Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 05-04-2011) 26-05-2011, n. 21253 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

a chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
Svolgimento del processo

1. Il 30 giugno 2010 il Tribunale di Reggio Calabria, costituito ai sensi dell’art. 309 c.p.p., rigettava la richiesta di riesame avanzata da F.L. e, per l’effetto, confermava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei suoi confronti il 12 aprile 2010 dal gip del locale Tribunale in ordine ai delitti di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso, detenzione e porto illegale di armi comuni da sparo, aggravato ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7.

Ad avviso del Tribunale, gravi indizi di colpevolezza nei confronti dell’indagato in ordine a tutti i delitti a lui ascritti erano costituiti dall’esito dei servizi di osservazione e pedinamento svolti, dagli accertamenti compiuti dalla polizia giudiziaria, dal contenuto delle intercettazioni ritualmente disposte, evidenzianti l’affiliazione di F. al sodalizio criminoso, l’avvenuto superamento dei dubbi avanzati da alcuni esponenti di spicco dell’organizzazione al suo organico inserimento nella stessa a causa di uno sgarbo in passato fatto a P.F.A., la piena condivisione degli obiettivi illeciti perseguiti, comprovata dal possesso di armi, l’impegno profuso nella verifica della presenza di eventuali microspie a bordo dell’auto propria e di altri associati, la partecipazione a momenti significativi della vita associativa.

2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, F., il quale lamenta: a) violazione dei canoni di vantazione probatoria e vizio della motivazione in ordine alla ritenuta configurabilità degli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., in assenza di elementi obiettivamente indicativi di un consapevole e volontario apporto, causalmente rilevante, alla vita del sodalizio, tenuto conto del carattere equivoco dei colloqui captati, non denotanti la consumazione di alcun illecito; b) violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza delle contestate violazioni alla disciplina sulle armi in mancanza di obiettivi elementi di riscontro al contenuto delle conversazioni intercettate;

c) violazione di legge e vizio della motivazione in merito alla sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.
Motivi della decisione

Il ricorso non è fondato.

1. Con riferimento alle prime due censure il Collegio osserva che il Tribunale ha attentamente analizzato, con motivazione esauriente ed immune da vizi logici e giuridici, le risultanze probatorie disponibili e ha desunto la gravita degli indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 bis c.p. dal contenuto delle intercettazioni ritualmente disposte, dall’esito dei servizi di osservazione e pedinamento svolti, dagli accertamenti compiuti dalla polizia giudiziaria. Il complesso di questi elementi consentiva di ricostruire le fasi dell’affiliazione di F. al sodalizio di stampo mafioso, le discussioni che l’avevano accompagnata in ragione delle perplessità manifestate da alcuni esponenti di spicco dell’organizzazione al suo organico inserimento nel clan a causa di pregressi comportamenti ritenuti lesivi del rispetto dovuto ad uno dei sodali ( P.F.A.), la piena condivisione degli obiettivi illeciti perseguiti, comprovata anche dal possesso di armi funzionali alla piena attuazione del disegno criminoso, l’impegno profuso nella verifica della presenza di eventuali microspie a bordo dell’auto propria e di altri associati allo scopo di assicurare la piena operatività del clan, la partecipazione a momenti rilevanti per la vita associativa.

Il Tribunale, con motivazione compiuta e logica, ha evidenziato l’esistenza e la piena operatività di un articolato sodalizio di stampo mafioso, caratterizzato da un forte radicamento sul territorio calabrese, da un’organizzazione gerarchica, da una precisa ripartizione di ruoli, da rituali di affiliazione, da tempo aduso ad avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà in vista della commissione di una serie di delitti volti al controllo capillare del territorio, alla realizzazione di ingenti profitti illeciti, al sostentamento degli associati.

All’interno dell’associazione di stampo mafioso il ricorrente forniva un pieno e consapevole contributo causale mediante la commissione delle condotte in precedenza descritte, espressive di una piena adesione alle strategie elaborate dall’organizzazione e al complessivo disegno criminoso perseguito.

Orbene, lo sviluppo argomentativo della motivazione è fondato su una coerente analisi critica degli elementi indizianti e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi del requisito della gravita, nel senso che questi sono stati reputati conducenti, con un elevato grado di probabilità, rispetto al tema di indagine concernente la responsabilità di F. in ordine al delitti di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso e alle violazioni in materia di armi, aggravate ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7.

A quest’ultimo proposito il Tribunale ha correttamente ricostruito il complesso delle conversazioni, univocamente indicative del possesso di armi e della disponibilità a cederle.

Di talchè, considerato che la valutazione compiuta dal Tribunale verte sul grado di inferenza degli indizi e, quindi, sull’attitudine più o meno dimostrativa degli stessi in termini di qualificata probabilità di colpevolezza anche se non di certezza, deve porsi in risalto che la motivazione dell’ordinanza impugnata supera il vaglio di legittimità demandato a questa Corte, il cui sindacato non può non arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e della conformità ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, prescritti dall’art. 273 c.p.p. per l’emissione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, senza poter attingere l’intrinseca consistenza delle valutazioni riservate al giudice di merito.

2. Parimenti infondata è l’ultima censura.

La L. n. 203 del 1991, art. 7 richiede che i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo siano commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso. Si tratta di due ipotesi distinte, quantunque logicamente connesse. La prima ricorre quando l’agente o gli agenti, pur senza essere partecipi o concorrere in reati associativi, delinquono con metodo mafioso, ponendo in essere, cioè, una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica – non necessariamente su una o più persone determinate, ma, all’occorrenza, anche su un numero indeterminato di persone, conculcate nella loro libertà e tranquillità – con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata. In tal caso non è necessario che l’associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della più grave condotta dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà fenomenica; essa può essere anche semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalità che la distinguono, sia già di per sè tale da evocare nel soggetto passivo l’esistenza di consorterie e sodalizi amplificatori della valenza criminale del reato commesso. La seconda delle due ipotesi previste dal citato art. 7, postulando che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, implica invece necessariamente l’esistenza reale, e non più semplicemente supposta, di un’associazione di stampo mafioso, essendo impensabile un aggravamento di pena per il favoreggiamento di un sodalizio semplicemente evocato (Cass. Sez. 1^, 18 marzo 1994, n. 1327, rv. 197430).

L’aggravante in questione, in entrambe le forme in cui può atteggiarsi, è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli estremi, sia che essi siano essi partecipi di un sodalizio di stampo mafioso sia che risultino ad esso estranei (Sez. Un. 22 gennaio 2001, n. 10; Cass., 23 maggio 2006, n. 20228).

4. L’ordinanza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, in quanto, con valutazione obiettiva, ancorata alle concrete e specifiche acquisizioni probatorie in precedenza richiamate, al contesto in cui si collocano i comportamenti criminosi contestati e all’analisi delle condotte poste in essere da F. alla luce della definizione fornita dall’art. 416 bis c.p. (espressamente richiamato dal cit. art. 7), ha correttamente evidenziato che le stesse erano idonee ad esercitare una particolare coartazione psicologica sui consociati, presentavano i caratteri propri dell’intimidazione ed erano funzionali a favorire l’operatività del sodalizio.

In conclusione, risultando infondato in tutte le sue articolazioni, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

La cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al Direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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