Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 13-04-2011) 27-05-2011, n. 21311

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Gup presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. con sentenza del 7/12/06. resa a seguito di rito abbreviato, dichiarava R. E. colpevole dei reati di cui all’art. 416 c.p., al D.P.R. n. 152 del 2006, artt. 256 e 260 e unificatili ex art. 81 c.p.. individuata la violazione più grave in quella di associazione a delinquere. lo condannava alla pena di anni 7 di reclusione, con applicazione delle pene accessorie, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, da liquidarsi in separata sede, e al pagamento di una provvisionale per ciascuna di esse.

La Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 25/2/09. chiamata a pronunciarsi sugli appelli avanzati nell’interesse dell’imputato e dai difensori dell’Adiconsum e del Consorzio per la Tutela della Mozzarella di Bufala Campana, ha confermato la sentenza di prime cure.

I difensori del R. propongono autonomi ricorsi per cassazione, con i motivi di seguito riportati: – violazione degli artt. 74 e segg. c.p.p., L. n. 349 del 1986, art. 18 e L. n. 265 del 1989, art. 4, rilevato che la Corte territoriale ha omesso di argomentare e dare adeguato riscontro ad uno specifico motivo di appello, con cui la difesa del prevenuto eccepiva la illegittimità della costituzione delle parti civili, limitandosi a condividere quanto sul punto il Tribunale aveva affermato:

– nullità della sentenza per violazione dell’art. 335 c.p.p., e art. 407 c.p.p., comma 3 inutilizzabilità delle risultanze investigative, in quanto, la tardivilà della iscrizione del prevenuto nel registro degli indagati, che andava eseguita immediatamente, non avrebbe potuto permettere di considerare utilizzabili gli atti di indagine compiuti, considerando quale termine a quo la predetta tardiva iscrizione.

E’ evidente che nella mancanza della iscrizione del R.E. nel registro degli indagati i decreti di intercettazione dovevano ritenersi nulli, poichè emessi in assenza di gravi indizi di reato.

– violazione degli artt. 191 e 266 c.p.p. e ss. col considerare che solo alla data del 5/10/05 il p.m. acquisì la documentazione relativa al volume di affari della R.F.G. s.r.l..

L’assenza di cognizione di tale elemento in tempo precedente determina, come logica conseguenza, che erano insussistenti gli elementi per procedere in ordine al reato di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 53 bis, per mancanza del requisito quantitativo del traffico ingente, derivando da ciò la inutilizzabililà di tutte le intercettazioni effettuate, in quanto le stesse non potevano essere disposte solo in relazione alla contravvenzione di cui al citato art. 51;

– violazione degli artt. 416 e 417 c.p.p.. in quanto non si palesa correttamente ed esaustivamente accettabile il discorso giustificativo svolto dal decidente, nel rigettare le ragioni addotte dalla difesa del prevenuto, con il limitarsi a ritenere la insussistenza di ogni e qualunque lesione al diritto di difesa: la richiesta di rinvio a giudizio, stilata dal p.m. presenta, di contro, dei profili insuperabili di nullità, collegati alla genericità ed imprecisione della imputazione formulata.

Si contraddice lo stesso decidente sul punto allorchè prima afferma che detta lacunosità non determina difetto alcuno, per poi affermare che la stessa genericità di imputazione, operata dal p.m.. costituirebbe causa di nullità relativa, sanata dalla scelta del rito abbreviato.

– violazione dell’art. 63 c.p.p. in relazione ai reati contestati, perchè è indubbio che i giudici di merito hanno posto a fondamento del proprio giudizio elementi indizianti acquisiti in violazione del disposto normativo di cui al citato articolo, in quanto emerge dagli atti che i soggetti in questione sono stati escussi in merito ad alcuni sversamenti di concimi per allevamenti su fondi di loro proprietà, che hanno costituito oggetto di specifiche attività di accertamento da parte della p.g..

Sussisteva, con netta evidenza, la necessità di escutere i proprietari dei terreni con le garanzie di cui all’art. 63 c.p.p. potendosi, all’esito dell’accesso sul fondo, ipotizzare la sussistenza del reato di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51 a carico degli stessi;

– nullità della sentenza per violazione dell’art. 192 c.p.p. in relazione ai reati contestati, perchè i giudici di merito hanno individuato la R.G.F. s.r.l. come elemento fondamentale del compendio di mezzi, utilizzato dalla associazione a delinquere promossa dall’imputato e dal figlio di esso, Ro.Fr., ignorando tutte le prove documentali, relative alla regolare attività svolta dalla società predetta, rinvenibili nelle certificazioni abilitative all’esercizio della attività a cui la R.G.F. era autorizzata.

Va, sul punto, sottolineata una ulteriore lacuna nella pronuncia impugnata, derivante dal rigetto della istanza di rinnovo della istruttoria dibattimentale, che avrebbe permesso di acclarare l’assunto della difesa del prevenuto, in ordine alla corrispondenza tra attività svolta dalla società e autorizzazioni alla stessa rilasciate;

– errata applicazione della legge penale ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 416 c.p., artt. 192 e 125 c.p.p. rilevato che non sussiste nella specie, alcun elemento che possa lare ritenere concretizzato il reato di associazione a delinquere.

Il discorso svolto sul punto da parte della Corte distrettuale, con netta evidenza, si palesa elusivo, non ottempera al dovuto riscontro al precipuo motivo di appello, trincerandosi su apodittiche affermazioni, in difetto di ogni e qualunque supporto, ma. specialmente, allontanandosi dai parametri individuanti la fattispecie di reato contestata;

– ha errato il giudice di inerito nel non volere ritenere la incompatibilità e, tutto al più, l’assorbimento del reato di cui all’art. 416 c.p. con quello previsto dalla L. n. 152 del 2006, art. 260, visto che quest’ultima norma descrive una fattispecie associativa speciale, rispetto a quella più genericamente individuata dall’art. 416 c.p.;

– ulteriore censura viene mossa al diniego delle attenuanti generiche e di quelle di cui all’art. 114 c.p., diniego non supportato da adeguata e corretta giustificazione, anzi sul punto si può affermare che la giustificazione è fisicamente assente.
Motivi della decisione

I ricorsi sono infondati e vanno rigettati.

La argomentazione motivazionale. adottata dal decidente a sostegno della affermata colpevolezza del prevenuto in ordine ai reati ad esso ascritti, si palesa, in tutta evidenza, logica e corretta.

La censura avanzata col primo motivo, relativa alla illegittimità della costituzione delle parti civili è priva di pregio.

Sul punto si osserva che la L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 3 attribuiva allo Stato e agli enti territoriali, sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo, la legittimazione a promuovere la relativa azione per il risarcimento del danno, anche se esercitata in sede penale.

Il suddetto art. 18 è stato, però, abrogato dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 318, comma 2, lett. a), ad eccezione del comma 5, che riconosce alle associazioni ambientaliste il diritto di intervenire nei giudizi per danno ambientale.

La normativa vigente riserva allo Stato ed in particolare al ministro dell’ambiente e della tutela del territorio il potere di agire per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, anche esercitando l’azione civile in sede penale (art. 311).

Le regioni e gli enti territoriali minori, in forza dell’art. 309, comma 1, possono presentare denunce ed osservazioni nell’ambito di procedimenti finalizzati alla adozione di misure di prevenzione, precauzione e ripristino, oppure possono sollecitare l’intervento statale a tutela dell’ambiente, mentre non hanno più il potere di agire iure proprio per il risarcimento del danno ambientale.

A seguito del citato mutamento legislativo la giurisprudenza di questa Corte ha rilevato che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non soltanto al ministro dell’ambiente, D.Lgs. n. 152 del 2006, ex art. 311, comma 1, ma anche all’ente pubblico territoriale, che, per effetto della condotta illecita, abbia subito un danno patrimoniale risarcibile, ai sensi dell’art. 2043 c.c. (Cass. 28/10/09, Ciarloni).

Di tal che il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sè considerato come lesione dell’interesse pubblico e generale dell’ambiente, ora previsto e disciplinato soltanto dall’art. 311 cit. spetta esclusivamente allo Stato; tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, sono legittimati ad agire, ex art. 2043 c.c., per ottenere qualsiasi risarcimento del danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di avere subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente in attinenza alla lesione di altri loro diritti patrimoniali, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente (Cass. 21/10/2010, n. 41015; Cass. 11/2/2010, n. 14828).

In dipendenza di quanto osservato, nel caso in esame, a giusta ragione, i giudici di merito hanno ritenuto sussistere, in capo alle parti civili la legitimatio ad processum.

Del pari non meritevole di accoglimento risulta essere il secondo motivo di ricorso, osservando che questa Corte ha affermato che il termine delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il p.m. ha iscritto nel registro delle notizie di reato il nome della persona cui il reato è attribuito, senza che al Gip sia consentito stabilire una diversa decorrenza, sicchè gli eventuali ritardi indebiti nella iscrizione, tanto della notizia di reato, quanto del nome della persona cui lo stesso reato è attribuito, pur se abnormi, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dall’art. 407 c.p.p., comma 3; nè l’eventuale violazione del dovere di tempestiva iscrizione, che pur potrebbe configurare responsabilità disciplinari o addirittura penali a carico del p.m. negligente, è causa di nullità degli atti compiuti, non ipotizzabile in assenza di una espressa previsione di legge, in ossequio al principio di tassatività, fissato dall’art. 177 del codice di rito (Cass. S.U. 24/9/09, n. 40538; Cass. 8/4/08, Bruno).

Conseguentemente la tardività della iscrizione nel registro delle notizie del reato del R. non può determinare la inutilizzabilità delle indagini (nella specie intercettazioni telefoniche) acquisite precedentemente a detta iscrizione (Cass. S.U. 21/6/2000, Tammaro).

In ordine alla acquisizione di elementi indizianti in violazione delle disposizioni normative di cui agli artt. 266 c.p.p. e ss. si evidenzia che l’autorizzazione a disporre la intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche, o di altre forme di telecomunicazione, presuppone la esistenza di gravi indizi di reato, compreso tra quelli indicati al comma 1 del citato art. 266, e la indispensabilità della intercettazione.

I gravi indizi di reato, che costituiscono, quindi, il presupposto per il ricorso alle intercettazioni attengono alla esistenza dell’illecito penale e non alla colpevolezza di un determinato soggetto, sicchè per procedere legittimamente ad intercettazioni non è necessario che tali indizi siano a carico di una persona individuata o del soggetto le cui comunicazioni debbano essere captate a fine di indagine (ex plurimis Cass. 21/12/06, n. 42017).

Nella specie, come, evidenziato dai giudici di merito, le disposte intercettazioni telefoniche risultavano pienamente giustificate dal fatto che erano in corso indagini relative ad un imponente traffico di rifiuti pericolosi.

Infondata si palesa la eccezione di violazione del diritto di difesa, determinata dalla imprecisione e genericità della imputazione, così come formulata, per due ordini di motivi: in primis i capi di imputazione sono sufficientemente completi e permettono all’imputato di predisporre una piena ed adeguata contestazione all’accusa; di poi, la applicazione del rito premiale, invocata dal prevenuto è preclusiva alla proposizione di detta eccezione.

In ordine alla contestata violazione dell’art. 63 c.p.p., si ribadisce che la sanzione di inutilizzabilità "erga omnes" delle dichiarazioni assunte senza garanzie difensive da un soggetto che avrebbe dovuto, sin dall’inizio, essere sentito in qualità di imputato o persona soggetta alle indagini, postula che a carico dell’interessato siano già acquisiti, prima della escussione, indizi non equivoci di reità, come tali conosciuti dalla autorità procedente, non rilevando a tale proposito eventuali sospetti o intuizioni personali dell’interrogante (Cass. 23/4/09, n. 8).

Ne consegue che tale condizione non può automaticamente farsi derivare dal solo fatto che i dichiaranti risultino essere stati in qualche modo coinvolti in vicende potenzialmente suscettibili di dare luogo alla formulazione di addebiti penali a loro carico, occorrendo, invece, che tali vicende, per come percepite dalla autorità inquirente, presentino connotazioni tali da non potere formare oggetto di ulteriori indagini se non postulando necessariamente la esistenza di responsabilità penali a carico di tutti i soggetti coinvolti o di taluni di essi (Cass. 8/11/07, n. 40/60).

Osservasi, ancora, che ai sensi del citato art. 63 c.p.p. le dichiarazioni rese da coloro che avrebbero dovuto, sin dall’inizio della deposizione, essere sentiti con le modalità prescritte per l’audizione degli indagati e, di contro, sono stati assunti in difetto di esse, sono inutilizzabili contra se e contra alios.

Se, invece, nel corso della escussione la loro posizione di persona informata sui fatti muta in quella di indagata, le pregresse dichiarazioni da essi fornite non possono essere utilizzate contra se, ma lo possono contra alios: nel caso di specie nessuna emergenza giustifica la conclusione del ricorrente, peraltro immotivata, che le due indicate persone fossero destinatarie di indagini ab origine.

Peraltro, la Corte territoriale rileva, a giusta ragione, come, anche a volere ritenere inutilizzabili le dichiarazioni de quibus, l’impalcatura del teorema accusatorio non sarebbe risultato affatto compromessa, visto che la prova di reità risulta solidalmente assicurata dagli esiti dei controlli operati dai C.C. sui fondi agricoli siti nei Comuni di Castel Volturno, Villa Literno, San Tammaro e Falciano del Massico, nel corso dei quali vennero direttamente constatati sversamenti di fanghi di depurazione e di altri materiali inquinanti.

Non meritevole di accoglimento è, del pari, la eccezione di violazione dell’art. 192 c.p.p.: il giudice, a giusta ragione, ritiene che a nulla rileva che la società di cui il prevenuto era amministratore occulto avesse ottenuto tutte le attestazioni per esercitare la attività che secondo statuto era indicata, in quanto, parallelamente a detta attività (lecita), ne veniva svolta altra tendente a realizzare l’obiettivo criminoso preso di mira.

La doglianza, di poi, tende ad una rivalutazione della piattaforma probatoria, su cui al giudice di legittimità è precluso di procedere a rianalisi estimativa.

Sulla concretizzazione del reato contestato al capo a), la sentenza appare compiutamente argomentata, rilevato che il giudice di merito richiama le emergenze istruttorie che cristallizzano la condotta in quella tipica prevista dall’art. 416 c.p.p., in ragione del carattere dell’accordo criminoso, determinante un vincolo permanente a causa della consapevolezza di ciascuno degli associati di fare parte di un sodalizio e di partecipare con contributo causale, alla realizzazione di un duraturo programma criminale: il R.E., era il promotore e il gestore della associazione; il figlio di costui, Ro.

F., il B.N., il C.F., il D. R. e il F.G., contribuivano, ciascuno, adempiendo ai compiti loro demandati dal prevenuto, a far sì che l’attività illecita raggiungesse lo scopo prefisso.

Nè, nella specie, è da considerare il reato di cui all’art. 416 c.p. assorbito dalla fattispecie criminosa di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 260, e ciò in dipendenza della diversità degli illeciti commessi dai consociati, costituente il vasto programma delinquenziale posto in essere dalla associazione.

Il diniego delle attenuanti generiche e la quantificazione della pena, nella misura come inflitta, risultano ampiamente e correttamente argomentati, con l’evidenziare gli elementi ritenuti preclusivi all’accoglimento delle istanze avanzate dalla difesa dell’imputato: la durata operativa della associazione, il quantitativo di rifiuti illecitamente accettati presso l’impianto, l’entità di essi sversati e solo in limitatissima misura censiti dagli inquirenti, il numero e la dimensione dei terreni interessati agli sversamenti, la pericolosità di una parte di essi rifiuti, la ingente quantità dei profitti conseguiti e programmati in uno alla lesione degli interessi tutelati; la pericolosità soggettiva del R., ravvisabile nei precedenti penali a carico, nella spregiudicata insensibilità dimostrata nel, perpetrare la condotta illecita contestatagli; elementi tutti ampiamente giustificativi delle conclusioni a cui è pervenuto il decidente nel non applicare l’art. 62 bis c.p. e nel determinare il trattamento sanzionatorio inflitto.
P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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