Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-09-2011, n. 20106 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 497/2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Pistoia, in accoglimento della domanda proposta da B. C. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 8-2-2001, stipulato per esigenze "straordinarie" ex art. 25 del ccnl del 2001, con conseguente sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato da tale data, e condannava la società al pagamento della retribuzione dal 10-2-2004, oltre accessori.

La società proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma, con il rigetto della domanda di controparte.

La B. si costituiva resistendo al gravame e proponendo appello incidentale condizionato inteso alla declaratoria di nullità dei termini apposti ai contratti successivi.

La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza depositata il 21-9-2006, confermava la pronuncia di primo grado.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con tre motivi.

La B. ha resistito con controricorso.

Infine la società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1362 c.c., e segg., con riferimento all’art. 25 ccnl 2001, commi 3 e 4, lamenta la erroneità del calcolo, operato dalla Corte di merito, della percentuale dei lavoratori che possono essere assunti a tempo determinato ai sensi della citata norma collettiva. in particolare la ricorrente assume che il detto calcolo doveva essere effettuato non meramente per "teste", bensì avendo riguardo in sostanza ai rapporti "full-time", così considerando pro quota i contratti "part-time" in rapporto alla durata percentuale e al periodo di tempo preso in esame.

La ricorrente, inoltre, deduce che comunque "non è prevista alcuna effettiva sanzione in ipotesi di violazione dei limiti di contingentamento fissati dalla norma collettiva".

Il motivo è inammissibile, in quanto trattasi di questioni nuove, involgenti temi di indagine nuovi, richiedenti nuovi accertamenti di fatto, i quali non sono stati oggetto del giudizio di merito.

Al riguardo questa Corte ha ripetutamente affermato che "nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello" (v. Cass. 16-8-2004 n. 15950, Cass. 27-8-2003 n. 12571, Cass. 5-7-2002 n. 9812. Cass. 9-12-1999 n. 13819). Nel contempo è stato anche precisato che "nel caso in cui una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, indicando altresì in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, così da permettere alla Corte di Cassazione di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa" (v.

Cass. 15-2-2003 n. 2331. Cass. 12-7-2005 n. 14590, 12-7-2005 n. 14599. Cass. 28-7-2008 n. 20518).

Nulla avendo indicato al riguardo la ricorrente, il motivo non può che ritenersi inammissibile.

Peraltro è evidente anche la estraneità ed inconferenza del motivo stesso rispetto al decisum della sentenza impugnata, incentrato sulla mancata prova, da parte del datore di lavoro, del rispetto della clausola di contingentamento, per la "insufficienza della documentazione offerta", "giacchè essa indica solo a grandi linee la programmazione generale dei contratti", "senza alcuna dimostrazione del concreto rispetto delle quote in sede nazionale e regionale".

Con il secondo motivo, la società, denunciando violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 421 e 437 c.p.c., e vizio di motivazione, censura la detta statuizione, sostenendo che incombeva sulla lavoratrice, che assumeva il mancato rispetto della quota numerica prevista dal ccnl, la prova delle ragioni della dedotta illegittimità della apposizione del termine e che, comunque i giudici di merito avevano il potere dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori idonei a superrare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione".

La prima censura è infondata in quanto, come è stato affermato da questa Corte e va qui ribadito, "nel regime di cui alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, la facoltà delle organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro è subordinata dall’art. 23 alla determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti; pertanto, non è sufficiente l’indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresì, a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità dell’apposizione del termine nei contratti stipulati in base all’ipotesi individuata ex art. 23 citato, l’indicazione de numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, sì da potersi criticare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine.

L’onere della prova dell’osservanza di detto rapporto è a carico del datore di lavoro, in base alle regole di cui alla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 3, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro" (v. Cass. 19-1-2010 n. 839).

Neppure, poi, può essere accolta la seconda censura.

L’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass. S.U. 17-6-2004 n. 11353) -non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere-dovere, sicchè il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull’onere della prova, avendo l’obbligo – in ossequio a quanto prescritto dall’art. 134 cod. proc. civ., ed al disposto di cui all’art. 11 Cost., comma 1, sul "giusto processo regolato dalla legge" – di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all’uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso".

In particolare è stato altresì precisato che il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori" (v. Cass. 12-3-2009 n. 6023, Cass. 26/6/2006 n. 14731) e che, comunque, i detti poteri, "pur diretti alla ricerca della verità, in considerazione della particolare natura dei diritti controversi – non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, nè tradursi in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale" (cfr.

Cass. 8-8-2002 n. 12002, Cass. 21-5-2009 n. 11847, Cass. 22-7-2009 n. 17102, Cass. 15-3-2010 n. 6205).

Orbene nella fattispecie la ricorrente, senza fornire alcuna indicazione in ordine alle richieste avanzate davanti ai giudici di merito, in sostanza si è limitata a dedurre genericamente che i detti giudici avrebbero dovuto "almeno disporre una consulenza contabile di ufficio".

La censura risulta quindi inammissibile, tanto più se si considera che la c.t.u. "è mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratto alla disponibilità delle parti ed affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario e la motivazione dell’eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato" (v. Cass. 2-3-2006 n. 4660, Cass. 5-7-2007 n. 15219, Cass. 21-4-2010 n. 9461).

Con il terzo motivo, indicato nella rubrica come di omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo, ma in realtà riguardante la asserita violazione di una regola iuris riconduciate al l’art. 2697 cod. civ. (con conseguente assorbimento, comunque, del preteso vizio di motivazione – arg. art. 384 c.p.c.. u.c.) e attinente all’argomento della detrazione dell’aliunde perceptum dal danno da risarcire in conseguenza dell’accertata nullità del termine e della conversione del contratto a tempo indeterminato, la ricorrente lamenta, del tutto genericamente, che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere irrilevante la relativa eccezione e censura la sentenza per non avere tenuto conto che l”aliunde perceptum… non può che essere genericamente dedotto dall’istante. Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nei periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga)".

Il motivo, così riassunto, conclude poi con la formulazione del seguente quesito ex art. 366 bis c.p.c.:

"Dica la Corte se, nel caso di aggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto".

Se si tiene conto del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alla fattispecie cui si riferisce la censura (cfr., ad es., Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36 e 5 febbraio 2008 n. 2658) è evidente che il quesito come sopra formulato dalla società appare in buona parte estraneo alle argomentazioni sviluppate nel motivo e comunque del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi inesistente con conseguente inammissibilità del motivo ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (in tal senso v. fra le altre Cass. 10-1-2011 n. 325).

Così risultato inammissibile il terzo motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010 (invocato dalla società con la memoria).

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della B..
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla B. le spese, liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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