T.A.R. Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, Sent., 26-05-2011, n. 260 Danno non patrimoniale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

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Svolgimento del processo

Parte ricorrente, professore universitario in servizio presso l’Università di Trieste, lamentava una serie di comportamenti da parte dell’Amministrazione universitaria, durati più di un ventennio, in relazione alla sua collocazione logistica, mancata assegnazione di collaboratori, insufficiente attribuzione di fondi, angherie e soprusi tra i quali il medesimo ricorrente individua delle richieste di chiarimenti ad una pretesa incompatibilità tra l’insegnamento universitario a tempo pieno ed, in particolare, relativa allo svolgimento di attività professionale di avvocato, nonostante l’opzione esercitata in favore del regime di insegnamento a tempo pieno.

Annovera ancora parte ricorrente una presunta segnalazione presso Corte dei Conti che avrebbe aperto un procedimento a suo carico per espletamento di incarichi professionali in situazione di incompatibilità, conclusosi con l’archiviazione.

Deduceva, ancora, l’apertura di un procedimento disciplinare a suo carico, con la trasmissione degli atti da parte dell’Università, con nota- decreto n.487 del 17.1.1996, alla Corte di Disciplina del C.U.N., ai sensi dell’art. 85 del T.U. n.5/57.

Il procedimento si era poi concluso con la deliberazione della suddetta Corte, in data 17.7.1996, di inflizione della sanzione disciplinare di sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per la durata di cinque mesi e con la nota rettoriale dell’Università del 29.8.1996 che comunicava l’applicazione della sanzione disciplinare.

L’Università, con decreto rettoriale n. 248 del 4.10.1996, ribadiva la sanzione disciplinare di sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per la durata di cinque mesi dal 10.9.1996 al 9.2.1997, riconoscendo la spettanza dell’assegno alimentare per il periodo di sospensione.

L’illegittimità della sanzione disciplinare veniva poi acclarata in seguito alla sentenza del T.A.R. Friuli Venezia Giulia n.289/97 (che annullava la deliberazione della Corte di Disciplina del C.U.N., del 17.7.1996 e la nota rettoriale dell’Università del 29.8.1996), confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 2668/2003 che aveva rigettato l’appello proposto dall’Amministrazione.

Lamentava, quindi, parte ricorrente che il comportamento dell’Amministrazione universitaria configurerebbe una ipotesi di mobbing chiedendo, previa declaratoria della illegittimità dei provvedimenti adottati dall’Università, la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni non patrimoniali, tra i quali indica il danno biologico e quello da demansionamento, e patrimoniali.

Il ricorso era proposto sia nei confronti dell’Università che del Ministero dell’Istruzione Universitaria e della Ricerca.

Si costituivano in giudizio le amministrazioni intimate, a mezzo dell’Avvocatura dello Stato.

Il Ministero chiedeva che venisse dichiarata la sua carenza di legittimazione passiva.

La causa veniva chiamata all’udienza pubblica del 6 aprile 2011 e trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

1) In via preliminare il Collegio ritiene di dover affrontare la questione relativa alla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, la cui carenza è stata eccepita dall’Avvocatura dello Stato in sede di memorie difensive.

Osserva, in proposito, come, con riguardo all’azione proposta per danni da cd. mobbing, sussista la giurisdizione del giudice ordinario qualora il dipendente faccia valere il comportamento vessatorio di colleghi o superiori quale titolo giustificativo della pretesa; mentre va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo nel caso in cui la lesione sia derivante da una violazione del rapporto contrattuale, fondando l’azione proposta su uno specifico inadempimento da parte dell’Amministrazione; in sostanza, ove si sostenga contestualmente la violazione di doveri legali che regolano il rapporto, deducendo l’inadempimento da parte dell’Amministrazione dei principi di buona fede e correttezza, nonché la violazione dei doveri di imparzialità e buona amministrazione, posta in essere con un comportamento omissivo o commissivo, e facendosi valere la violazione dell’obbligo specifico, di cui all’art. 2087 c.c., del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psicofisica e morale del lavoratore, si è in presenza della responsabilità contrattuale e la cognizione della relativa controversia è devoluta al giudice amministrativo; deve invece ritenersi di competenza del Giudice Ordinario l’azione proposta in via extracontrattuale che individua il comportamento vessatorio di colleghi o superiori quale titolo giustificativo della pretesa (T.A.R. Campania Napoli, sez. II, 17 aprile 2009, n. 2007; nello stesso senso Consiglio Stato, sez. VI, 15 aprile 2008, n. 1739).

Nel caso di specie parte ricorrente deduce l’assunzione da parte dell’Amministrazione di atti e comportamenti lesivi dei principi di buona fede e correttezza, nonché la violazione dei doveri di imparzialità e buona amministrazione riconducibili nell’ambito della violazione del rapporto contrattuale e, pertanto, sussiste la giurisdizione dell’adito T.A.R..

2) In secondo luogo deve essere dichiarata la carenza di legittimazione passiva del Ministero intimato in quanto l’istanza risarcitoria è stata proposta nei confronti della sola Università degli Studi di Trieste.

3) Sempre in via preliminare va affrontata la questione relativa all’eccezione di prescrizione formulata dall’Amministrazione universitaria resistente sulla base della circostanza (non contestata dal ricorrente) che il rapporto di lavoro di parte ricorrente è cessato in data 31.8.1999.

Al riguardo il Collegio rileva come la richiesta risarcitoria oggi in esame sia basata sulla pretesa esistenza di una serie di provvedimenti illegittimi e comportamenti lesivi dell’Amministrazione, di disparata natura, che si sarebbero verificati nel corso del rapporto di lavoro per un periodo di tempo prolungato.

Trattandosi di azione per responsabilità contrattuale derivante dal rapporto di lavoro i relativi di diritti risarcitori si prescrivono in dieci anni (nel caso di condotta c.d. mobizzante, difatti, la pubblica amministrazione risponde sia per responsabilità contrattuale che per responsabilità extracontrattuale).

Il ricorso in esame è stato notificato l’11.3.2009, quindi dopo oltre decennio dal compimento degli atti lesivi lamentati dal ricorrente.

Il rapporto di lavoro del ricorrente, quale rapporto di pubblico impiego, risultava difatti assistito dalla garanzia della stabilità e, pertanto, la prescrizione dei crediti di lavoro decorreva anche in costanza di rapporto (T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 2 aprile 2010, n. 5576; Consiglio Stato, sez. VI, 19 agosto 2009, n. 4970).

Tale conclusione della decorrenza, nel caso di specie, della prescrizione in costanza di rapporto viene, altresì, a maggior ragione ribadita dalla giurisprudenza secondo cui in tema di prescrizione dei crediti del lavoratore, il principio di cui agli art. 2948 n. 4, 2955 n. 2 e 2956 n. 1 c.c. (quali risultanti dalla pronuncia della Corte cost. n. 63 del 1966), secondo il quale la prescrizione non decorre in costanza di rapporto di lavoro non assistito da stabilità reale, riguarda per espressa previsione il solo diritto alla retribuzione e non si estende al diritto del lavoratore al risarcimento del danno derivante dalla violazione degli obblighi di cui all’art. 2087 c.c., la cui prescrizione (decennale in caso di azione di responsabilità contrattuale) decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, anche in corso di rapporto di lavoro (Cassazione civile, sez. lav., 28 luglio 2010, n. 17629).

Il decorso della prescrizione dei diritti fatti valere da parte ricorrente è iniziato quindi a decorrere non dal momento del venir meno del rapporto, bensì anche in costanza di rapporto, dal compimento degli atti lesivi indicati come lesivi da parte del ricorrente.

In ogni caso, però, parte ricorrente, con lettere raccomandate datate 26.7.2005 (inviata il 3.8.2005), 20.9.2005 (ricevuta dall’Amministrazione il 26.9.2005) e 16.12.2005 (ricevuta dall’Amministrazione il 28.12.2005), aveva chiesto il risarcimento dei danni subiti in seguito al comportamento ritenuto integrante la fattispecie del mobbing ed gli atti illegittimi adottati dall’Università degli Studi di Trieste.

Tali lettere, per quanto generiche, si ritengono idonee a porsi quali atti di messa in mora interruttivi della prescrizione.

La prescrizione, pertanto, non può considerarsi maturata.

Una parte rilevante dei comportamenti e degli atti lesivi dedotti da parte ricorrente risultano successivi al decennio precedente alla citate lettere del 2005 (ovverosia successivi al 1995) e comunque a tale la supposta condotta di presupposto mobbing era in corso, né le relative vicende erano state ancora definite.

Era in corso nel 1995 la vicenda relativa alla lamentata assegnazione di fondi e di collaboratori, soprattutto, così come è successiva al 1995 la conclusione del disciplinare culminato con l’irrogazione della sanzione di sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per la durata di cinque mesi irrogata con il provvedimento rettoriale dell’Università del 29.8.1996 ed il decreto rettoriale n. 248 del 4.10.1996 in seguito alla delibera del 17.7.1996 dalla Commissione di disciplina del C.U.N..

4) Quanto al merito, il ricorso si palesa infondato.

Al riguardo, la genericità dei comportamenti lamentati e l’assenza di comprovati specifici profili di illiceità o di caratteristiche che denotino uno specifico intento vessatorio, così pure, per quanto riguarda i provvedimenti adottati, la mancanza di puntuali doglianze di illegittimità risultanti dagli atti di giudizio, non consente l’accoglimento delle pretese risarcitorie.

L’assegnazione di una stanza di modeste dimensioni, le presunte rivalità con i colleghi, la mancata assegnazione di collaboratori e l’asserita attribuzione di fondi insufficienti, risultano deduzioni formulate in via generica, senza specifici riscontri oggettivi probatori da cui sia desumibile l’esistenza di un chiaro intento vessatorio, né vengono dedotte precise ragioni di illegittimità o illiceità rispetto ai singoli atti con cui tali misure sono state assunte.

Allo stesso modo le richieste di chiarimenti in ordine a vicende inerenti eventuali incompatibilità dell’incarico universitario, il deferimento per un procedimento disciplinare a fronte di chiari elementi (decisioni del giudice penale) denotanti il possibile compimento di gravi atti passibili di sanzioni disciplinari, così come eventuali segnalazioni alla Corte dei Conti (che nel caso di specie peraltro non risulta essere stata effettuata) o ad altra autorità giudiziaria per condotte di loro possibile interesse, non appaiono nel caso di specie atti o comportamenti integranti una fattispecie di mobbing, non denotando alcun carattere persecutorio né specifiche violazioni degli obblighi di correttezza buona fede, bensì si palesano come azioni volte alla cura dell’interesse pubblico.

Né tali caratteristiche vessatorie assumono le decisioni dell’Amministrazione e di resistere in giudizio nei confronti delle impugnative nei confronti dei provvedimenti disciplinari.

Al stesso tempo, non risulta acclarata l’illegittimità di alcun specifico provvedimento posto in essere dall’Amministrazione, salvo per quanto riguarda quelli del procedimenti disciplinare ed, in particolare, la delibera di irrogazione della sanzione di sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per la durata di cinque mesi, poi annullata a seguito delle sentenze di questo T.A.R. (n.289/97) e del Consiglio di Stato (n. 2668/2003).

Per quanto riguarda la sanzione disciplinare in questione, difatti, l’illegittimità risulta essere stata oggetto di sentenza passata in giudicato.

Nel caso di specie, quindi, pur non ravvisandosi comprovati gli estremi del mobbing, inteso come complesso di comportamenti vessatori posto in essere nei confronti del dipendente, viene in rilievo una ipotesi di possibile risarcimento a seguito dell’annullamento dei provvedimenti relativi alla sanzione disciplinare, la cui domanda deve essere anch’essa considerarsi formulata nel ricorso con cui è stato comunque richiesto il risarcimento danni per l’illegittimità degli atti adottati dall’Amministrazione.

Né può avere riguardo, ai fini della valutazione sulla fondatezza della pretesa fatta valere e del nesso di causalità tra il danno e la condotta dell’Amministrazione, la circostanza che l’annullamento della sanzione è stato pronunciato per carenza di motivazione.

In particolare, il provvedimento sanzionatorio è stato annullato perché motivato con la sola circostanza che il reato di tentato millantato credito si traduce in un comportamento che configura sotto l’aspetto disciplinare, la fattispecie prevista dall’art. 89 del R.D. 31.8.1933 n. 1592 (atti che ledono l’onore del professore e dell’istituzione cui appartiene), senza l’effettuazione di una specifica valutazione dei fatti ai fini dell’applicazione della sanzione.

Trattandosi, però, di annullamento di un provvedimento disciplinare, il potere sanzionatorio dell’Amministrazione si è consumato e non può darsi luogo ad una sua riedizione.

Non è quindi applicabile quell’orientamento giurisprudenziale, certamente condivisibile, secondo cui l’accertamento giudiziale dell’illegittimità di un provvedimento per difetto di motivazione nulla esprime riguardo alla fondatezza della pretesa fatta valere dall’interessato ed al nesso di causalità tra il danno e la condotta dell’Amministrazione, sicché deve escludersi che l’annullamento dell’atto illegittimo per detto vizio possa ex se comportare il diritto al risarcimento dei danni subiti (T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 11 dicembre 2007, n. 12965).

Ciò in quanto tale orientamento si fonda sul presupposto che l’annullamento di un provvedimento per difetto di motivazione non esclude (ma, anzi, consente) il riesercizio del potere, con la conseguenza che la domanda di risarcimento non può essere valutata che all’esito del nuovo eventuale esercizio del potere (T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 19 marzo 2007, n. 2387), mentre nel caso di specie, per quanto anzidetto, non vi può essere luogo alla riedizione del potere sanzionatorio.

In queste ipotesi, pertanto, in considerazione della natura del potere esercitato, la fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente in ordine all’illegittimità sostanziale provvedimento adottato risulta acclarata anche in presenza di un vizio formale o, comunque, di un vizio quale la carenza di motivazione che in generale non esclude di per sé la possibilità da parte dell’Amministrazione di adottare l’atto caducato.

La domanda risulta però non accoglibile sotto il profilo della prova del danno, sia per quanto riguarda il profilo più generale del comportamento globale dell’Amministrazione asseritamente integrante una fattispecie di mobbing, sia per quanto concerne più concerne la questione del risarcimento per il provvedimento disciplinare annullato.

Parte ricorrente ha chiesto in modo generico il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, tra cui il danno da demansionamento ed il danno biologico.

Non, però, ha fornito specifici elementi di prova in ordine all’an ed al quantum del danno lamentato.

La sussistenza di un danno non patrimoniale risarcibile di cui all’art. 2059 c.c., difatti, deve essere dimostrata, sempre secondo la Suprema Corte, anche quando derivi dalla lesione di diritti inviolabili della persona, dal momento che costituisce "danno conseguenza", e non "danno evento"; né può sostenersi fondatamente che "nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo" (Cass. Civ., SS.UU, sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008).

Per quanto riguarda il danno non patrimoniale parte ricorrente si è limitato ad allegare una serie di certificazioni mediche di natura generica comprovanti un suo stato di malessere e l’esistenza di patologie come il deperimento organico e sindromi depressive.

Non ha però comprovato in alcun modo la dipendenza di tale stato patologico dalle vicende di cui è causa, né ha offerto in tal senso alcun principio di prova, non avendo prodotto alcuna perizia in merito che chiarisse la specifica connessione tra le patologie lamentate e le vicende oggetto di giudizio.

E" pacifico, difatti, in giurisprudenza amministrativa che il ricorrente deve fornire- quanto meno- un idoneo principio di prova, onde consentire al giudicante (che non può sostituirsi alla parte nella ricerca di elementi da introdurre in giudizio – e ciò per la peculiarità del giudizio amministrativo che si caratterizza per il sistema dispositivo con metodo acquisitivo) di esercitare i propri poteri istruttori.

La prova del danno non patrimoniale, inoltre, diveniva tanto più rigorosa per la specifica pretesa relativa alla vicenda di annullamento del provvedimento disciplinare.

Al riguardo, difatti, l’insorgenza di patologie integranti un danno biologico è stata rivendicata dal ricorrente con riferimento ad un complesso prolungato di comportamenti vessatori lungo tutto il corso della carriera lavorativa e, pertanto, la prova dell’esistenza di un danno non patrimoniale specifico in relazione al più limitato specifico evento del provvedimento disciplinare poi annullato andava provata dal ricorrente con particolare rigore.

Del tutto generica è anche l’affermazione di un danno da demansionamento che però non è stato suffragato da alcun elemento idoneo ad acclararne l’an e definirne il quantum.

Per quanto riguarda il danno patrimoniale, allo stesso modo, non sono stati allegati elementi sufficienti ai fini di comprovarne la sua effettiva esistenza ed entità, neppure sulla vicenda specifica del provvedimento sanzionatorio annullato.

Parte ricorrente, a parte deduzioni generiche e calcoli meramente presuntivi, non ha fornito elementi certi documentali in ordine alle spese sostenute o a mancati guadagni, non allegando specifici documenti neppure relativamente alle gravose spese asseritamente sostenute per il procedimento disciplinare illegittime.

E" noto al riguardo che il potere del giudice di liquidare il danno con valutazione equitativa non esonera la parte interessata dall’obbligo di offrire al giudice gli elementi fattuali circa la sussistenza e l’entità del danno, esaurendosi il suo apprezzamento equitativo nella necessità di colmare lacune nella determinazione del preciso ammontare dello stesso.

5) Per le ragioni indicate il ricorso va pertanto rigettato.

Attesa la complessità delle questioni trattate, il Collegio ritiene sussistano eccezionali ragioni per compensare le spese di giudizio tra le parti
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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