Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-04-2011) 27-05-2011, n. 21321 Inquinamento atmosferico

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 10.12.2009 la Corte d’Appello di Trieste confermava la condanna alla pena dell’arresto e dell’ammenda che condonava inflitta nel giudizio di primo grado a F.G. e a S.C. perchè colpevoli dei reati di cui al D.P.R. n. 203 del 1988, art. 24, comma 2, quali titolari di un’azienda agricola avevano attivato e utilizzato un impianto non autorizzato d’emissioni diffuse in atmosfera: capannone a uso deposito e lavorazione di granaglie e art. 674 c.p. svolgendo la suddetta attività avevano cagionato emissione di fumi, gas e vapori atti molestare le persone, nonchè le statuizioni in favore delle parti civili.

Proponevano ricorso per cassazione gli imputati denunciando:

violazione di legge; mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione sulla ritenuta correttezza dell’enunciazione del fatto dell’imputazione ex art. 674 c.p., seconda parte, perchè "la descrizione del fatto risulta(va) meramente ripetitiva del dettato dell’art. 674 c.p. e non viene (veniva) nemmeno precisato il tipo di emissione molesta con conseguente pregiudizio del diritto di difesa".

Sebbene la rubrica avesse menzionato l’emissione di fumi, gas e vapori, in sostanza non era stata data contezza agli imputati di quali fossero quelle che integravano il reato contestato.

La corte territoriale le aveva ravvisate in odori sgradevoli e nauseabondi, in contrasto con quanto essa stessa aveva ritenuto nel rigettare l’eccezione d’indeterminatezza dell’imputazione e con quanto ritenuto dal tribunale che aveva parlato di emissioni pulverulenti, sicchè non era stata accertata la loro concreta tipologia;

violazione del D.P.R. n. 203 del 1988, art. 24, comma 2, e degli artt. 521 e 522 c.p.p. relativamente alla ritenuta configurabilità del reato attivazione e utilizzazione d’impianto di emissioni diffuse in atmosfera (capannone a uso deposito e lavorazione granaglie) non autorizzato poichè solo gli impianti con emissioni convogliate o tecnicamente convogliagli rientrano nella previsione della norma, mentre quello de quo era un impianto con emissioni diffuse escluso dal campo d’applicazione della norma e come ritenuto dalla Direzione regionale dell’ambiente nel provvedimento protocollo n. 4451 del 1^ marzo 2000;

violazione di legge sull’omessa declaratoria d’estinzione dei reati per prescrizione avendo erroneamente ritenuto la corte d’appello che il reato di cui al Decreto n. 203 del 1988 abbia natura permanente, sicchè il dies a quo coincideva con l’inizio dell’attività aziendale (1993).

Tuttavia, il reato sarebbe prescritto anche se dovesse considerarsi come permanente dato che, alla stregua della massima n. 9403/2008, la Direzione regionale dell’ambiente era venuta a conoscenza dell’attivazione dell’impianto nell’anno 1997;

mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione sulla ritenuta configurabilità del reato di cui all’art. 674 c.p. stante che altro processo avviato carico a degli imputati con analoga imputazione, nel quale aveva deposto l’attuale parte civile C., si era concluso il 7.02.2000 con sentenza di assoluzione perchè il fatto non sussiste.

A tale rilievo la corte d’appello non aveva dato risposta;

totale mancanza di motivazione sulla liquidazione delle spese di rappresentanza e difesa liquidate alle parti civili nel giudizio d’appello perchè le note spese presentate dalle stesse non trovavano corrispondenza con le tariffe forensi in vigore.

Chiedevano i ricorrenti l’annullamento della sentenza.

Va, anzitutto, osservato che il ricorso, come si rileverà, non è manifestamente infondato, sicchè i reati, commessi fino 2.03.2005 sulla natura permanente della contravvenzione di cui al D.P.R. n. 203 del 1988, ora sostituito, con continuità normativa, dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 279, comma 1, si pone la maggioritaria giurisprudenza di questa Sezione 3^: n. 9403/2008 RV. 2389233; n. 12710/1994 RV. 200951; n. 8703/1994 RV.199415, sono prescritti perchè dal dies a quo è decorso il termine massimo di anni 4 mesi 6 che deve essere aumentato di mesi 10 giorni 7 per un rinvio del dibattimento richiesto dalla difesa.

Resta da decidere sulle statuizioni civili perchè l’art. 578 c.p.p. dispone che il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare estinto per prescrizione il reato per il quale è intervenuta condanna, è tenuto a decidere sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni dei capi della sentenza che concernono gli effetti civili.

Si ha corretta enunciazione del fatto, ai sensi dell’art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c), quando siano sufficientemente individuati e specificati i tratti essenziali del fatto attribuito per consentire all’imputato di apprestare la propria difesa.

Non è necessaria una dettagliata imputazione in considerazione della centralità del dibattimento; dei poteri conferiti al giudice sia in materia d’integrazione del materiale probatorio insufficiente o mancante ex art. 507 c.p.p., che in tema d’ammissione di prove, e della possibilità di procedere a contestazione suppletiva e a modificazione dell’imputazione ex art. 516 c.p.p..

Ciò in aderenza col nuovo sistema processuale, disancorato da visioni formalistiche e teso a considerare l’imputazione nel suo complesso e col fondamentale principio iura novit curia.

In altri termini, il requisito dell’enunciazione del fatto in tanto può ritenersi carente in quanto, in concreto, possa affermarsi che l’imputato non abbia potuto conoscere i tratti essenziali della fattispecie di reato, attribuitagli dall’accusa, sì da non potersi adeguatamente difendere cfr. Cassazione Sezione 6^ n. 21953/2003 RV. 226273; Sezione 1^, n. 382, 19.11.1999, Piccini RV. 215140.

Nella specie ciò non è riscontrabile essendo stati indicati nelle imputazioni la natura dell’impianto produttivo e il tipo di lavorazione svolta da cui era conseguita l’emissione in atmosfera di fumi gas e vapori atti a molestare le persone, sicchè la difesa sulla base di tali dati fattuali, integrati dalle acquisizioni dibattimentali, è stata posta in condizione di difendersi compiutamente.

Assumono i ricorrenti che non sarebbe configurabile il reato di cui al D.P.R. n. 203 del 1988, art. 24, comma 2, attivazione e utilizzazione d’impianto di emissioni diffuse in atmosfera (capannone a uso deposito e lavorazione granaglie) non autorizzato poichè solo gli impianti con emissioni convogliate o tecnicamente convogliabili rientrano nella previsione della norma, mentre quello de quo era un impianto con emissioni diffuse escluso dal campo d’applicazione della norma, come affermato da questa sezione nella sentenza n. 9757/2004 e come ritenuto dalla Direzione regionale dell’ambiente nel provvedimento protocollo n. 4451 del 1^ marzo 2000.

La censura è infondata.

Il D.P.R. 24 maggio 1988 n. 203 sottopone a preventivo controllo nella forma di un’autorizzazione regionale espressa e specifica l’inizio della costruzione di un nuovo impianto e distingue tale momento da quello dell’attivazione dell’esercizio egualmente soggetto a controllo regionale cfr. la decisione di questa sezione n. 8703/1994, RV. 199415.

L’art. 1 del decreto sottoponeva alla suddetta disciplina "tutti gli impianti che possono dar luogo a emissioni nell’atmosfera", mentre la definizione d’impianto di cui al punto 9 dell’art. 2 riguardava lo "stabilimento o altro impianto fisso che serva per usi industriali o di pubblica utilità e possa provocare inquinamento atmosferico, ad esclusione di quelli destinati alla difesa nazionale".

Le iniziali incertezze circa la portata della norma sono venute sostanzialmente meno per effetto del D.P.C.M. 21 luglio 1989, che ha dettato norme d’indirizzo e coordinamento per l’attuazione e l’interpretazione del D.P.R. n. 203 del 1988, stabilendo la sua applicazione "agli impianti industriali di produzione di beni o servizi…escludendo gli impianti termici non inseriti in un ciclo di produzione…, gli impianti di climatizzazione…, gli impianti termici destinati esclusivamente a riscaldamento dei locali".

L’assoggettabilità o meno dei singoli impianti alla suddetta normativa (D.P.R. n. 203 del 1988), inoltre, ha dato luogo a diverse pronunce della Suprema Corte che si è soffermata sulla definizione d’inquinamento atmosferico di cui all’art. 2, punto 1, riscontrandone la sussistenza "….non necessariamente in caso di un accertato pericolo di danno alla salute dell’uomo, per la presenza di sostanze inquinanti o tossiche o nocive, ma anche solo per un’alterazione dell’atmosfera che incida negativamente sui beni naturali o anche semplicemente sull’uso di essi…" Cassazione Sezione 3^, 3/3/1992, Forte; Cassazione Sezione 1^, 7/6/1996.

Quanto alle emissioni inquinanti convogliate o tecnicamente convogliagli di cui al D.P.C.M. 21 luglio 1989, art. 1 (modificato dal D.P.R. 25 luglio 1991), che delinea l’ambito di applicazione del D.P.R. n. 203 del 1988, è pacifico che l’accertamento dell’effettivo convogliamento o della convogliabilità tecnica delle emissioni inquinanti di un impianto è questione di fatto riservata al giudice del merito, sicchè, nella specie, non è censurabile la ritenuta configurabilità del reato avente a oggetto un impianto nel senso voluto dal legislatore, tale essendo il capannone a uso deposito granaglie e uffici ma di fatto utilizzato per la lavorazione di detti prodotti in violazione delle prescrizioni contenute nella concessione edilizia riguardante un magazzino imposte per contenere le emissioni in atmosfere di fumi polveri ed esalazioni che erano tecnicamente convogliabili, donde l’applicabilità della disciplina del D.P.R. n. 203 del 1988, come ritenuto dai giudici di merito, con accertamento di fatto insindacabile in questa sede, in quanto adeguatamente motivato.

Alla luce delle suddette considerazioni, rientrava nell’ambito di applicazione del decreto citato la condotta de qua consistita non soltanto nell’attivazione dell’impianto, ma anche nel successivo esercizio per il quale occorreva apposita autorizzazione, donde la corretta esclusione dell’invocata buona fede insostenibile di fronte alla piena consapevolezza delle emissioni in atmosfera in occasione delle frequenti movimentazioni delle granaglie all’esterno o all’interno, con le finestre lasciate aperte, dello stabilimento.

Va, ora, esaminato il motivo attinente alla violazione dell’art. 674 c.p. alla luce dei più recenti approdi giurisprudenziali di questa Corte secondo cui la clausola "nei casi non consentiti dalla legge", propriamente riservata all’emissione di gas, vapori o fumi prevista nella seconda parte della norma, va intesa nel senso che, quando la diffusione provenga da un’attività economica socialmente utile e, come tale, legislativamente disciplinata, esula il reato se la diffusione è consentita dalla legge, ovverosia non supera i limiti tabellari previsti dalla legge speciale vigente nella soggetta materia Cassazione Sezione 3^, n. 36845/2008, PG. e P.C. in proc. Tucci e altri.

In tal caso non può intervenire condanna penale per un’emissione in atmosfera che la legge speciale consente e valuta come tipicamente non pericolosa.

Tuttavia, la predetta clausola esclude il reato non per tutte le emissioni provocate dall’attività industriale regolamentata e autorizzata, ma solo per quelle emissioni che sono specificamente consentite attraverso limiti tabellari o altre determinate disposizioni amministrative potendosi solo queste ultime emissioni presumersi legittime Sezione 3^ n. 16286/2008, RV. 243456: la clausola "nei casi non consentiti dalla legge", contemplata nell’art. 674 c.p., non è riferibile alla condotta di getto o versamento pericoloso di cose di cui alla prima parte della norma citata, ma esclude il reato solo per le emissioni di gas, vapori o fumo che sono specificamente consentite attraverso limiti tabellari o altre determinate disposizioni amministrative. (Fattispecie nella quale è stata esclusa l’applicabilità di tale clausola in un caso di diffusione di polveri nell’atmosfera provocate nel corso di un’attività produttiva, emissioni vietato dal D.M. 12 luglio 1990, impositivo di misure di cautela e prevenzione molto rigorose).

Invece, non possono presumersi come legittime le altre emissioni, connesse più o meno direttamente all’attività produttiva regolamentata, che il legislatore non disciplina specificamente o che addirittura considera pericolose perchè superiori ai limiti tabellari, o che vuole comunque evitare attraverso misure di prevenzione e di cautela imposte all’imprenditore (Cassazione Sezione 3^ n. 40191/2007, Schembri, RV. 238054; Sezione 3^ n. 2475/2007, Alghisi, RV. 238447.

Muovendo da tali premesse, è ineccepibile la valutazione giuridica della corte territoriale che, pur discostandosi dalla tesi del tribunale, si è adeguata all’esegesi normativa dominante.

Ribadito che "la fattispecie di cui all’art. 674 c.p. non richiede per la sua configurabilità il verificarsi di un effettivo nocumento alle persone, essendo sufficiente il semplice realizzarsi di una situazione di pericolo di offesa al bene che la norma intende tutelare, atteso che anche con ciò può determinarsi un rischio per la salubrità dell’ambiente e conseguentemente della saluta umana" (Cassazione Sezione 3^, n. 46846/2005, RV. 232652) e che "tale ipotesi di reato può concorrere con quelle relative alla tutela dell’ambiente stante la diversa struttura dello fattispecie e i differenti beni giuridici tutelati" (cfr. Cassazione Sezione 1^, n. 26109/2005, RV. 231882), correttamente è stato ritenuto che le emissioni in atmosfera provocate nella gestione dell’impianto produttivo a causa della mancata adozione di accorgimenti diretti ad assicurare la corretta captazione e il razionale convogliamento delle "esalazioni di odore moleste, nauseanti o puzzolenti" abbiano avuto impatto negativo, anche psichico, sull’esercizio delle normali attività quotidiane di lavoro e di relazione delle parti civili, come era stato dimostrato dalle deposizioni delle stesse e del loro medico curante, donde l’assoluta irrilevanza, anche sotto il profilo della buona fede, del proscioglimento da analoga violazione intervenuta in precedenza stante la diversità della situazione di fatto accertata nel processo de quo.

La censura sulla liquidazione delle spese in favore delle parti civili, liquidate nel giudizio di appello senza specificazione delle singole poste, non è puntuale perchè si limita a segnalare che le note spese presentavano valori che non trovano rispondenza nelle tariffe forensi in vigore, sicchè non è possibile verificare, in concreto, se l’importo della liquidazione rientrasse o meno nei limiti massimi tabellari.
P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere i reati estinti per prescrizione e conferma le statuizioni civili.

Condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del grado in favore delle parti civili che liquida complessivamente in Euro 1.500,00, oltre accessori di legge, per ciascuna di esse.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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