Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 24-05-2011) 01-06-2011, n. 21877 Cassazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza 25 febbraio 2009 la Corte di appello di Palermo, confermava – per quel che qui direttamente interessa – la decisione 18 dicembre 2007 del Giudice dell’udienza preliminare dello stesso Tribunale che, in esito a giudizio abbreviato, aveva affermato la penale responsabilità di C.S. e di S. C. in ordine al reato di cui all’art. 567 c.p. per avere concorso tra loro nella alterazione dello stato civile di un neonato, mediante la falsa dichiarazione di paternità resa all’ufficiale di stato civile relativamente al figlio nato alla S. il 24 ottobre 2004, denunciato falsamente attribuendone la paternità al C., falsità accertata con la perizia disposta nel corso delle indagini preliminari, attraverso il raffronto tra il DNA del neonato e quello del C..

Rilevava la Corte territoriale che la prova della responsabilità degli imputati in ordine alla piena consapevolezza della falsità della dichiarazione emerge da quanto esposto dall’assistente sociale Co.Ma.Cr., presente nell’Ospedale (OMISSIS), ove il parto era avvenuto, proprio al momento dei fatti, da questa immediatamente esposti al Tribunale per i minorenni di Palermo che aveva disposto l’affidamento temporaneo del neonato al direttore sanitario dell’Ospedale. Più in particolare, la Co., nel riferire che il giorno precedente la S. aveva dato alla luce un neonato di sesso maschile, segnalava che costei, dopo il parto, non aveva comunicato le generalità del padre del neonato, che venivano invece dichiarate da Ca.Sa., moglie del C., con l’indicazione delle generalità del marito.

Gli acquisiti elementi di prova avevano trovato univoca conferma negli esiti della perizia disposta e nelle stesse dichiarazioni degli imputati, incorsi in ripetute contraddizioni quanto alle circostanze riguardanti un’addotta relazione esistente tra la S. ed il C..

Nè poteva assegnarsi significazione favorevole al fatto che la falsa dichiarazione di paternità era stata resa dagli imputati il 25 ottobre 2004, quando il Tribunale per i minorenni aveva già disposto l’affidamento temporaneo del neonato, perchè tale provvedimento, peraltro non destinato alla S. ed al C., non aveva impedito a costoro di visitare con regolarità il neonato stesso.

Inoltre, mentre il C. aveva fatto riferimento ad una relazione, la S. – che peraltro esercitava la prostituzione – aveva, almeno inizialmente, evocato un incontro occasionale.

2. Ricorrono per cassazione entrambi gli imputati.

2.1. Il C., con un primo motivo, lamenta violazione della legge penale e mancanza e manifesta illogicità della motivazione.

Stigmatizza, anzi tutto, come non sia rinvenibile nel sistema alcuna norma che prescriva l’obbligo per la partoriente di rassegnare le generalità del genitore; in ogni caso, la S., non appena interpellata dalla Co., indicò il padre del neonato nel C..

Con un secondo motivo si contesta alla sentenza impugnata di avere assunto al rango di elementi di prova dichiarazioni assolutamente inutilizzabili, vale a dire, quelle rese dal C. e dalla S., facendo emergere le contraddizioni in cui gli stessi imputati sarebbero incorsi sulle caratteristiche della loro relazione. A parte l’assenza delle addebitate contraddizioni, il ricorrente segnala come gli imputati furono esaminati nel giugno 2005 quali persone informate sui fatti, quando già il 26 aprile 2005 il Tribunale per i minorenni aveva trasmesso alla competente Procura tutti gli atti del procedimento relativo alla dichiarazione di paternità con richiesta di accertamenti entro l’ambito di persone determinate; di qui l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal C. e dalla S. nella predetta qualità, ai sensi dell’art. 63 c.p.p..

Con un terzo motivo si lamenta l’omesso esame delle specifiche allegazioni difensive che avrebbero consentito di ravvisare la buona fede del C., in particolare trascurando le dichiarazioni della S. circa la sicura paternità del primo, l’immediato affidamento del neonato al direttore sanitario, nonchè l’attiva partecipazione dell’imputato all’accertamento tecnico, prestandosi volontariamente all’analisi comparativa dei DNA. Si duole, infine, della mancata concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, nonostante il C. si sia sottoposto spontaneamente alla indagine genetica.

2.2. La S. lamenta violazione dell’art. 192 c.p.p. e mancanza e manifesta illogicità della motivazione sull’elemento soggettivo, ritenuto sulla base di meri sospetti e congetture; tanto più che la ricorrente aveva sempre fornito risposte coerenti al suo intimo convincimento che il padre del neonato si identificasse nel C.. Farebbe difetto, inoltre, ogni indicazione sul vantaggio patrimoniale (o di altro tipo) che la S. avrebbe potuto ricavare dalla falsa dichiarazione. 3. Il ricorso del C. è inammissibile.

Quanto al secondo motivo di ricorso, che riveste carattere preliminare – accentrato, come esso appare, sull’inutilizzabilità di una prova e, quindi, su un vero e proprio error in procedendo decisivo ai fini dell’affermazione di responsabilità – va subito precisato che l’esame della doglianza con cui si deduce violazione dell’art. 63 c.p.p., comma 2, rimane precluso in questa sede in quanto non risulta che la censura sia stata fatta valere nè nel corso del giudizio di primo grado nè con l’atto di appello. Ciò solo considerando che l’inutilizzabilita, intesa come inidoneità dell’atto a spiegare validamente la sua funzione probatoria in forza di un divieto stabilito dalla legge, può essere dedotta e rilevata in ogni stato e grado del procedimento sempre però che il relativo accertamento non richieda valutazioni di fatto soggette al previo e naturale vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito.

Nè potrebbe essere utilmente chiamato in causa il precetto di cui all’art. 609 c.p.p., comma 2, in forza del quale possono superarsi i limiti del devolutimi e della ordinaria progressione dell’impugnazione, oltre che per le violazioni di legge non deducibili in grado d’appello, anche per le questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo. La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, costante nel senso che la detta previsione deve raccordarsi con la natura propria del giudizio di legittimità, che, come confermato sistematicamente dall’art. 569 c.p.p., comma 3, non tollera diretti apprezzamenti di fatto sostitutivi della sede naturale del merito (Sez. 6^, 12 settembre 2010, Rallo). Orbene, la inutilizzabilità dedotta dal ricorrente si fonda sull’assunto, per la prima volta introdotto in sede di legittimità (e peraltro non ritenuto dirimente ai fini dell’affermazione di colpevolezza ricavata, oltre che dalla documentazione acquisita, dalla omessa – quanto significativa – immediata indicazione della paternità del bambino da parte della S., sostituita in ciò proprio dalla moglie del C., dalle dichiarazioni della Co., nonchè dalle insuperabili massime di esperienza enunciate dalle sentenze di merito e solo formalmente contestate dal ricorrente), che le dichiarazioni dei ricorrenti fossero state assunte senza l’osservanza delle garanzie previste dall’art. 63 c.p.p.. Ma il giudizio sulla fondatezza (oltre che sulla rilevanza) di tale assunto presuppone una specifica valutazione della situazione di fatto, valutazione che poteva e doveva essere sottoposta al vaglio prima del Tribunale e poi della Corte di appello, così da consentire ogni necessaria verifica, non soltanto sulle situazioni di fatto in cui sono maturate le dichiarazioni, ma anche sull’effettiva consistenza dei pretesi elementi a carico; secondo il modello reiteratamente prefigurato dalla giurisprudenza di questa Corte e di recente ribadito dalle Sezioni unite (sulla base di una ratio decidendi che eccede quella riferibile alle dichiarazioni contra alios) secondo cui il richiamo al precetto dell’art. 63 c.p.p., comma 2, postula che, a carico dell’interessato siano stati già acquisiti indizi non equivoci di reato, come tali conosciuti dall’autorità procedente, non rilevando a tale proposito eventuali sospetti od intuizioni personali dell’interrogante (Sez. un., 23 aprile 2009, Fruci). Tutti ciò anche considerando che, essendosi proceduto con rito abbreviato e, dunque, sulla base degli atti acquisiti nel corso delle indagini preliminari, diviene davvero necessitato l’adempimento dell’onere diretto a contestare (proprio sulla base di circostanze di fatto che comprovino la correttezza dell’assunto sub specie iuris) l’utilizzazione di una prova che si assume addirittura vietata.

Del resto, lo stesso C., nello stigmatizzare la valorizzazione dimostrativa delle contraddizioni tra quanto riferito dai ricorrenti (relazione pluriennale ovvero rapporto occasionale), richiama situazioni di fatto produttive di conseguenze processuali coincidenti con la violazione del dovere di assunzione in mancanza delle garanzie previste per la persona indagata, senza però aver previamente eccepito nè davanti al Giudice dell’udienza preliminare nè nell’ambito delle contestazioni sviluppate contro la decisione di primo grado, argomento alcuno da cui desumere l’effettiva consistenza degli elementi di fatto in grado di supportare, con l’esistenza del detto divieto, la relativa sanzione. Un onere, quello ora rammentato, che assume una specifica significazione nel giudizio abbreviato entro il quale l’accertamento dell’inutilizzabilità patologica (secondo lo schema modellato a suo tempo da Sez. un., 21 giugno 2000, Tammaro) se presuppone, come nel caso di specie, una verifica dei presupposti di fatto che possono dar luogo alla cancellazione della prova, deve essere subito adempiuto davanti al giudice di primo grado e, condizionatamente al congiunto rilievo dell’endiadi inutilizzabilità patologica-presupposti di fatto, davanti al giudice di appello. Ciò anche considerando che l’omessa tempestiva deduzione del vizio potrebbe anche implicitamente comprovare un interesse di chi ha omesso di denunciarlo ad assegnare all’atto valore probatorio (certo non in damnosis). Una tematica alquanto trascurata sia in giurisprudenza sia in dottrina, ma comunque di valenza decisiva anche con riferimento ad una concreta individuazione dei rapporti tra l’art. 191 c.p.p. e l’art. 609 c.p.p., comma 2, c.p.p., la cui interpretazione non può certo restare influenzato dalla originaria inerzia del ricorrente nè, a fortiori, dalle virtuali progressioni del suo interesse.

In conclusione, se l’inutilizzabilità sancita dall’art. 63 c.p.p., diretta com’essa è, a cancellare elementi probatori dal processo, presuppone necessariamente accertamenti in punto di fatto che soli possano costituire il presupposto indispensabile per la declaratoria di inidoneità dell’atto stesso a valere come prova (decisiva), il "vizio" deve essere previamente dedotto davanti al giudice di merito.

Il che comprova ulteriormente l’inammissibilità della censura proprio in quanto introdotta per la prima volta in cassazione.

Gli ulteriori motivi di ricorso proposti dal C. concernenti l’elemento soggettivo del reato per cui è intervenuta condanna si risolvano in una non ammessa rilettura delle fonti di prova che la Corte territoriale ha ampiamente e rigorosamente verificato con giudizio di fatto incensurabile davanti al giudice di legittimità.

Come è ormai, infatti, diritto vivente, in sede di ricorso per cassazione sono rilevabili esclusivamente i vizi di motivazione che incidano sui requisiti minimi di esistenza e di logicità del discorso argomentativo svolto nel provvedimento e non sul contenuto della decisione. Il controllo di logicità deve rimanere all’interno del provvedimento impugnato e non è possibile procedere a una nuova e diversa valutazione degli elementi probatori o a un diverso esame degli elementi materiali e di fatto delle vicende oggetto del giudizio, salvo i casi prevista dal "novellato" art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e.

Le ricostruzioni alternative, al pari delle censure sulla selezione e l’interpretazione del materiale probatorio, non possono essere idonee ad accedere al giudizio di legittimità quando la motivazione sia, nei suoi contenuti fondamentali, coerente e plausibile. In presenza di una corretta ricostruzione della vicenda, in questa sede non è ammessa incursione alcuna nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti, dovendosi la Corte di legittimità limitare a ripercorrere l’iter argomentativo svolto dal giudice di merito per verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili (cfr., ex plurimis, Sez. un., 23 febbraio 2003, Petrella). Il tutto considerando che la fattispecie delittuosa di cui all’art. 567 c.p.p., comma 2, tutela anche lo status di figlio naturale, mirando a prevenire la difformità tra lo stato reale del neonato e quello derivante dal falso operare dell’agente (cfr., ex plurimis, Sez. 6^, 3 luglio 1990, Fiore).

Manifestamente infondata è, infine, la dedotta violazione dell’art. 62 c.p., n. 6, rispetto peraltro ad una situazione di fatto compiutamente accertata da entrambi i giudici di merito.

4. Un’identica sorte va assegnata al ricorso della S., incentrato, come esso appare, su argomenti ampiamente scrutinati dai giudici di primo e di secondo grado, anche qui con giudizio di fatto incensurabile in questa sede. Ci si trova, anzi, in presenza della congiunta operatività dei precetti dell’art. 591 c.p.p., per la palese non specificità delle censure, pressochè riproduttive dei motivi di appello, e dell’art. 606 c.p.p., comma 3, per essere stati dedotti motivi non consentiti.

4. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna di ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende che si ritiene equo determinare in Euro 1000.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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