Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-04-2011) 31-05-2011, n. 21787 Costruzioni abusive Reati edilizi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Messina, con sentenza del 12/3/2010, pronunciandosi sull’appello avanzato da B.G. e A. M.S. avverso la sentenza del Tribunale di Messina, sezione distaccata di Taormina, resa il 30/10/07, ha rigettato il gravame.

Il giudice di prime cure aveva dichiarato i prevenuti colpevoli del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), e aveva condannato ciascuno di essi alla pena di mesi 1 di arresto ed Euro 4.000,00 di ammenda.

Propone ricorso per cassazione la difesa degli imputati, con i seguenti motivi:

– ha errato la Corte territoriale nel non applicare alla fattispecie la L.R. Sicilia n. 37 del 1985, art. 9;

la L.R. Sicilia n. 4 del 2003, art. 20, la L.R. Sicilia n. 15 del 2006, art. 12, nonchè l’art. 14 dello Statuto Regione Sicilia, ritenendo la condotta da costoro posta in essere del tutto lecita;

– il reato doveva essere dichiarato estinto per prescrizione.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile.

Il discorso giustificativo, adottato dal decidente per confermare la affermazione di colpevolezza dei prevenuti, si palesa logico e corretto.

La Corte territoriale ha rilevato che per la realizzazione del manufatto in contestazione fosse necessario il permesso di costruire, in quanto l’opera edificata consisteva in una seconda elevazione fuori terra, di un preesistente immobile, determinante un ulteriore piano, avente superficie totale di circa 41,89 mq, con altezza alla gronda di metri 2,80 ed al colmo di metri 2,95, con una volumetria complessiva di, circa 120,43 metri cubi, oltre a una loggia, avente superficie di circa 11,95 mq.. A giusta ragione il giudice di merito ha escluso di potere considerare l’opera de qua come pertinenza o come precaria, in quanto i manufatti, così come realizzati, non rappresentano gli elementi caratterizzanti nè la pertinenzialità, no la precarietà, in applicazione dei principi affermati dalla giurispmdenza di legittimità individuanti le caratteristiche che distinguono tali tipi di opere (Cass. 30/6/95, n. 2533; Cass. 10/1/08, n. 14329; Cass. 21/3/06, n. 20189).

La edificazione realizzata, intatti, non può considerarsi una pertinenza dell’edificio preesistente, in quanto forma con esso un’unica struttura, aumentandone il valore di mercato ed è, con netta evidenza, priva di autonomia strutturale; nè la stessa può definirsi precaria, visto che risulta destinata ad uso abitativo, chiaramente non temporalmente definito, nè di facile rimozione.

Quanto, in particolare, alla contestazione di mancata, erronea, applicazione della legislazione regionale, in materia edilizia, sollevata in ricorso, la argomentazione motivazionale, sviluppata dalla Corte distrettuale, si palesa del tutto esente da vizi, evidenziando, con puntuale richiamo a quanto in materia affermato da questa Corte, secondo cui le disposizioni introdotte dalle L.R. Sicilia n. 37 del 1985, e L.R. Sicilia n. 4 del 2003, regolano fattispecie del tutto diverse da quella oggetto di esame, identificando, in via di eccezione, non soggette a permesso di costruire, determinate opere precarie, facilmente rimovibili, del tutto differenti da quelle realizzate dagli imputati, per la ragioni ut supra svolte (Cass. 26/4/07, n. 35011).

La prescrizione si è maturata successivamente alla pronuncia di secondo grado, resa il 12/3/10: il reato risulta accertato al (OMISSIS), a cui va computato il termine di anni 4 e mesi 6 = 28/10/08; a cui va aggiunto il periodo di sospensione dovuto a rinvii, per complessivi anni 1 mesi 5 e giorni 7, con termine finale da individuare al 4/4/10.

La inammissibilità del ricorso, però, dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità, a norma dell’art. 129 c.p.p. (Cass. S.U. 21/12/2000, De Luca).

Tenuto conto, poi, della sentenza del 13/6/2000, n. 186, della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che i prevenuti abbiano proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, gli stessi, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., devono essere, altresì, condannati, al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1.000,00.
P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno di essi al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, della somma di Euro 1.000,00.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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