Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 05-04-2011) 26-05-2011, n. 21251 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza in data 21.05.2010 il Tribunale di Reggio Calabria, costituito ex art. 309 c.p.p., rigettava la richiesta di riesame proposta da I.M. avverso il provvedimento 12.04.2010 del Gip della stessa sede che aveva applicato nei sui confronti la misura cautelare della custodia in carcere per i reati di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, danneggiamento aggravato e minaccia aggravata a pubblico ufficiale. In particolare erano ritenuti gravi indizi di colpevolezza a carico del predetto quale partecipe, con posizione elevata, del "locale" di ‘ndrangheta gravante nel territorio di Condofuri; risultava poi sufficientemente provato che egli fosse il mandante del danneggiamento doloso effettuato in data 11.05.2007 ai danni di N.V., in risposta a quello pochi giorni prima subito dall’odierno ricorrente; infine lo I. era ritenuto partecipe della grave intimidazione fatta nei confronti dei responsabili del Comune di Condofuri perchè non dessero seguito all’assegnazione al Comune stesso di beni confiscati. Tale quadro gravemente indiziante era tratto dal complesso delle indagini largamente basate sul materiale derivante dalle intercettazioni, telefoniche ed ambientali.- Le esigenze cautelari era fondate sulla necessità di evitare il rischio di recidiva e di inquinamento probatorio, nonchè sulla presunzione ex art. 275 c.p.p., comma 3.- 2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’anzidetto indagato che motivava l’impugnazione deducendo: a) insufficienza di elementi concreti per dimostrare la contestata partecipazione associativa; le frasi sul "battesimo" si riferirebbero alla cerimonia religiosa, come da certificazione allegata; b) in ordine al reato di danneggiamento vi sono solo ipotesi degli inquirenti; c) l’acquisizione dei beni confiscati al patrimonio del Comune fu fatta nei tempi previsti dalle disposizioni di legge; d) insussistenza di elementi idonei a configurare l’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7. 3. Il ricorso, manifestamente infondato in ogni sua deduzione, deve essere dichiarato inammissibile con tutte le dovute conseguenze di legge.- Ed invero l’impugnata ordinanza ben ricostruisce, anche con rinvio al provvedimento genetico, la posizione dell’odierno ricorrente:

indiscutibilmente provata, anche sulla base di pregresse indagini, l’esistenza in Condofuri di un locale di ‘ndrangheta, lo I. vi risulta inserito a pieno titolo, informato a regole e mentalità della cosca, con il principale compito di curare i rapporti con l’amministrazione comunale e pilotare gli appalti pubblici. In tale quadro si inseriscono gli episodi specifici, confermativi di appartenenza e ruolo, del mandato ad incendiare lo studio professionale di N.V. (in dichiarata ritorsione al consimile fatto da lui subito, interpretato come sfida all’intera consorteria) e dei tentativi, altamente significativi, tesi ad imporre alla locale amministrazione comunale di non procedere nell’iter necessario per l’acquisizione al patrimonio dei beni confiscati ed assegnati a quel Comune. Tanto ricordato, è di tutta evidenza come il ricorso sia palesemente infondato. Va dapprima respinta l’inconferente prospettazione secondo cui il "battesimo", di cui si parla in un’intercettazione ambientale, abbia riferimento alla vera cerimonia religiosa del culto cattolico, posto che – come ben ricorda l’impugnata ordinanza – si parla di più soggetti, adulti, e si fa riferimento ai loro meriti acquisiti (che li rendono affidabili) ed ai loro proponenti: riferimenti tutti che non si possono adattare alla cerimonia religiosa, ma che sono tipici dell’iniziazione mafiosa. Quanto al reato di danneggiamento ai danni del N., non vi sono solo ipotesi degli inquirenti, come riduttivamente assume il ricorrente, posto che nell’intercettazione ambientale risulta, senza possibilità di equivoci, che lo stesso I. ne rivendica la paternità (v. ff. 13-15 dell’ordinanza). Su tale episodio, altamente significativo risulta – ai fini del reato associativo – che l’odierno ricorrente si determini alla ritorsione solo dopo averne parlato con i sodali ( B., M., F., ecc.) ed averne avuto il beneplacito. Quanto al reato ai danni dell’amministrazione comunale, del pari inconferente è la deduzione che fa leva sulla circostanza che, alla fine, l’amministrazione stessa si intestò i beni confiscati, parimenti sussistendo il reato di minaccia a pubblici ufficiali per la condotta intimidatoria chiaramente tenuta a ciò diretta, indipendentemente dall’esito finale. In realtà, del resto, l’effetto di ritardare l’iter è stato comunque ottenuto ( I.: "quella cosa là non la si deve fare al momento…la dobbiamo bloccare; hai capito…la delibera"). Tutto ciò in quanto sindaco ed amministratori erano stati fatti votare dalla cosca ("gli abbiamo consigliato di votare a L.P.").

L’episodio conferma, dunque, in modo centrale, il controllo mafioso della consorteria sul territorio e l’impostazione della vita pubblica come sottomessa alle direttive della cosca ("qua dobbiamo impostare un certo discorso…io l’ho impostato per bene e senza guardare nessuno, lo facciamo e basta… questi qua non li facciamo uscire di casa per la paura"). Le proteste di insufficienza indiziaria in ordine al reato associativo sono quindi del tutto prive di fondamento, essendo totalmente smentite dalle univoche e significative risultanze delle indagini.- Ciò posto, è di tutta evidenza la palese infondatezza anche del motivo di ricorso che intende contrastare la ritenuta ricorrenza dell’aggravante specifica dell’agevolazione mafiosa, essendo assolutamente evidente che i reati per i quali la stessa è stata contestata (il danneggiamelo e la minaccia a P.U.) si pongono in chiaro rapporto di utile strumentalità rispetto al reato associativo.- Tutti i motivi della proposta impugnazione sono, dunque, manifestamente infondati. Essi vanno quindi dichiarati inammissibili ex art. 591 c.p.p. e art. 606 c.p.p., comma 3.- Alla declaratoria di inammissibilità consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenta congrua, di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso palesemente infondato (v. sentenza Corte Cost. n. 186/2000). Deve seguire altresì la comunicazione prevista dall’art. 94 disp. att. c.p.p..
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente I. M. al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende.

Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del presente provvedimento al Direttore dell’Istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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