Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 13-05-2011) 27-05-2011, n. 21411 Associazione per delinquere Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza dell’11 febbraio 2010, la Corte di appello di Catanzaro ha confermato la sentenza pronunciata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale della medesima città con la quale, per quel che qui interessa, aveva dichiarato A.M., A.R., A.A., A.C., P.D., P.F., P.M. e P.P. colpevoli dei reati di partecipazione ad associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, illecita detenzione e cessione di sostanze stupefacenti, illecita detenzione di arma clandestina e ricettazione loro rispettivamente ascritti, condannandoli, A.A. alla pena di anni otto di reclusione, A.M. alla pena di anni sette e mesi quattro di reclusione, P.F., P.P. e P.M. alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione ciascuno, A.R. alla pena di anni due e mesi otto di reclusione ed Euro 12.000,00 di multa, A.C. alla pena di anni due e mesi otto di reclusione ed Euro 12.000, di multa e P.D. alla pena di anni due e mesi otto di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa.

Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati suddetti. Nel ricorso proposto nell’interesse di A.M. si denuncia nel primo motivo violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla contestata fattispecie associativa. Si lamenta, in particolare, che la responsabilità dell’imputato si sarebbe fondata esclusivamente sul contenuto di una intercettazione ambientale, che si reputa "priva di riscontri, anodina, e, soprattutto, irrilevante numericamente". Si osserva, poi, che nella specie non sarebbe stata dimostrata la esistenza di una organizzazione criminosa, seppur rudimentale, posto che i giudici a quibus si sarebbero basati esclusivamente sulla sussistenza dei reati- fine, al punto che gli stessi giudici avrebbero declassato il ruolo dell’imputato a livello semplicemente partecipativo, proprio per l’assenza di una struttura associativa. Gli stessi contatti fra i presunti associati non dimostrerebbero alcuna specifica assiduità, facendo venir meno il connotato di permanenza che caratterizza il reato associativo contestato. La genericità della accusa e l’erroneo assunto di aver fondato lo scrutinio di responsabilità non su indizi ma sulla base di asseriti "facta concoludentia", risulterebbero, a dire del ricorrente, apprezzamenti contrastanti con i principi sanciti dall’art. 192 c.p.p.. Sarebbe poi illogica la motivazione della sentenza in relazione al capo 2 della rubrica, avuto riguardo al contenuto della deposizione resa dal militare che effettuò la perquisizione. Si contesta, infine, la dosimetria della pena e la mancata concessione delle attenuanti generiche, tenuto conto, anche, della patologia di cui soffre l’imputato.

Identici i vizi denunciati anche nel ricorso rassegnato nell’interesse di A.C. e A.R., per la quale si lamenta che, in ordine alla detenzione di cocaina assieme al fratello M., i giudici del merito non abbiano valutato la sussistenza di una ipotesi di favoreggiamento non punibile ed abbiano invece ritenuto la medesima responsabile dell’intero quantitativo di droga sequestrato presso la loro abitazione, senza alcun approfondimento anche in ordine all’elemento psicologico del reato. Quanto ad A.C., si lamenta che la sentenza avrebbe mal interpretato il contenuto di una conversazione, denotativa, al più, di un consumo di gruppo di cocaina assieme al C.. Lo stesso è a dirsi del fraintendimento in cui i giudici sarebbero caduti in relazione alla lettura delle intercettazioni in cui si parlava di consegna di "polpette", ed in quella in cui il presunto acquirente riferisce che "ok il prezzo è giusto".

Nel ricorso proposto nell’interesse di A.A., si denuncia la circostanza che al medesimo non sarebbero stati ascritti specifici episodi di spaccio, che le perquisizioni avevano dato esito negativo e che le conversazioni intercettate erano state erroneamente interpretate: il che denoterebbe l’assenza di elementi sulla cui base costruire la responsabilità dell’imputato per il reato associativo.

Si censura, correlativamente, la mancata applicazione della attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6, contestandosi la validità della motivazione al riguardo offerta dalla Corte territoriale e si prospetta violazione di legge e vizio di motivazione in marito alla mancata concessione delle attenuanti generiche ed alla mancata applicazione del minimo della pena.

Nella sostanza analoghe le censure poste a fondamento in altro atto di ricorso rassegnato nell’interesse dello stesso imputato.

Nel ricorso proposto nell’interesse di P.D. si deduce che non sarebbe stata raccolta alcuna dimostrazione del fatto che la pistola rinvenuta nella abitazione dell’imputato fosse sua o non piuttosto di qualche altro familiare convivente.

Per P.F. si denuncia l’assenza di elementi atti a corroborare la sussistenza della associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, sottolineando, quanto al ricorrente, l’assenza di un suo coinvolgimento in specifici episodi di spaccio o di sequestro di sostanze stupefacenti. Quanto alle intercettazioni, poi, da un lato le stesse non denoterebbero elementi a carico dell’imputato, mentre in una specifica circostanza, evocata dalla sentenza impugnata, non sarebbe dimostrato che l’imputato fosse uno degli interlocutori.

I motivi di ricorso proposti nell’interesse di P.M. sono nella sostanza analoghi a quelli rassegnati per A. M.: il P., in particolare, non avrebbe avuto specifici contatti con l’ A., non sono stati contestati reati fine e non vi sarebbero elementi nè sulla associazione in quanto tale, nè sul ruolo svolto dall’imputato, tenuto anche conto della assenza di elementi desumibili dalle intercettazioni riguardanti l’imputato. Si contesa, poi, la eccessività della pena e la mancata concessione delle attenuanti generiche, segnalandosi che l’imputato non avrebbe partecipato ai fatti del (OMISSIS).

Parimenti analoghe, sono, infine, le doglianze che i medesimi difensori deducono anche nei motivi di ricorso proposti nell’interesse di P.P. e nel ricorso proposto personalmente dallo stesso imputato.

Il difensore di A.C. ha infine trasmesso "motivi nuovi e memorie" nei quali ha dedotto vizio di motivazione e violazione di legge in riferimento alla interpretazione in chiave criptica di alcune espressioni comparse nelle intercettazioni e sulle quali l’imputato avrebbe fornito adeguata spiegazione in sede di interrogatorio.

I ricorsi proposti nell’interesse di A.M., A.A., A.R. e P.M. sono infondati e devono pertanto essere respinti. A proposito della contestata fattispecie associativa in vario modo e con accenti differenziati contestata dai vari imputati che ne sono stati chiamati a rispondere, le sentenze di merito hanno puntualmente posto in luce, alla stregua delle emergenze scaturite dalle indagini, particolarmente rappresentate dalle numerose e qualificanti risultanze delle intercettazioni telefoniche e delle attività di osservazione controllo poste in essere dalla polizia giudiziaria, l’esistenza di una articolata struttura organizzativa dedita ad una intensa attività di spaccio di sostanze stupefacenti, nell’ambito della quale gli imputati hanno svolto i ruoli di coordinamento, acquisizione e vendita al dettaglio di droga, loro rispettivamente ascritti, secondo un coordinato e collaudato programma criminoso che vedeva impiegato anche un logistico di non trascurabile strutturazione e potenzialità offensiva: come ben sta a denotare, d’altra parte, il grave e sintomatico episodio realizzatosi nel (OMISSIS) contro le forze dell’ordine, intente ad eseguire atti di polizia giudiziaria. Quanto, poi, al contestato significato criptico delle diverse espressioni reputate indicative ai fini della colpevolezza, a vario titolo sminuite, va osservato che, mentre,da un lato, l’uso di linguaggio chiaramente codificato, risulta in sè oltremodo indicativo della esigenza di cautela insita nella reale attività cui le conversazioni i riferivano, la interpretazione e decodificazione di tale linguaggio – peraltro di agevole e trasparente lettura – rappresenta, comunque, un profilo di fatto rimesso all’apprezzamento del giudice del merito e si sottrae al giudizio di legittimità, se la valutazione risulta – come nella specie – logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 6, 8 gennaio 2008, Gionta; Cass., Sez. 6, 11 dicembre 2007, Sitzia). Per altro verso, neppure risulta conferente l’assunto secondo il quale nella specie i giudici del merito avrebbero assemblato i fatti specifici sotto una parvenza di struttura associativa, giacchè è proprio attraverso il coordinato collegamento delle singole vicende delittuose ed il concreto e stabile attivarsi dei soggetti in vario modo coinvolti che la organizzazione del sodalizio – nelle sue componenti soggettiva ed oggettiva – si è disvelata come entità immanente ai diversi episodi, escludendo, quindi, la semplice configurazione di un concorso di persone in più vicende di spaccio legate fra loro dal vincolo della continuazione. La motivazione offerta al riguardo nelle sentenze di merito, specie sul versante delle significative e qualificate modalità operative del sodalizio, della capillare rete messa in opera, del rudimentale ma efficace apparato logistico di cui i sodali disponevano e della stabilità dei gruppi, cementata da legami familiari e di consolidato costume di vita, appare essere non soltanto più che adeguata sul versante della dimostrazione del "fatto associativo", ma anche solidamente agganciata a paradigmi di coerenza e logicità privi di qualsivoglia incrinatura.

Quanto, poi, ai singoli reati ascritti ai ricorrenti, le doglianze proposte da A.M. e da A.R. in ordine al reato di cui al capo 2) si rivelano prive di consistenza. La sentenza impugnata, infatti, analiticamente ha ricostruito i fatti che condussero al sequestro di oltre 500 grammi di cocaina, di un bilancino di precisione ed altri strumenti, con il tentativo di entrambi gli imputati di disfarsi della droga che ambedue, sulla base di un chiaro accordo, detenevano ed occultavano per la vendita, sfruttando l’abitazione come centrale di smistamento. Le puntuali dichiarazioni rese dal militare che materialmente partecipò a tutta l’operazione, assunte in sede di giudizio abbreviato, nonchè il più che plausibile impianto argomentativo in forza del quale i giudici dell’appello hanno disatteso la ipotesi del mero favoreggiamento che la difesa di A.R. aveva prospettato in sede di gravame e che ora ripropone nel ricorso, dissolvono la fondatezza delle doglianze proposte dai due ricorrenti.

Sono ugualmente prive di consistenza le censure proposte da A.A.. La sentenza impugnata ne ha infatti scolpito, alla luce delle conversazioni intercettate e dei controlli di polizia, il ruolo di assoluto primo piano ricoperto in seno al sodalizio, sottolineando come l’imputato si fosse in prima persona impegnato in reiterate operazioni di spaccio; avesse procurato lo stupefacente che veniva ceduto dai P. presso la loro abitazione; coordinasse l’attività degli altri imputati, fungendo da elemento di raccordo e di suggerimento per il buon esito delle operazioni, assicurando il pronto soddisfacimento delle richieste di droga; custodisse lo stupefacente e curasse le cautele da adottare nell’interesse degli associati, provvedendo, anche, alla ripartizione degli utili. Un quadro di riferimento, dunque, tutt’altro che evanescente e tale da rendere sfocati gli assunti difensivi, sterilmente attestati su profili privi di significato dirimente o su assunti coinvolgenti apprezzamenti di fatti, inibiti a questa Corte.

A proposito, poi, della doglianza relativa alla mancata applicazione della attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6, i giudici dell’appello hanno puntualmente messo in luce le circostanze di fatto alla stregua delle quali non potevano ritenersi nella specie sussistenti i presupposti per l’applicazione del cit.

D.P.R., art. 73, comma 5, con la conseguenza che l’associazione non poteva ritenersi finalizzata alla commissione di fatti di trascurabile offensività, tanto sul piano delle caratteristiche quantitative e qualitative della sostanza spacciata, che in ragione delle modalità e delle altre circostanze di fatto significative agli effetti di quello specifico scrutinio.

Le doglianze che i ricorrenti hanno proposto in punto di attenuanti generiche e di dosimetria della pena sono palesemente inammissibili, per totale assenza del requisito della specificità, avuto riguardo, d’altra parte, alla congrua ed incensurabile motivazione svolta in proposito, con riferimento a ciascuna posizione, nella sentenza impugnata, a fronte della quale non si additano, in concreto, vizi significativi sul piano del sindacato di legittimità riservato a questa Corte.

Sono invece inammissibili i ricorsi proposti da A.C., P.D., P.F. e P.P..

Quanto al ricorso proposto nell’interesse di A.C., i rilievi si concentrano su aspetti di merito, in ordine ai quali la Corte territoriale ha fornito più che adeguata e coerente risposta, tanto sul versante della "interpretazione" di talune espressioni che compaiono nelle intercettazioni, che su quello della approfondita disamina del ruolo svolto dall’imputato in ordine all’episodio al medesimo contestato.

Per P.D., le censure, oltre che nella sostanza generiche e rivolte a sollecitare una rilettura alternativa delle risultanze probatorie, si limitano ad una riproposizione di tematiche tutte già devolute ed ampiamente scandagliate dai giudici dell’appello, rimanendo per ciò stesso travolte dal vizio di aspecificità. La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai da tempo consolidata nell’affermare che deve essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.

La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), alla inammissibilità della impugnazione (Cass., Sez. 1, 30 settembre 2004, Burzotta; Cass., Sez. 6, 8 ottobre 2002, Notaristefano; Cass., Sez. 4, 11 aprile 2001 Cass., Sez. 4, 29 marzo 2000, Barone; Cass., Sez. 4, 18 settembre 1997, Ahmetovic).

Palesemente destituite di fondamento sono a loro volta le censure proposte nei ricorsi rassegnati da e nell’interesse di P. P., posto che tanto in punto di responsabilità, che in materia di trattamento sanzionatorio e di mancata concessione delle attenuanti generiche, i rilievi svolti negli atti di impugnativa non si discostano da una sostanzialmente generica critica impugnatoria, che isola spezzoni di motivazione per inferirne incoerenze ed aporie del tutto insussistenti. La sentenza impugnata, al contrario, offre una puntuale ricostruzione del ruolo svolto dall’imputato in seno al contestato sodalizio, evidenziandone l’intimo collegamento operativo con A.A., la stabilità dei contatti con gli altri associati ed il ruolo di protagonista in vari episodi di spaccio, tutti convergenti nel quadro della specifica "vita associativa" cui l’imputato attivamente partecipava.

Quanto a P.F., i motivi di ricorso si concentrano in una generica contestazione degli elementi di responsabilità, senza nessun reale e concreto aggancio con gli specifici elementi di prova evocati a carico dell’imputato dai giudici dell’appello, posto che, contrariamente a quanto assume il ricorrente, la Corte territoriale non si è limitata a riprodurre significative conversazioni, motivatamente riferite alla persona dell’imputato, ma ne ha anche operato una attenta e coordinata lettura, traendo da essa, non un semplice caleidoscopio di episodi scollegati fra loro, ma un esauriente reticolo di acquisizioni, che univocamente asseverava lo stabile ruolo ricoperto dall’imputato all’interno del collaudato sodalizio. Dell’imputato, infatti, è stata più che adeguatamente posta in luce la stretta convergenza di intenti e di attività che lo legava a A.A., di cui figurava come il "braccio destro"; gli stabili contatti operativi mantenuti con gli altri sodali, ed il ruolo di diretto protagonista in vari episodi di spaccio, oltre che di trasporto di stupefacente. Un quadro, dunque, solo assertivamente contrastato dal ricorrente, che non pone in luce effettivi vizi di legittimità della decisione impugnata.

I ricorrenti devono essere pertanto tutti condannati al pagamento delle spese processuali. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di A.C., P.D., P. F. e P.P. segue la condanna del ricorrenti stessi anche al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro 1.000,00 ciascuno, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi di A.M., A.R., A.A., P.M. e dichiara inammissibili quelli di A.C., P.D., P. F. e P.P.; condanna i predetti al pagamento delle spese processuali e condanna altresì A.C., P.D., P.F. e P.P. al versamento di Euro mille ciascuno alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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