Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 03-02-2011) 31-05-2011, n. 21770 Giudizio d’appello sentenza d’appello

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 6 novembre 2009 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale di Rieti. assolveva M.A. dal reato contestatole ( artt. 110 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73) per non averlo commesso e, esclusa con riguardo all’imputato P.A. la circostanza aggravante contestatagli di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2 in ordine al reato di cui al capo B), riduceva nei riguardi di quest’ultimo la pena inflitta dal primo giudice – tenuto conto della diminuzione per il rito – ad anni cinque e mesi due di reclusione ed Euro 30.000 di multa.

Confermava, nel resto, la sentenza impugnata con la quale i restanti coimputati L.G. e M.K. e lo stesso P.A. erano stati rispettivamente ritenuti dal GUP colpevoli dei reati sub A) ( P. e L.), C) (il solo L.G.) ed E) il solo M.K. e condannati il P. – concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti rispetto alla aggravante (poi esclusa dalla Corte di Appello) ed alla recidiva e ritenuta la continuazione trai reati di cui ai capi A) e B), alla pena di anni sei e mesi due di reclusione ed Euro 60.000 di multa (poi ridotta per effetto della esclusione della ricordata aggravante ad effetto speciale); il L. – concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva contestata e ritenuta la continuazione tra i reati di cui ai capi A) e C) – alla pena di anni quattro e mesi due di reclusione ed Euro 42.000 di multa e il M. condannato alla pena di anni due e mesi otto di reclusione (previa concessione delle circostanze attenuanti generiche) oltre le pene accessorie di legge. Secondo le argomentazioni esposte nella sentenza impugnata la responsabilità degli imputati – tutti coinvolti a vario titolo in attività di illecita detenzione di cocaina destinata alla vendita a terzi e/o di agevolazione in tale attività (specificamente il M.) – emergeva inequivocabilmente dal contenuto delle numerose intercettazioni che era stato possibile decifrare, nonostante la cripticità del linguaggio, grazie anche alle indagini svolte dalla P.G. ed, ai chiarimenti forniti da altri coimputati minori ovvero da tossicodipendenti acquirenti in contatto con gli imputati; dal riconoscimento fotografico di alcuni degli imputati (il P.);

dalle dichiarazioni di G.D.; dal rinvenimento nella abitazione del M. di un bilancino di precisione con tracce di cocaina. Ricorrono avverso la detta sentenza gli imputati P. A., L.G. e M.K..

Il primo di essi ( P.) si duole della violazione di legge penale in cui sarebbe incorsa la Corte nell’effettuare la nuova determinazione della pena, una volta operata l’esclusione della circostanza aggravante contestata in origine, avendo effettuato il relativo calcolo "a valle" e senza tenere conto dei benefici nascenti dalla avvenuta concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il secondo ( L.) denuncia difetto e/o contraddittorietà e/o illogicità della motivazione relativamente alle statuizioni di condanna confermate e relative ai reati di cui ai capi A) e C), rilevando carenza di motivazione in ordine alla questione di nullità sollevata con riguardo al reato sub a) in relazione alla indeterminatezza del capo di imputazione; ancora, insufficienza ed illogicità della motivazione in relazione alla affermata responsabilità ed alla valutazione operata dalla Corte soltanto sulla base di tre episodi con conseguente mancata motivazione anche in merito alla circostanza attenuante speciale invocata, disattesa dalla Corte di Appello; rilevando, ancora, illogicità della motivazione con riguardo all’operato aumento per la continuazione, effettuato considerando quale reato-base più grave quello di cui al capo B) anzichè quello di cui al capo A). Il terzo ( M.) denuncia vizio di motivazione in relazione alla mancata esposizione delle ragioni che avevano indotto la Corte a non accogliere le doglianze esposte con i motivi aggiunti; erronea e falsa applicazione della legge penale ( art. 384 c.p.) in relazione al mancato riconoscimento – in relazione al reato contestatogli – della esimente di cui all’art. 384 c.p. riconosciuta, invece, alla coimputata M.A. (poi assolta dalla Corte di Appello). Tutti i motivi di ricorso sono manifestamente infondati.

Esaminando, nell’ordine, i motivi di ricorso proposti dall’imputato P., si rileva che il giudice distrettuale, una volta esclusa la circostanza aggravante originariamente contestata, ha mantenuto fermo il giudizio di equivalenza tra le riconosciute circostanze attenuanti generiche e la recidiva, partendo da una pena base superiore al minimo (anni sette e mesi sei di reclusione ed Euro 40.000 di multa) giustificato sulla base della gravità e modalità della condotta e della personalità dell’imputato (vds. pag. 9 della sentenza impugnata), pervenendo poi ad un aumento di pena per la continuazione nei termini già indicati dal primo giudice in quanto ritenuti congrui ed operando alla fine la diminuzione per il rito.

Nessun errore nell’applicazione della legge penale è stato quindi compiuto dalla Corte di Appello.

Quanto ai motivi addotti dal ricorrente L., oltre ad essere gli stessi caratterizzati da assoluta genericità, va osservato che nessuna doglianza specifica era stata avanzata da parte dell’imputato all’atto della proposizione dell’appello con riferimento alla pretesa genericità del capo di imputazione sub A), peraltro del tutto insussistente essendo stata descritta in modo adeguato la condotta penalmente rilevante, versandosi secondo il ricorrente in una ipotesi di inosservanza della legge penale, la mancata proposizione della doglianza in sede di appello costituisce, ex art. 606 c.p.p., comma 3 ultima parte, specifica causa di inammissibilità in sede di legittimità.

Con riferimento, poi, alla doglianza rivolta in punto di omessa valutazione della responsabilità penale del detto imputato, trattasi di censura palesemente inconsistente avendo la Corte territoriale dato adeguata e puntuale risposta alle censure per entrambi i reati correttamente sottolineando al riguardo, oltre la portata delle intercettazioni (delle quali sono stati riporti anche i passaggi più significativi), anche il ruolo rivestito dal detto imputato a livello quasi monopolistico nell’attività quotidiana di smercio di stupefacenti nella zona di Rieti.

Parimenti inconsistente e caratterizzato da aspecificità, il terzo motivo di ricorso con il quale sostanzialmente il ricorrente lamenta che la Corte erroneamente calcolato la pena base modellandola sul capo b) anzichè sul capo a) Ora, a prescindere dal rilievo che il capo b) della imputazione non si riferisce affatto al L., ma al P., correttamente la Corte territoriale ha ritenuto più grave il reato sub c), con motivazione logica ed incensurabile in sede di legittimità apparendo quello sub a) più specifico in relazione a singoli episodi di cessione a terzi ben individuati acquirenti e ad una condotta di detenzione ben specificata, mentre il reato sub a) offerisce ad una generica ed indifferenziata attività di detenzione illecita finalizzata alla cessione svolta in via continuativa per l’intera provincia di Rieti. Nè sembra ipotizzarle – attesa anche la estrema genericità del rilievo – un assorbimento della condotta di cui al capo c) in quello sub a), come sembrerebbe voler intendere il ricorrente. Anche i motivi a sostegno del ricorso proposto dall’imputato M. appaiono palesemente inconsistenti.

Quanto alla ritenuta omessa motivazione da parte della Corte, trattasi di censura manifestamente infondata non solo perchè la Corte ha analizzato specificamente la posizione del detto imputato ed esaminato altrettanto analiticamente i motivi aggiunti, ma anche perchè da parte del ricorrente non vengono specificamente indicati i punti della motivazione controversi.

In ogni caso è principio pacifico quello secondo cui in fase di appello il giudice non è tenuto a prendere in considerazione ogni argomentazione proposta dalle parti, bastando invece che vengano enunciate le ragioni a base della decisione: nell’assolvere a tale compito il giudice di merito deve rispettare i canoni della congruità, sufficienza e logicità della motivazione (in termini tra le tante, Cass. Sez. 5, 6.5.1999 n. 7588 Rv. 213630; Cass. Sez. 1, 21.12.1992 n. 1778; Rv 1894804).

Va poi ribadito il principio in forza del quale la struttura motivazionale della sentenza di appello, laddove le due pronunce di primo e di secondo grado risultino concordanti nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a base delle rispettive decisioni, si salda e si integra con quella precedente di primo grado (Cass. Sez. 1, 26.6.2000 n. 8886; Cass. Sez. 1, 2.10.2003 n. 46350), con la conseguenza che è pienamente legittima da parte del giudice di secondo grado una motivazione per relationem, peraltro, nel caso di specie non esauritasi nel mero richiamo alla sentenza del GUP, ma estesa in modo specifico anche all’analisi delle singole condotte poste in essere dall’imputato, tanto che – con riferimento alla posizione del detto imputato – la Corte si è soffermata in modo autonomo e comunque esaustivo su una serie di elementi probatori (intercettazioni, esiti di perquisizioni, sequestri) ritenuti significativi.

Palesemente erronea poi l’affermazione del ricorrente secondo la quale la Corte si sarebbe limitata ad un mero richiamo dei motivi aggiunti senza tuttavia articolare motivazioni in proposito, avendo invece la Corte avuto cura di analizzare le ulteriori doglianze mosse dalla difesa con criterio logico e coerente con i dati probatori.

Quanto, infine, alla denunciata violazione e/o inosservanza della legge penale, riferita al mancato inquadramento della condotta contestata al M. sotto il paradigma dell’art. 384 c.p., si tratta di rilievo recisamente smentito dal fatto che la Corte ha analizzato tutta una serie di condotte positive poste in essere dal M. in concorso con il cognato ( P.A., marito di M.A., sorella del ricorrente) con riferimento alla imputazione – unica elevata a carico del M. – di cui al capo e) (e non c) come erroneamente riportato in sentenza a pag. 4).

Tanto premesso, non è dato nemmeno comprendere a quale titolo il M. abbia invocato la detta esimente (esimente già invocata con i motivi aggiunti di appello in relazione al rapporto di parentela con il cognato P.A.):

invero la scriminante in parola ha quale sua condizione preliminare la commissione di uno dei reati indicati nell’art. 384 c.p., comma 1.

Sebbene non specificamente indicata, nè ricavabile aliunde, l’esimente invocata dal ricorrente dovrebbe essere ricollegata ad un possibile reato di favoreggiamento personale commesso al fine di aiutare il cognato a sottrarsi alle investigazioni delle autorità.

Ciò posto risulta evidente, innanzitutto, l’erroneità della premessa, assolutamente inesistente, da cui muove il ricorrente: vale a dire l’avvenuto riconoscimento da parte della Corte di analoga scriminante a M.A..

A tale proposito – per come emerge agevolmente dalla sentenza impugnata (pagg. 11-13) – risulta che M.A. (cui era stata contestata una condotta di partecipazione nel reato di detenzione e spaccio in concorso con il coniuge e con L.G. meglio precisata nel capo f) è stata assolta dal reato contestatole per non avere commesso il fatto, sia pure con la formula di cui all’art. 530 cpv. c.p.p., per essere stata esclusa la sua attività di concorrente nel reato.

Non si è dunque trattato, come erroneamente prospettato dal ricorrente, di proscioglimento intervenuto per una causa scriminante legata ad uno stato di necessità.

Ma, indipendentemente da tale rilievo (che elide comunque in radice la censura difensiva di una supposta disparità di trattamento tra il ricorrente e la sorella), va rilevato che nel caso del M. allo stesso era stata contestata una attività di concorso nel reato ascritto al P. e non già una condotta agevolatrice rispetto a quella precedentemente commessa dal cognato.

Mentre il favoreggiamento personale (o anche reale) presuppone che un altro delitto – quello presupposto – sia stato commesso, tanto non succede laddove la condotta criminosa intervenga prima della consumazione del reato presupposto o in concomitanza, dovendosi in questo caso parlare di concorso nel reato (Cass. Sez. 6, 19.4.1990 n. 12523): del reato la c.d. "clausola di riserva" contenuta nell’art. 378 c.p., comma 1 fa sì che laddove l’autore agisca a titolo di concorso nel reato con il soggetto "favorito" o "aiutato", non di favoreggiamento può parlarsi, ma di concorso nel reato.

E che di concorso si sia trattato emerge a chiarissime lettere dalla sentenza impugnata laddove la Corte, nell’analizzare il ruolo in concreto rivestito dal M., enuclea tutta una serie di telefonate che provano, per come la Corte ha correttamente argomentato, una attività di concorso materiale nella attività di detenzione e spaccio che vedeva coinvolto in prima persona il P. e in posizione più defilata, ma comunque attiva, lo stesso M. (vds. pagg. 7-8 della sentenza).

Deve allora convenirsi con la Corte di merito in ordine ad una attività concorsuale e non favoreggiatrice (come, invece, preteso dal ricorrente) posta in essere dal M. che implica una motivazione per implicito circa l’impossibilità di fruire della scriminante.

La reiterazione della censura in questa sede muove anche da una evidente confusione in cui incorre il ricorrente laddove interpreta la parola "agevolava" figurante nella seconda metà del capo di imputazione di cui al capo e) (agevolazione concretizzatasi – secondo l’impostazione accusatoria poi recepita dalla Corte in modo corretto – in intestazioni personali di autovetture in uso agli altri imputati, tra cui il cognato e nell’ausilio di "vedetta" per preavvertirli della presenza della polizia), come attività di favoreggiamento. In realtà è palese dalla struttura argomentativa della sentenza impugnata che nessuna condotta favoreggiatrice è stata posta in essere dal M., bensì una serie cospicua di attività materiale di concorso ovvero di supporto per una migliore riuscita dell’attività di spaccio svolta in modo preponderante dal P., e tanto basta per riconfermare la palese infondatezza della censura nei termini enunciati di violazione della legge penale, in realtà applicata in modo assolutamente conforme a legge.

I ricorsi vanno, pertanto, dichiarati inammissibili.

Segue la condanna dei singoli ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè al versamento della somma – ritenuta congrua – di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, trovandosi i ricorrenti in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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