Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 05-04-2011) 26-05-2011, n. 21249 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza in data 15.02.2010 il Tribunale di Reggio Calabria, costituito ex art. 309 c.p.p., rigettava la richiesta di riesame proposta da D.A. avverso il provvedimento emesso in data 11.01.2010 dal Gip della stesa sede che applicava nei suoi confronti la misura cautelare della custodia in carcere per il reato di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, aggravato L. n. 203 del 1991, ex art. 7.- Rilevava inveito detto Tribunale come gravi indizi di colpevolezza risultassero dal complesso degli accertamenti compiuti in sede di indagini che avevano evidenziato come esso D., cugino di B.D., figlio di B. C., risultasse solo formale intestatario della ditta di disinfestazione DAAG la cui gestione effettiva era nelle mani della famiglia Bellocco, essendo egli privo di capacità finanziaria e di potere decisionale. Si trattava dunque, in sostanza – riteneva il Tribunale – di una tipica intestazione fittizia volta a favorire il reimpiego di capitali di origine illecita ed a preservarli da provvedimenti giudiziari di tipo ablativo, essendo pacifica la notoria attività mafiosa della famiglia Bellocco, cosca dominante nel territorio di Rosarno.- Le esigenze cautelari erano imposte dalla necessità di evitare reiterazioni criminose, e la misura carceraria doveva ritenersi adeguata ex lege in relazione alla sicura ricorrenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7. 2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’anzidetto indagato che motivava l’impugnazione deducendo: a) vizio di motivazione carente in ordine alla ricorrenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7, non risultando altro che interesse personale e non finalizzazione all’agevolazione della cosca; b) mancanza di elementi idonei a configurare il dolo specifico del reato contestato, non emergendo la intenzionale volontà di eludere gli effetti di eventuale procedura di prevenzione.- 2.1 All’odierna udienza camerale di questa Corte la difesa produceva memoria d’udienza, riassuntiva delle proprie posizioni.- 3. Il ricorso, infondato, deve essere respinto con ogni dovuta conseguenza di legge.- Va dapprima rilevato come l’atto di ricorso, incentrato solo sull’elemento psicologico del contestato reato e sull’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7, nulla deduce in ordine agli elementi storici ricostruttivi della fattispecie e, dunque, sulla sussistenza oggettiva della materialità del reato stesso.- In ordine all’elemento psicologico il ricorso non è fondato. Se è vero, infatti, che esso consiste nel dolo specifico (volontà indirizzata all’elusione dei provvedimenti ablatori in sede di prevenzione), è pur vero che la prova della sussistenza di tale elemento soggettivo interno ben può essere tratta dal complesso delle risultanze che siano in tal senso non equivoche, così come va affermato – a disattendere le proposte suggestioni difensive – che tale dolo specifico non risulta in alcun modo indebolito ove si accompagni ad eventuali ulteriori, ma confluenti, spinte psicologiche. La comune esperienza, così come l’elaborazione scientifica, conferma che ogni azione umana ben può essere sorretta (e quasi sempre lo è) non da un’unica motivazione – che al più può essere prevalente – ma da una pluralità di soggettive causali che ben si possono tra loro assommare. L’azione volta a favorire qualcuno (un amico, un parente, un socio) ben può convivere e risultare sinergica con il proprio interesse, e dunque anche favorire se stesso. E così l’azione volta a favorire un parente (nella fattispecie un cugino) ben può non esaurire la spinta psicologica, convivendo con la volontà (dolo specifico) di concorrere nell’elusione dei provvedimenti ablatori che potevano colpire un ben noto appartenente alla cosca omonima. Ora, sul punto, va rilevato come del tutto impropriamente la difesa sostenga che l’odierno ricorrente sia stato "ingaggiato per svolgere un determinato tipo di lavoro" di tal che B.D. era il suo "datore di lavoro" (v. f. 6 dell’atto di ricorso), essendo invece certo che il D. era l’intestatario della ditta DAAG. Superato, dunque, il mero movente familiare, in sè non esaustivo, va superata anche – in fatto – la deduzione che si trattasse di un mero lavoro subordinato. Resta dunque la realtà storica di un’intestazione fittizia di evidente carattere elusivo, nonchè mirata al reimpiego di capitali illeciti, nel quadro delle provate attività economico-imprenditoriali della cosca, posto che – come è stato ampiamente motivato nel provvedimento impugnato – l’odierno ricorrente era privo di risorse personali adeguate alla bisogna, e posto che ogni potere decisionale era in mano al B. e non al D.. Con ciò, con tutta evidenza, si è rivelato anche l’elemento psicologico del contestato reato, atteso che lo stretto rapporto di parentela sicuramente rendeva ancor più conscio l’odierno ricorrente, rispetto a quanto già non fosse notorio, di prestarsi, quale intestatario, agli interessi illeciti della cosca Bellocco. Consapevolezza che, già insorta al momento costitutivo, quale prestanome, si rinnovava, sempre presente, nei momenti di gestione fittizia. Del resto la consapevolezza di essersi prestato a fare da prestanome è stata sostanzialmente ammessa dal D. allorchè non ha saputo giustificarsi che con l’affermazione "siamo cugini, siamo parenti" (v. f. 7 dell’ordinanza) senza dare spiegazione alcuna sul piano economico.- Ciò posto in punto elemento psicologico, deve essere rigettato anche il motivo di ricorso che contesta la ritenuta aggravante della finalità di agevolazione mafiosa. Non c’è dubbio che, posto il dato storico accertato – allo stato ed a questi fini – che l’intestazione fosse fittizia e che la stessa fosse finalizzata alle finalità di elusione da provvedimenti ablativi e di reimpiego di capitali illeciti, ed atteso che – come sopra si è affermato – ciò era ben presente nella psiche del D., nessun dubbio possa esistere che vi fosse stata anche piena consapevolezza che tale complessiva condotta risultasse finalizzata anche al consolidamento delle attività della cosca dei Bellocco. Sul punto appare logica e coerente la motivazione dell’impugnata ordinanza che rileva come la famiglia Bellocco risulta priva di fonti di reddito lecite, per cui ogni impiego di ricchezza deriva inevitabilmente da attività illegali. Deve dunque escludersi – a tenore degli accertamenti dei giudici del merito cautelare – il principale argomento dell’odierno ricorrente, e cioè che nell’azienda in questione B.D. avesse impiegato capitali suoi e non della cosca.- In definitiva l’impugnata ordinanza è immune dai denunciati vizi.- Il ricorso è dunque infondato e, come tale, deve essere rigettato. Alla completa reiezione dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 c.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Deve seguire altresì la comunicazione di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p..
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente D.A. al pagamento delle spese processuali. Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del presente provvedimento al Direttore dell’Istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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