Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 15-04-2011) 30-05-2011, n. 21605 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

SO Aurelio che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo

1. Il 24 maggio 2010 il Tribunale di Reggio Calabria, costituito ai sensi dell’art. 310 c.p.p., in parziale accoglimento dell’appello proposto da F.D. avverso l’ordinanza in data 5 febbraio 2010 con la quale il gip del locale Tribunale aveva rigettato la richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere a suo tempo disposta per i delitti di associazione per delinquere di stampo mafioso e di concorso in tentata estorsione ai danni di B.F.A., aggravata ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, revocava il provvedimento privativo della libertà personale limitatamente al delitto di cui all’art. 416-bis c.p., confermandolo nel resto.

2. Ad avviso del Tribunale, gravi indizi di colpevolezza nei confronti di F. in relazione al delitto di concorso in tentata estorsione erano costituiti dal contenuto delle intercettazioni ambientali disposte sull’auto in uso a B. (cfr. in particolare conversazione del 17 settembre 2009, ore 14,12, intercorsa tra B. e Fo.Fr.) e dalle stesse dichiarazioni rese dalla parte offesa. Dal complesso di questi elementi emergeva che F., evocando la forza di intimidazione promanante dal gruppo di criminalità organizzata dai stampo mafioso capeggiata da suo cugino, C.I., e intimando agli operai di allontanarsi dal luogo di lavoro, lo aveva costretto a promettere, in cambio della possibilità di proseguire l’attività, il versamento di una tangente pari a complessivi mille piante di pino, destinate per la metà a lui stesso e per l’altra parte a suo cugino C. I., piante derivanti dal taglio di una pineta in comune di Cinquefrondi, programmato per il marzo-aprile 2010.

Il Tribunale riteneva sussistenti le esigenze cautelari sotto il profilo dell’art. 274 c.p.p., lett. c), tenuto conto della estrema gravità dei fatti, delle loro modalità di consumazione, della negativa personalità di F., gravato da plurimi precedenti, e sottolineava che l’unica misura adeguata a contenere la pericolosità manifestata da B. appariva quella della custodia cautelare in carcere.

2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, F., il quale lamenta: a) erronea applicazione della legge penale e illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta configurabilità del delitto di tentata estorsione e alla sussistenza dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, considerato che l’indagato si era limitato ad esercitare un legittimo diritto su un terreno di sua proprietà; b) erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari.
Motivi della decisione

Il ricorso non è fondato.

1. Il Tribunale ha attentamente analizzato, con motivazione esauriente ed immune da vizi logici e giuridici, le risultanze probatorie disponibili e ha desunto la gravità degli indizi di colpevolezza in ordine al delitto di concorso in tentata estorsione aggravata in danno di B.F.A. dal contenuto delle intercettazioni ritualmente disposte e dalle dichiarazioni della parte offesa.

Sulla base di questi elementi ha argomentato, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, che B., impegnato nell’esecuzione dei lavori di disboscamento di un terreno posto in località Cinquefrondi, era stato costretto a promettere a C.I. e al cugino di quest’ultimo, F.D., cinquecento piante ciascuno, derivanti dai lavori, non ancora iniziati, di taglio di una pineta. La predetta dazione era indispensabile per potere lavorare, per godere della loro protezione e non subire danni di sorta. La richiesta, formulata con tipica metodologia mafiosa, intimando agli operai di allontanarsi dal luogo di lavoro e, in quanto tale, idonea ad esercitare una particolare coazione psicologica sulla parte offesa, era stata accolta da B. per timore di rappresaglie, considerato anche il contesto criminale in cui si essa si inquadrava.

Orbene, lo sviluppo argomentativo della motivazione è fondato su una coerente analisi critica degli elementi indizianti e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi del requisito della gravità, nel senso che questi sono stati reputati conducenti, con un elevato grado di probabilità, rispetto al tema di indagine concernente la responsabilità di F.D. in ordine al delitto di tentata estorsione aggravata a lui contestato.

Di talchè, considerato che la valutazione compiuta dal Tribunale verte sul grado di inferenza degli indizi e, quindi, sull’attitudine più o meno dimostrativa degli stessi in termini di qualificata probabilità di colpevolezza anche se non di certezza, deve porsi in risalto che la motivazione dell’ordinanza impugnata supera il vaglio di legittimità demandato a questa Corte, il cui sindacato non può non arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e della conformità ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, prescritti dall’art. 273 c.p.p. per l’emissione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, senza poter attingere l’intrinseca consistenza delle valutazioni riservate al giudice di merito.

Il Tribunale del riesame ha correttamente qualificato la condotta ascritta a F., in concorso con C.. Ai fini, infatti, della configurabilità del delitto di estorsione la minaccia può essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o indeterminata, purchè sia idonea, avuto riguardo alle circostanze concrete, a incutere timore e a coartare la volontà della vittima. La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l’elemento strutturale del delitto di estorsione devono essere apprezzate in rapporto a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa, le condizioni soggettive della vittima, a nulla rilevando che si verifichi un’effettiva intimidazione del soggetto passivo (cfr. ex plurimis Sez. 5, 6 ottobre 2010, n. 3101).

Nel caso di specie i giudici di merito hanno correttamente messo in luce la circostanza che la minaccia, estrinsecatasi nell’ambito di un comportamento improntato a prevaricazione, come quello tradottosi nel forzato allontanamento degli operai dal luogo di lavoro e con il larvato riferimento alle gravi conseguenze derivanti dalla mancata accettazione della richiesta estorsiva, non lasciata alcuna ragionevole alternativa tra il soggiacere alle altrui pretese o il subire, altrimenti, un pregiudizio diretto e immediato. Nè, d’altra parte, si può ritenere, come prospettato dalla difesa, che il ricorrente si era limitato ad esercitare un legittimo diritto su di un terreno di sua proprietà, in quanto ai fini della sussistenza del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (in luogo di quello di estorsione) occorre che l’agente sia soggettivamente – pur se erroneamente – convinto dell’esistenza del proprio diritto, e che detto diritto riceva astrattamente tutela giurisdizionale. Nel caso di specie il Tribunale ha correttamente sottolineato l’assenza di elementi obiettivi da cui inferire che F.D., con la condotta contestata, volesse in realtà esercitare un diritto, i cui presupposti sono rimasti indimostrati e sono anzi stati smentiti dalle investigazioni svolte, che hanno dimostrato l’incongruenza della pretesa asseritamente vantata da F., indirizzata ad un soggetto ( B.) e concernente un bene (il terreno su cui B. doveva effettuare il taglio delle piante) completamente diversi rispetto a quelli nei cui riguardi F. sostiene di potere formulare rivendicazioni.

2. L’ordinanza impugnata è esente dai vizi denunciati anche nella parte in cui ha ritenuto sussistente l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

Il D.L. n. 152 del 1991, art. 7 richiede che i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo siano commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso. Si tratta di due ipotesi distinte, quantunque logicamente connesse. La prima ricorre quando l’agente o gli agenti, pur senza essere partecipi o concorrere in reati associativi, delinquono con metodo mafioso, ponendo in essere, cioè, una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica – non necessariamente su una o più persone determinate, ma, all’occorrenza, anche su un numero indeterminato di persone, conculcate nella loro libertà e tranquillità – con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata. In tal caso non è necessario che l’associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della più grave condotta dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà fenomenica; essa può essere anche semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalità che la distinguono, sia già di per sè tale da evocare nel soggetto passivo l’esistenza di consorterie e sodalizi amplificatori della valenza criminale del reato commesso. La seconda delle due ipotesi previste dal citato art. 7, postulando che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, implica invece necessariamente l’esistenza reale, e non più semplicemente supposta, di un’associazione di stampo mafioso, essendo impensabile un aggravamento di pena per il favoreggiamento di un sodalizio semplicemente evocato (Cass. Sez. 1, 18 marzo 1994, n. 1327, rv. 197430).

L’aggravante in questione, in entrambe le forme in cui può atteggiarsi, è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli estremi, sia che essi siano essi partecipi di un sodalizio di stampo mafioso sia che risultino ad esso estranei (Sez. Un. 22 gennaio 2001, n. 10; Cass., 23 maggio 2006, n. 20228).

L’ordinanza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, in quanto, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha messo in luce, ai fini della configurabilità dell’aggravante, che il mezzo di coartazione della volontà facente ricorso al vincolo mafioso, e alla connessa condizione di assoggettamento, si è espresso in forma indiretta e implicita e che non rileva, a tal fine, la circostanza che l’esistenza dell’organizzazione criminale non sia espressa nel contesto delle richieste estorsive.

3. Parimenti privo di pregio è l’ultimo motivo di ricorso.

Il Tribunale ha correttamente desunto la sussistenza delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p., lett. c), dalla gravità dei fatti, di per sè espressivi di una particolare pericolosità sociale, dal contesto di criminalità organizzata in cui essi si collocano, dalle loro modalità di consumazione, dalla negativa personalità dell’indagato.

In conclusione, risultando infondato in tutte le sue articolazioni, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

La cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al Direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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