Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-04-2011) 31-05-2011, n. 21785

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 30.09.2009 il Tribunale di Frosinone condannava C.O., in qualità di legale rappresentante dell’Allevamenti suini Patrica s.r.l., alla pena di Euro 22.000 d’ammenda quale colpevole di avere stoccato in due vasche fuori terra, circa 25.000 mc di fanghi di sedimentazione con superamento dei limiti massimi per deposito temporaneo dei fanghi derivanti da trattamento di depurazione e di avere provocato emissione di gas e di vapori con esalazione di odori nauseabondi, offendendo e molestando le persone.

In particolare, era stato accertato che le due grandi vasche, della capacità di circa 25.000 ciascuna, per lunghi periodi erano sempre pressochè piene (secondo la consulenza del CT del PM la ditta utilizzatrice dei fanghi per finalità agronomiche prelevava giornalmente dai vasconi una media di 30 mc. a fronte di una produzione giornaliera di 600 mc), sicchè l’effluente in esubero rispetto all’esigenza agronomica doveva qualificarsi rifiuto specie considerando che, essendo stati effettuati scavi fino alla profondità di tre metri nelle adiacenze delle vasche, le trincee contestualmente si riempivano di un liquame rossastro della stessa composizione di quello contenuto nelle vasche che si spandeva sul terreno senza alcuna funzione irrigativa.

Era, quindi, configurabile un deposito incontrollato di rifiuti che doveva essere autorizzato e rispettare i termini di smaltimento del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6.

Quanto all’emissione di gas e vapori nauseabondi, il tribunale inferiva dallo stoccaggio a tempo pressochè indeterminato di quantità enormi di fanghi e di affluenti d’allevamento in contenitori, completamente privi di copertura, la produzione degli odori molesti riferiti dai testi in dibattimento.

Proponeva ricorso per cassazione l’imputato sollevando questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., comma 3, nella parte in cui prevede l’inappellabilità delle sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda avendo la difesa concreto interesse a impugnare la sentenza de qua nel merito e, in tale prospettiva, esponeva una serie di doglianze meramente fattuali e denunciando:

– inosservanza e/o non corretta interpretazione e applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256 e D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 22;

illogicità e/o contraddittorietà della motivazione in tema di configurazione dei fanghi di sedimentazione come rifiuti. I fanghi erano stati accumulati per l’impiego nella fertirrigazione e non era, quindi, sostenibile in diritto l’irrazionale distinguo tra quanto stoccato e quanto smaltito. La produzione giornaliera aziendale di fanghi, secondo il teste G., non superava i 200 mc e ciò smentiva l’asserzione dell’altro teste M. che aveva indicato una produzione di 600 me. giornalieri;

– violazione dell’art. 674 c.p. perchè il cattivo odore, che era prodotto dall’allevamento e non dai fanghi, non aveva arrecato alcun effettivo pregiudizio all’ambiente, alla salute e alle persone.

Inoltre, erroneamente era stato ritenuto che detto cattivo odore fosse stato prodotto in un caso non consentito dalla legge dato che l’allevamento, situato all’interno di un consorzio industriale, era in regola con ogni normativa amministrativa. La sentenza, impugnata, infine, non era stata emessa sulla base di prove certe inidonee a fornire un convincimento al di là di ogni ragionevole dubbio, ma su un mero giudizio di verosimiglianza.

Chiedeva l’annullamento della sentenza.

Sulla sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., comma 3, come modificato dalla L. 24 novembre 1999, n. 468, art. 18 (il quale ha previsto, tra l’altro, l’inappellabilità delle sentenze di condanna in relazione alle quali sia stata applicata la sola pena pecuniaria) per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., questa Corte si è pronunciata (Sezione 5, n. 41136/2001 RV. 220279; Sezione 3, n. 1552/2002 RV. 223269) rilevando che "l’impossibitità di appellare siffatte sentenze: 1) non viola il principio di ragionevolezza, dal momento che le situazioni prese in esame sono radicalmente diverse proprio in ragione della "qualità" della pena, in quanto, in caso di condanna a pena detentiva, un secondo giudizio di merito trova giustificazione nella maggiore affittività della sanzione, derivante da una diversa valutazione di gravità del reato, effettuata dal legislatore e, quindi, in definitiva, in ragioni di politica giudiziaria, 2) non lede il diritto di difesa nè il principio di parità di trattamento dell’imputato, in quanto, mentre non è "costituzionalizzato" l’obbligo di un secondo grado di merito, è comunque garantito – con il ricorso per cassazione – il riesame della vicenda processuale ed in quanto eguale trattamento è riservato a situazioni similari, 3) non contrasta con il principio di eguaglianza, con particolare riferimento alla nuova formulazione dell’art. 443 c.p.p. (che, a seguito della modifica apportata dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479, consente al soggetto condannato, con rito abbreviato, alla sola pena pecuniaria, di proporre appello), in quanto il carattere più "snello", anche m secondo grado, del giudizio abbreviato giustifica tale diversità di trattamento, 4) non determina disparità di trattamento tra coloro che siano stati condannati dal giudice di pace, genericamente, al risarcimento del danno (soggetti ai quali è consentito appellare) e coloro che siano stati condannati dal Tribunale, non solo al risarcimento del danno, ma anche al pagamento di una provvisionale. In quanto trattasi di diverse procedure, come reso evidente del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 38, che estende, agli effetti penali, l’impugnazione – nella ipotesi in cui la legge prevede il ricorso immediato al giudice (art. 21) – a situazioni diverse da quelle contemplate dall’art. 577 c.p.p. (il quale consente l’impugnazione, anche agli effetti penali, di chi sia costituto parte civile in relazione ai reati di ingiuria e diffamazione), nè determina disparità tra l’imputato e la parte civile, in quanto, neanche la parte civile può appellare, agli effetti civili e penali, le sentenze di condanna alla sola pena pecuniaria".

Inoltre, la Corte Costituzionale (nella sentenza n. 8/2008, massima n. 32240) ha affermato che dalla declaratoria d’incostituzionalità della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 1 vanno escluse le sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni per le quali potrebbe essere inflitta la sola ammenda.

Il ricorso, nel resto, è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile con le conseguenze di legge.

E’ stato accertato, in fatto, che i reflui di allevamento, raccolti in grandi vasche, solo in minima parte venivano prelevati per il legittimo impiego nella fertirrigazione, sicchè per la parte stoccata e per quella tracimante dai bordi, che si riversava e veniva assorbita nel terreno circostante, corretta è la qualifica di rifiuto operata dal tribunale che si è uniformato all’orientamento che questa corte ha espresso nella sentenza n. 27071/2008 RV 240264, alla cui motivazione si rimanda, secondo cui "integrano il reato di deposito di rifiuti allo stato liquido (art. 51, comma 2, del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22) la raccolta in una vasca e il successivo spandimento incontrollato sul suolo degli effluenti derivanti da attività agricola o di allevamento del bestiame, non ricadendo tale condotta nella disciplina sugli scarichi, giacchè le assimilazione alle acque reflue domestiche dei reflui delle imprese agricole o da allevamento di bestiame è subordinata all’esistenza di uno scarico diretto tramite condotta, e non escludendo l’eventuale utilizzazione agronomica dei reflui l’autorizzazione per lo stoccaggio").

Irrilevante è quindi l’assunto difensivo per cui la parziale destinazione dei reflui alla fertirrigazione rendeva lecito lo stoccaggio incontrollato e a tempo indeterminato della rimanente e ben più consistente parte, accumulata alla rinfusa, che, tracimando dai bordi, si riversava, come accertato in fatto, nel terreno circostante dando luogo a ruscellamenti e a infiltrazioni in profondità.

Pertanto la raccolta nelle vasche costituiva raccolta di rifiuti che doveva essere autorizzata non ricorrendo, nella specie, un deposito temporaneo di rifiuti che "ai sensi del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 6, punto m) (ora D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, come sostituito dal D.Lgs. n. 4 del 2008) e legittimo soltanto ove sussistano alcune precise condizioni temporanee, quantitative e qualitative; in assenza di tali condizioni, il deposito di rifiuti nel luogo in cui sono stati prodotti è equiparabile giuridicamente all’attività di gestione di rifiuti non autorizzata, prevista come reato dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51" (Cassazione Sezione 3, n. 7140, 21.03.2000, Eterno, RV 216977 e Cassazione Sezione 3 n. 39544/2006, Tresolat RV. 235703).

Va, poi, esaminato il motivo attinente alla violazione dell’art. 674 cod. pen. alla luce dei più recenti approdi giurisprudenziali di questa Corte secondo cui la clausola "nei casi non consentiti dalla legge", propriamente riservata all’emissione di gas, vapori o fumi prevista nella seconda parte della norma, va intesa nel senso che, quando la diffusione provenga da un’attività economica socialmente utile e, come tale, legislativamente disciplinata, esula il reato se la diffusione è consentita dalla legge, ovverosia non supera i limiti tabellari previsti dalla legge speciale vigente nella soggetta materia (Cassazione Sezione 3, n. 36845/2008, PG. e P.C. in proc. Tucci e altri).

In tal caso non può intervenire condanna penale per un’emissione in atmosfera che la legge speciale consente e valuta come tipicamente non pericolosa.

Tuttavia, la predetta clausola esclude il reato non per tutte le emissioni provocate dall’attività industriale regolamentata e autorizzata, ma solo per quelle emissioni che sono specificamente consentite attraverso limiti tabellari o altre determinate disposizioni amministrative potendosi solo queste ultime emissioni presumersi legittime (Sezione 3, n. 16286/2008, RV. 243456: "La clausola nei casi non consentiti dalla legge, contemplata nell’art. 674 c.p., non è riferibile alla condotta di getto o versamento pericoloso di cose di cui alla prima parte della norma citata, ma esclude il reato solo per le emissioni di gas, vapori o fumo che sono specificamente consentite attraverso limiti tabellari o altre determinate disposizioni amministrative. (Fattispecie nella quale è stata esclusa l’applicabilità di tale clausola in un caso di diffusione di polveri nell’atmosfera provocate nel corso di un’attività produttiva, emissioni vietata dal D.M. 12 luglio 1990, impositivo di misure di cautela e prevenzione molto rigorose)".

Invece, non possono presumersi come legittime le altre emissioni, connesse più o meno direttamente all’attività produttiva regolamentata, che il legislatore non disciplina specificamente o che addirittura considera pericolose perchè superiori ai limiti tabellari, o che vuole comunque evitare attraverso misure di prevenzione e di cautela imposte all’imprenditore (Cassazione Sezione 3 n. 40191/2007, Schembri, RV. 238054; Sezione 3 n. 2475/2007, Alghisi, RV. 238447).

Muovendo da tali premesse, è sicuramente corretta la valutazione giuridica del tribunale aderente all’esegesi normativa dominante.

Nel caso di specie, le emissioni in atmosfera specificamente provocate dai fanghi di sedimentazione riversati nelle vasche a causa della mancata adozione di accorgimenti diretti ad assicurare la corretta captazione e il razionale convogliamento delle esalazioni nauseabonde non erano certamente consentite da alcuna disposizione normativa, sicchè era compito del giudice valutare la stretta tollerabilità delle esalazioni, valutazione che è stata correttamente effettuata con riferimento, in termini di assoluta certezza, a quanto direttamente costatato dai testi escussi ( F. aveva riferito che l’indagine aveva avuto origine a causa dei cattivi odori promananti dalla ditta Corbelli e che numerose erano le segnalazioni della popolazione residente nelle zone circostanti e dei clienti di un vicino centro commerciale; S. aveva affermato che "a 550 metri, un kilometro da lì" già si avvertiva l’odore delle deiezioni).

La corrispondenza tra la gestione dell’azienda e le emissioni maleodoranti oggetto delle lamentele emerse dalle testimonianze è stata ritenuta dalla sentenza impugnata con una motivazione improntata a correttezza logica e giuridica in ordine ai ravvisati profili di colpa a carico dell’imputato.

La manifesta infondatezza del ricorso, che preclude la possibilità di rilevare e dichiarare sopravvenute cause d’estinzione del reato (Cassazione SU n. 32/2000, De Luca, RV. 217266), comporta l’onere delle spese del procedimento e del versamento alla cassa delle ammende di una somma che va equitativamente fissata in Euro 1.000.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, nella pubblica udienza, il 28 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2011

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