Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 06-04-2011) 01-06-2011, n. 22097

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza in data 22.07.2010 la Corte d’appello di Catanzaro, in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza proposta da M.L.A. di riunione in continuazione in executivis, ex art. 81 cpv. c.p. e art. 671 c.p.p., di tutti i reati di cui alle quattro sentenze di condanna ivi indicate. In particolare detta Corte rilevava come dovesse escludersi in fatto l’identità delle fattispecie associative di cui alla prima ed all’ultima di tali sentenze e come le altre sentenze riguardassero reati autonomi che non risultavano connessi alle attività associative.

2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l’anzidetto condannato che motivava l’impugnazione deducendo: era pacifica l’unicità del ruolo di capo del clan assunta da esso ricorrente; gli altri reati erano espressione della vita associativa, a nulla rilevando che fosse stata esclusa l’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7. 3. Il Procuratore generale presso questa Corte depositava quindi requisitoria con la quale richiedeva declaratoria di inammissibilità del ricorso.

4. Il ricorso, manifestamente infondato, deve essere dichiarato inammissibile con ogni dovuta conseguenza di legge. Ed invero l’impugnata ordinanza del tutto correttamente, sulla base delle risultanze delle sentenze di cognizione, ha escluso che i fatti di estorsione continuata (di cui alla sentenza 27.12.1991) commessi nel (OMISSIS), possano essere collegati con il reato associativo di cui alla sentenza 19.03.1987, essendo quell’associazione cessata nel (OMISSIS), e con il reato associativo di cui alla sentenza 06.12.2007, essendo stato quest’ultimo reato accertato come commesso dal (OMISSIS).

Ostano, dunque, insuperabili ragioni cronologiche. Del pari non vi sono elementi – osserva l’impugnata ordinanza – per ritenere l’unità delle due associazioni, distanziate tra loro da uno iato temporale di ben 15 anni. Nè, infine, può ritenersi che i reati di usura ed estorsione commessi tra il 2001 ed il 2002, e dunque pur in vigenza del secondo vincolo associativo, possano ritenersi collegati con lo stesso, sulla base dell’esclusione della significativa aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e sul rilievo della loro commissione in forma autonoma, come attendibilmente ritenuto nell’ordinanza stessa. Tali motivazioni, logiche e coerenti, devono essere qui convalidate, siccome conformi alla normativa ed alla consolidata giurisprudenza in materia. E’ ineccepibile, infine, la conclusiva considerazione della Corte territoriale secondo cui da un lato si tratta di reati espressione di una scelta di vita delinquenziale, dall’altro difetta l’evidenza che, ab initio, il M. avesse previsto e voluto, sia pur in forma generica, tutti i reati successivamente perpetrati.- Orbene, a fronte di ciò, è di tutta evidenza l’infondatezza totale dei proposti motivi di ricorso.

Le tesi difensive partono tutte dall’affermazione – contraria alle acquisite risultanze- che la cosca denominata "clan Muto" sia stata partecipata, con vario ruolo, dall’odierno ricorrente dagli inizi degli anni 80 in poi senza soluzione di continuità, il che non trova conferma negli accertamenti giudiziari. Il ricorso non supera, dunque, le rilevate distanze cronologiche, ma soprattutto non riesce a muovere critica alcuna, che abbia riscontro in atti, e dunque che non sia apodittica, al rilievo del giudice dell’esecuzione secondo cui i reati non associativi (estorsione ed usura) non risultano commessi in un contesto associativo. Infine il ricorso non affronta il vero tema (mancanza di un unico disegno già fin dall’inizio dell’attività criminosa), posto che l’eventuale ricollegabilità di singoli reati ad un contesto associativo non costituisce per ciò solo, ex se, secondo costante giurisprudenza, vincolo di continuazione (atteso che la strumentalità non può essere confusa, e non coincide, con il necessario previo disegno).

Il ricorso, palesemente infondato, deve pertanto essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria di inammissibilità consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso proposto in termini del tutto infondati (v. sentenza Corte Cost. n. 186/2000).
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente M.L. A. al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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