Cass. civ. Sez. I, Sent., 30-09-2011, n. 20057 Contratti

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Nel 1977 G.P., titolare della omonima impresa di costruzioni alla quale poi era succeduta la s.a.s. Giancaterino Costruzioni, convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Frosinone il Consorzio per l’area di sviluppo industriale della Provincia di Frosinone – il quale nell’agosto 1968 gli aveva affidato i lavori di costruzione della rete viaria consortile nella zona nord del nucleo di industrializzazione (OMISSIS)-, chiedendone la condanna al pagamento di alcune somme, tra le quali quella di l. 275.775.168 a titolo di compenso per il conglomerato bituminoso impiegato per la formazione dello strato di collegamento (binder) della pavimentazione stradale, calcolato tenendo presente che il prezzo unitario di L. 8.000 previsto nell’elenco prezzi in capitolato andava applicato con riferimento ad ogni metro quadro dello strato e non già ad ogni metro cubo di conglomerato, come preteso dalla stazione appaltante.

Costituitosi in giudizio il Consorzio – il quale resisteva alla domanda attrice eccependo, quanto al conglomerato bituminoso, che la riserva dell’appaltatore era inammissibile per decadenza e comunque infondata -, istruita la causa, il Tribunale accoglieva in parte la domanda, condannando il Consorzio al pagamento, a titolo di compenso per il conglomerato bituminoso, della somma di L. 263.927.864 oltre rivalutazione ed interessi.

Il Consorzio interponeva appello (insistendo nelle eccezioni e difese svolte in primo grado), cui resisteva la Giancaterino Costruzioni proponendo anche appello incidentale per il riconoscimento degli altri importi richiesti. La Corte d’appello di Roma, in parziale accoglimento sia dell’appello del Consorzio sia dell’appello incidentale, rigettava la domanda attrice di pagamento del compenso per il conglomerato bituminoso secondo il diverso criterio di calcolo addotto e condannava il Consorzio a pagare la somma di Euro 109.834,51 per gli altri titoli dedotti. La Corte di merito osservava, per quanto attiene al suddetto profilo di domanda, che la indicazione, nell’elenco prezzi di cui al capitolato, del prezzo del conglomerato bituminoso in L. 8.000 "per ogni mq.", anzichè metro cubo, era da ritenere – considerando che la contabilizzazione al metro quadro implicherebbe una maggiorazione del corrispettivo dell’intero appalto di quasi quattro volte rispetto all’originario prezzo d’appalto complessivo, e che dalle risultanze della prova testimoniale emergeva che il prezzo unitario di L. 8.000 corrispondeva a quello di mercato calcolato a metro cubo – frutto di mero errore materiale in sede di redazione del contratto. Errore che, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice (il quale non aveva tenuto conto delle risultanze della prova testimoniale espletata ritenendola diretta a provare fatti contrari al contenuto del documento contrattuale e quindi inammissibile), doveva ritenersi accertabile con ogni mezzo di prova, al di là della forma di volta in volta richiesta per il contratto cui afferisce, onde consentire al giudice la formazione di un corretto convincimento circa la reale ed effettiva volontà dei contraenti.

4. Avverso tale sentenza, pubblicata il 22 giugno 2006, la Giancaterino Costruzioni s.a.s. ha, con atto notificato il 18 settembre 2007, proposto ricorso a questa Corte basato su due motivi.

Resiste il Consorzio per l’area di sviluppo industriale della provincia di Frosinone con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso, si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg. nonchè vizio di motivazione: si sostiene che il giudice deve basare la sua interpretazione, in presenza di un contratto stipulato per iscritto da un ente pubblico, esclusivamente sulle pattuizioni risultanti dal testo contrattuale e non può operare una interpretazione che si ponga in contrasto con il dato letterale. Con il secondo motivo, si denunzia l’insufficienza e illogicità della motivazione in relazione alla applicazione dei criteri di ermeneutica contrattuale.

2. Il primo motivo è privo di fondamento. Erra la ricorrente quando assume che la regola della forma scritta, prescritta per i contratti conclusi da una Pubblica Amministrazione, costituisca un limite insuperabile nell’interpretazione della volontà dei contraenti, che il giudice deve operare (anche in questi casi) in base ai criteri previsti dall’art. 1362 cod. civ. e segg. Un limite speciale siffatto non è dato individuare in tali norme del codice civile; nè risulta dalle pronuncie di questa Corte di legittimità alle quali il ricorso fa riferimento (cfr. Cass. n. 26047/2005; n. 2146/2003; n. 11247/2002), che invece, nel confermare l’assoggettamento della P.A., quando ricorre agli strumenti giuridici ordinariamente propri dei soggetti privati, ai principi ed alle regole del diritto comune tra le quali quelle poste dalle norme codicistiche sulla ermeneutica contrattuale, hanno affermato il diverso principio secondo cui, nell’indagine sulla comune volontà delle parti del contratto, il giudice deve tener conto della volontà negoziale manifestata dai contraenti nel testo e non far ricorso al contenuto delle deliberazioni dei competenti organi dell’ente attinenti alla fase amministrativa preparatoria del negozio, privi di valore di interpretazione autentica o ricognitivo delle clausole negoziali. Il criterio della c.d. interpretazione letterale, dunque, non ha, in relazione ai contratti conclusi dalla P.A., una collocazione diversa da quella assegnatagli dall’art. 1362 cod. civ. nell’ambito dei vari criteri prescritti dalle norme in questione. Tanto più che – come rettamente precisato dalla Corte di merito senza ricevere sul punto censura specifica – nella ricognizione di un errore materiale nella redazione del testo contrattuale il giudice può avvalersi di ogni mezzo di prova, indipendentemente dalla forma del contratto cui si riferisce ed anche se la discordanza tra la materiale redazione del testo e la comune ed effettiva volontà delle parti non emerga dalla semplice lettura del testo (cfr. ex multis Cass. n. 9243/2008; n. 19558/2003; n. 9127/1993).

3. La critica rivolta alla sentenza impugnata si mostra invece fondata con riguardo al secondo motivo, afferente alla utilizzazione in concreto, da parte della Corte di merito, degli elementi di giudizio disponibili, alla luce dei criteri di legge sopra ricordati, nella ricognizione dell’errore materiale.

La Corte ha basato il suo convincimento sulla sussistenza dell’errore esclusivamente su due elementi: da un lato, la contabilizzazione al metro quadro implicherebbe una maggiorazione del corrispettivo dell’intero appalto di quasi quattro volte rispetto all’originario prezzo d’appalto complessivo; dall’altro, il prezzo unitario di L. 8.000 per la posa in opera del conglomerato corrispondeva a quello di mercato calcolato a metro cubo, e non a metro quadro come scritto nell’elenco prezzi. Tale secondo dato circa il prezzo di mercato del conglomerato ha tratto dalle deposizioni dei testi D. e G., rispettivamente Direttore dei lavori e Responsabile dell’Ufficio Tecnico del Consorzio committente. La società ricorrente censura tale motivazione, tra l’altro, sotto due profili, che si rivelano decisivi. Da un lato, la Corte, omettendo di dar conto delle dichiarazioni dei testi Ca., Di.Bi. e Ch., ha svolto un esame carente delle risultanze della prova testimoniale, peraltro limitato ai soli testi indicati dal committente Consorzio. Dall’altro, ha omesso di individuare le ragioni e gli elementi che giustifichino la conclusione secondo la quale la società appaltatrice avrebbe manifestato la volontà di accettare un prezzo del conglomerato calcolato a metro cubo, anzichè a metro quadro. Questione ineludibile – ma non affrontata – nel momento in cui si accerta la reale volontà comune delle parti, il che implica l’indagine anche sulla volontà dell’appaltatore senza la quale l’accertamento circa l’errore del committente nella redazione dell’elenco prezzi si palesa privo in sè di rilevanza.

4. Si impone pertanto la cassazione della sentenza con il rinvio per un nuovo esame alla Corte d’appello di Roma, la quale, in diversa composizione, provvedere anche sulle spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che provvedere anche sulle spese di questo giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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