Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 30-03-2011) 26-05-2011, n. 21234

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

che ha chiesto l’accoglimento dei motivi del ricorso.
Svolgimento del processo

Con ordinanza in data 5.11.2010 il Tribunale del Riesame di Napoli confermava l’ordinanza del GIP del Tribunale di Napoli del 30.9.2010 con la quale era stata rigettata la richiesta di C.C., detenuto agli arresti domiciliari, di essere autorizzato a svolgere una attività lavorativa, motivata dallo stato di assoluta indigenza e dalla impossibilità a provvedere altrimenti alle sue indispensabili esigenze di vita.

Il Tribunale riteneva che l’imputato non fosse in stato di assoluta indigenza, poichè risultava che lo stesso aveva la piena disponibilità di immobili di ingente valore (una villa a (OMISSIS) e un fabbricato in (OMISSIS) del valore di alcuni milioni di Euro). La piena disponibilità dei suddetti immobili si poneva in fisiologica contraddizione con il presupposto di fatto dello stato di assoluta indigenza, stante l’intrinseca attitudine degli immobili a produrre reddito, mediante locazione a terzi ovvero monetizzazione attraverso la liquidazione.

Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di C. C., chiedendo l’annullamento della suddetta ordinanza, poichè l’unica fonte di sostentamento dell’imputato era rappresentata dagli stipendi della moglie e della figlia, ed era stato provato che i predetti familiari erano rimasti senza lavoro, avendo ricevuto una lettera di licenziamento.

I beni immobili nella disponibilità dell’imputato non producevano alcun reddito ed anzi costituivano una ragione di spesa per imposte e manutenzioni.

La motivazione del Tribunale appariva illogica perchè, pur riconoscendo che di fatto, allo stato, l’imputato si trovava in condizioni di assoluta indigenza, non aveva concesso l’autorizzazione al lavoro, limitandosi a suggerire una gestione degli immobili di non agevole e immediata realizzazione.

La soluzione suggerita dal Tribunale peraltro, secondo il ricorrente, non poteva essere praticata, poichè la villa di (OMISSIS) era intestata alla moglie e il fabbricato di (OMISSIS) era abitato dallo stesso imputato, dalla di lui madre e dal nucleo familiare della figlia.
Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato.

In materia di misure cautelari personali, il provvedimento adottato sull’istanza diretta ad ottenere l’autorizzazione ad assentarsi dal luogo degli arresti domiciliari per ragioni di lavoro è affidato, con procedura de plano, alla valutazione discrezionale del giudice di merito ex art. 284 c.p.p., comma 3, il quale, stante l’eccezionalità della previsione, deve ispirarsi a criteri di particolare rigore in ordine alla situazione di assoluta indigenza rappresentata dall’istante (V. Sez. 3 sent. n. 34235 del 15.7.2010, Rv. 248228).

Il Tribunale del riesame, confermando la decisione del GIP del Tribunale di Napoli, dopo aver preso attentamente in esame la situazione patrimoniale del ricorrente, ha ritenuto – con motivazione congrua e scevra da vizi logico giuridici – che fosse insussistente lo stato di assoluta indigenza del ricorrente, tenuto conto della disponibilità in capo allo stesso di beni immobiliari di rilevantissimo valore.

La difesa del ricorrente ha rappresentato a questa Corte le difficoltà del ricorrente derivanti dalla contestuale (e sorprendente) perdita del lavoro da patte della moglie e della figlia e quelle derivanti dal divieto di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano, al fine di attivarsi nel senso indicato dal giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.

Trattasi, però, di questioni di fatto che non possono essere prese in considerazione in sede di legittimità, una volta accertato che il provvedimento impugnato risponde ai dettami di legge ed è immune da vizi logici nella motivazione.

Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 2000), al versamento della somma alla Cassa delle Ammende indicata nel dispositivo, ritenuta congrua da questa Corte.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro mille alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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