte dalla polizia giudiziaria.

2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione personalmente B.A., il quale lamenta: a) violazione di legge in relazione alla ritenuta gravità del quadro indiziario riguardante il delitto associativo di cui difettano gli elementi costitutivi; b) violazione dei canoni di valutazione probatoria, carenza e illogicità della motivazione in merito al delitto previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, non potendosi coerentemente dare credito alle confessioni dell’indagato in ordine ai singoli episodi previsti dal D.P.R. n. 309, art. 73 e, al contempo, non ritenerle credibili nella parte in cui viene proclamata l’estraneità a qualsiasi compagine associativa; c) inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 274 c.p.p., non sussistendo esigenze cautelari soprattutto laddove si consideri che non ricorrono gli elementi costitutivi del delitto previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74;

d) violazione di legge e vizio della motivazione in ordine al rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza della misura, avuto riguardo alla parziale assunzione di responsabilità da parte dell’indagato e alla mancanza di un contesto associativo.
Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato.

1. Con riferimento ai primi due motivi di censura il Collegio osserva quanto segue. la valutazione delle risultanze probatorie e l’interpretazione delle stesse sono state compiute dal Tribunale distrettuale seguendo un filo logico pienamente congruente, ditalchè le conclusioni, essendo anche esenti da vizi giuridici, resistono al sindacato di legittimità.

L’ordinanza impugnata ha organicamente analizzato le risultanze investigative, costituite dal contenuto delle intercettazioni ritualmente autorizzate, dalle dichiarazioni rese da I. A., dalle stesse parziali ammissioni dell’indagato, dai sequestri di droga operati, dagli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria in ordine alle basi logistiche utilizzate per la custodia, il taglio e il confezionamento delle sostanze stupefacenti, dalle indagini esperite in merito alla intestazione delle autovetture funzionali alla gestione degli illeciti traffici in capo a donne rumene e albanesi allo scopo di garantirsi l’impunità e alle schede telefoniche utilizzate per i contatti tra i vari associati, sottoposte a continue sostituzioni per ostacolare eventuali indagini in corso. Il Tribunale ha inserito il complesso di queste risultanze in un coordinato quadro interpretativo saldamente articolato su coerenti passaggi argomentativi, che, per la loro completezza e l’assenza di aporie o fratture, risultano del tutto rispondenti ai canoni della logica, sicchè deve senz’altro riconoscersi che il convincimento che ha condotto a ravvisare la sussistenza di un quadro di gravità indiziaria nei confronti di B. in relazione ai delitti previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74 resta incensurabile nel giudizio di legittimità.

Alla stregua degli elementi probatori dianzi indicati, il Tribunale ha esattamente ritenuto la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza nei confronti del ricorrente anche in ordine al reato associativo, di cui sono stati individuati tutti gli elementi costitutivi.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, a base della figura dell’associazione finalizzata a traffici di sostanze stupefacenti ( D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 74) è identificabile un accordo destinato a costituire una struttura permanente in cui i singoli associati divengono – ciascuno nell’ambito dei compiti assunti o affidati – parti di un tutto finalizzato a commettere una serie indeterminata di delitti D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, preordinati alla cessione o al traffico di droga. Per la configurazione del reato associativo non è necessaria la presenza di una complessa ed articolata organizzazione dotata di notevoli disponibilità economiche, ma è sufficiente l’esistenza di strutture, sia pure rudimentali, deducibili dalla predisposizione di mezzi, anche semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune, in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle singole deliberazioni criminose, col contributo dei singoli associati (Cass., Sez. 1, 22 dicembre 1997, n. 5083, riv. 204963; Cass., Sez. 6^, 12 maggio 1995, n. 9320, n. 742, riv. 202037; Cass., Sez. 1, 31 maggio 1995, n. 742, riv. 202193; Cass., Sez. 6^, 9 gennaio 1995, n. 2772, riv. 201353). Nella giurisprudenza di legittimità è stato altresì precisato che il dolo è dato dalla coscienza e volontà di partecipare attivamente alla realizzazione del programma delinquenziale in modo stabile e permanente (Cass., Sez. 6^, 23 gennaio 1997, n. 5970, riv. 208306) e che il vincolo assocìativo può poggiare anche sul rapporto che accomuna, in maniera durevole, il fornitore di droga e gli spacciatori che la ricevono per immetterla nel consumo al minuto, sempre che vi sia la consapevolezza di operare nell’ambito di un unica associazione e di contribuire con i ripetuti apporti alla realizzazione del fine comune di trarre profitto dal commercio di droga (Cass., Sez. 1^, 10 giugno 1996, n. 7758, riv. 205531; Cass., Sez. 1, 21 ottobre 1999, n. 14578, riv.

216124; Cass., Sez. 1, 23 dicembre 1999, n. 14578, riv. 216124;

Cass., Sez. 5^, 11 agosto 1999, n. 10076, riv. 213978; Cass., Sez. 5^, 17 settembre 2001, n. 33717, riv. 219921).

Ciò posto, sono manifestamente prive di pregio le censure mosse dal ricorrente in merito alla sussistenza del delitto associativo, dato che, con motivazione adeguata sul piano logico e immune da vizi giuridici, il Tribunale distrettuale ha correttamente valutato la posizione di B., ponendo in luce la sussistenza delle condizioni obiettive e soggettive per l’addebitabilità, in sede cautelare, del delitto associativo. In proposito è stato puntualmente osservato che l’indagato, operando in stretto contatto con i fornitori della droga e fungendo da tramite tra costoro e gli acquirenti delle partite e curando, inoltre, anche personalmente lo smercio degli stupefacenti, di cui assicurava una costante immissione sul mercato, aveva la piena consapevolezza dell’esistenza di un gruppo stabile di persone che provvedeva all’approvvigionamento della droga e si rendeva conto di fornire un contributo stabile e durevole ai fini della vita e dello sviluppo dell’intera organizzazione. In tale contesto la valorizzazione delle parziali ammissioni di B. in ordine alla sua responsabilità in relazione all’attività di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti è stata correttamente ritenuta dai giudici di merito come riconoscimento degli episodi non controvertibili e come strategia per allontanare da sè responsabilità più gravi in rapporto al delitto associativo. Ne consegue che, essendo sorretto da coerenti linee logiche e dalla corretta applicazione di principi giuridici, il convincimento dei giudici di merito resiste al sindacato logico della motivazione demandato a questa Corte di legittimità.

Anche l’attività di vendita ai consumatori, quando sia effettuata valendosi continuativamente e consapevolmente delle risorse dell’organizzazione e con la coscienza di farne, perciò, parte, costituisce un volontario apporto causale al raggiungimento del fine di profitto dell’organizzazione medesima (Cass., Sez. 6^, 25 gennaio 2000, n. 00856, riv. 216657).

2. Manifestamente infondati sono anche gli altri due motivi di ricorso.

Il Tribunale distrettuale, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha desunto la sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., lett. c), dall’articolazione del contesto associativo all’interno del quale B. forniva un contributo consapevole, volontario e causalmente rilevante, dalla gravità delle condotte poste in essere, espressive di particolare pericolosità sociale, tenuto conto anche della negativa personalità dell’indagato, dedito alla ricerca di illeciti profitti mediante traffici di droga.

L’ordinanza impugnata ha, inoltre, rispettato i principi di proporzionalità e adeguatezza sottesi alla scelta delle misure, laddove ha evidenziato che la qualità e la natura degli illeciti realizzati, la struttura organizzativa di cui B. era partecipe e le modalità di commissione degli illeciti rappresentavano altrettanti elementi obiettivi espressivi di un’elevata pericolosità sociale che poteva essere adeguatamente contenuta solo con la custodia cautelare in carcere.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.

La cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.

Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al Direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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