Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 18-03-2011) 01-06-2011, n. 22095 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 14 settembre 2010 il Tribunale di Palermo, costituito ai sensi dell’art. 310 c.p.p., rigettava l’appello proposto da I. L. avverso l’ordinanza in data 10 agosto 2010 con la quale il gip del locale Tribunale aveva respinto l’istanza di revoca o sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, in precedenza adottata in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis c.p..

Il Tribunale preliminarmente ricostruiva l’ambito del devolutum e chiariva che rimanevano estranee alla sua cognizione le censure prospettate al g.i.p. con la domanda originaria, ma non coltivate nei motivi d’impugnazione e quelle non sorrette da motivi specifici.

Disattendeva, inoltre, le eccezioni di inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni, sollevate dalla difesa sotto diversi profili.

Nel merito osservava che l’appello non meritava accoglimento, atteso che dalle attività captative, confortate dai servizi di osservazione e pedinamento, dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia V.A., dal contenuto delle condanne pronunciate nei confronti di G.F., M. A., R.G. in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis c.p. emergeva l’organico inserimento di I. nel sodalizio di stampo mafioso capeggiato dal latitante Me.

D.M. e da suo fratello Salvatore e l’attivo contributo, causalmente rilevante, fornito alla vita dell’associazione mediante l’espletamento di funzioni di raccordo operativo tra gli appartenenti al "mandamento" di Castelvetrano e l’apporto di una base logistica (l’officina dell’indagato), utilizzata per riunioni e incontri fra i membri. Tali condotte erano espressive di una particolare pericolosità sociale che poteva essere contenuta soltanto mediante il mantenimento della custodia cautelare in carcere.

2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, tramite i difensori di fiducia, I., il quale formula le seguenti doglianze.

In primo luogo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento alla ricostruzione dell’ambito del devolutum alla luce delle doglianze formulate dalla difesa che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, non erano generiche, concernevano soltanto alcuni dei decreti di intercettazione e sollecitavano un’esatta verifica del rispetto dei termini massimi per lo svolgimento delle indagini preliminari e dello svolgimento delle operazioni di intercettazione nel rispetto dei termini stabiliti dall’art. 407 c.p.p..

Deduce, inoltre, l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per inosservanza del disposto di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3, tenuto conto dell’omessa specificazione nei provvedimenti delle modalità di prima captazione del segnale e dell’adozione o meno del cd. "sistema Mito".

Si duole, inoltre, dell’inutilizzabilità del Decreto n. 2383/04 (rilevante per la posizione dell’indagato) per assenza dei verbali delle operazioni e per inosservanza del disposto di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3; evidenzia, al riguardo, che l’AG di Palermo ha dichiarato, nell’ambito della procedura incidentale a carico di C.C., l’inutilizzabilità delle operazioni eseguite in virtù dei Decreti n. 1405/06 e 1015/07, riguardanti un’identica situazione in fatto.

L’omesso rispetto del disposto di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3. viene eccepito anche in relazione ai Decreti n. 650/04 e 1127/05, che, oltre a contenere una non consentita motivazione alternativa in ordine alla utilizzazione degli impianti, sono accompagnati da una tardiva attestazione circa l’indisponibilità delle apparecchiature in dotazione della Procura, rispetto alla data della richiesta di proroga delle operazioni o alla data di scadenza delle operazioni di ascolto.

Lamenta, infine, mancanza della motivazione e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del quadro di gravità indiziaria pure alla luce delle risultanze delle investigazioni difensive, nonchè in rapporto alla qualificazione giuridica dei fatti ai sensi dell’art. 416 bis c.p..
Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato.

1. Il primo motivo di censura è manifestamente privo di pregio.

La cognizione del giudice cautelare costituito ai sensi dell’art. 310 c.p.p. è perimetrata dai motivi dedotti con l’impugnazione e la stessa facoltà devolutiva è delimitata dalla natura e dal contenuto del provvedimento impugnato: Di conseguenza il thema decidendum proposto nell’atto di impugnazione deve coincidere con quello sottoposto al giudice a quo e con l’appello non possono proporsi motivi del tutto nuovi rispetto a quelli avanzati nell’istanza sottoposta al giudice di primo grado; al giudice ad quem non è attribuito il potere di estendere d’ufficio la sua cognizione a questioni neppure prese in esame dal giudice a quo. (Sez. 6, 29 gennaio 1998, n. 335; Sez. 2, 2 luglio 1999 n. 3418).

Esaminata in quest’ottica la motivazione del provvedimento impugnato è, all’evidenza, esente da censure nella parte in cui ha precisato che rimanevano estranei all’ambito del devolutum i motivi di impugnazione che, pur prospettati nell’istanza originaria, non avevano formato oggetto dell’atto di appello, depositato il 19 agosto 2010.

E’ parimenti corretta la motivazione dell’ordinanza impugnata laddove ribadisce, in adesione ai principi costantemente enunciati da questa Corte, che anche in materia cautelare l’atto di appello deve essere corredato da motivi specifici correlati alle argomentazioni sviluppate nell’ordinanza impugnata e che, pertanto, non potevano trovare ingresso i rilievi difensivi che, in via meramente ipotetica, prospettavano, senza alcun richiamo di precisi atti del procedimento, l’omessa osservanza del termine delle indagini preliminari e la prosecuzione delle attività di intercettazione oltre i termini stabiliti dall’art. 407 c.p.p..

2. Manifestamente infondati sono anche il secondo, il terzo e il quarto motivo di ricorso.

Occorre premettere che la possibilità di deroga circa l’uso esclusivo di impianti installati presso la Procura della Repubblica esige, ai sensi dell’art. 268 c.p.p., comma 3, la sussistenza di due presupposti: a) l’insufficienza o inidoneità degli impianti in dotazione del predetto ufficio giudiziario; b) la sussistenza di eccezionali ragioni di urgenza.

In presenza di questi due presupposti, a rendere legittima l’intercettazione per mezzo di impianti esterni all’ufficio giudiziario occorre altresì che il pubblico ministero emetta apposito decreto motivato prima dell’esecuzione delle operazioni captative (Sez. Un. 29 novembre 2005, n. 21, rie. Campennì);

occorre, cioè, un congruo apparato giustificativo dal quale possa dedursi l’iter cognitivo e valutativo seguito dall’autorità giudiziaria (Sez. Un. 21 giugno 2000, ric. Primavera).

Quanto all’inidoneità e insufficienza degli impianti captativi in dotazione all’ufficio di Procura, si è puntualizzato che la motivazione relativa ad essi non può certo limitarsi a dare atto dell’esistenza di tale situazione, ma deve specificare la ragione dell’inidoneità o dell’insufficienza, sia pure mediante un’indicazione sintetica, purchè questa non si traduca nella mera riproduzione del testo della norma, ma dia conto del fatto storico, ricadente nell’ambito dei poteri di cognizione del pubblico ministero (Sez. Un. 26 novembre 2003, n. 919; Sez. Un. 12 luglio 2007, n. 30347).

L’ordinanza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi. Muovendo dalla premessa della superfluità dell’esame delle doglianze difensive nella parte concernente un complesso di decreti non evidenzianti elementi di accusa nei confronti di I. (cfr. f. 9 dell’ordinanza impugnata), ha poi correttamente sottolineato l’assenza di specifici rilievi in merito alle operazioni sorrette dai decreti con i quali sono state autorizzate le operazioni di intercettazione che hanno permesso di acquisire elementi indiziar nei confronti di I. (cfr., in particolare, il decreto n. 2889/05 da correlare al contenuto della conversazione del 20 marzo 2006).

Con riferimento ai restanti decreti di intercettazione, i giudici di merito hanno sottolineato che, una volta intervenuta la convalida da parte del g.i.p. degli originari provvedimenti captativi emessi in via d’urgenza dal pubblico ministero, non è stato emanato alcun provvedimento derogatorio dell’utilizzo degli impianti in dotazione della Procura della Repubblica. Successivamente, in sede di proroga delle operazioni di intercettazione, sono state rispettate le cadenze procedimentali fissate dalla legge processuale, in quanto alla tempestiva richiesta di proroga avanzata dal pubblico ministero hanno fatto ritualmente seguito i decreti di proroga del pubblico ministero e i provvedimenti adottati dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 268 c.p.p., comma 3, contenenti l’esplicito riferimento alla "insufficienza" degli impianti per assenza di linee ed apparecchiature libere e alla sussistenza di eccezionali ragioni di urgenza che, tenuto conto delle gravi condotte criminose in atto, espressione dell’operatività del sodalizio di stampo mafioso, impedivano un differimento pena un grave pregiudizio per le indagini che soltanto la deroga poteva evitare (Sez. Un. 31 ottobre 2001, n. 42792; Sez. Un. 26 novembre 2003, n. 919).

L’obbligo di motivazione dei decreti del pubblico ministero risulta, quindi, nella specie adeguatamente assolto, considerato che, in ciascuno di essi, si è data contezza delle ragioni che rendevano gli impianti di quella Procura concretamente inadeguati al raggiungimento dello scopo, in relazione al reato per cui si procedeva ed al tipo di indagini necessarie (Sez. Un., 12 luglio 2007, n. 30347) e irrilevanti, sotto tale profilo, appaiono i rilievi formulati dal ricorrente in ordine all’omesso specificazione del sistema di captazione del primo segnale.

Manifestamente prive di pregio sono anche le censure difensive (peraltro formulate genericamente) riguardanti l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per omesso rispetto dei termini delle indagini preliminari. L’ordinanza impugnata, con puntuale richiamo alle emergenze processuali acquisite, ha correttamente sottolineato che tutte le conversazioni sorrette dal decreto n. 1127/05, che concretamente concorrono a delineare il quadro di gravità indiziaria, sono state captate in un arco di tempo antecedente alla data del 27 aprile 2007 e che, pertanto, esse sono pienamente utilizzabili.

Le ulteriori doglianze difensive (inutilizzabilità dei risultati captativi conseguenti all’adozione del decreto n. 2383/04, rilevante per la posizione dell’indagato, per assenza dei verbali delle operazioni e per inosservanza del disposto di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3 e dei Decreti n. 650/04 e 1127/05, caratterizzati da una non consentita motivazione alternativa in ordine alla utilizzazione degli impianti e sorretti da una tardiva attestazione circa l’indisponibilità delle apparecchiature in dotazione della Procura, avuto riguardo alla data della richiesta di proroga delle operazioni o alla data di scadenza delle operazioni di ascolto) non trovano alcun obiettivo elemento di riscontro negli atti acquisiti e sono anch’esse manifestamente infondate.

3. Privi all’evidenza di qualsiasi pregio sono i restanti motivi di ricorso.

Il Tribunale ha attentamente analizzato, con motivazione esauriente ed immune da vizi logici e giuridici, le risultanze probatorie disponibili e ha desunto la gravità degli indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 bis c.p. dal contenuto delle intercettazioni, dall’esito dei servizi di osservazione e pedinamento svolti, dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia V.A., dal contenuto delle condanne pronunciate nei confronti di G.F., M.A., R. G. in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis c.p..

Il Tribunale, con motivazione compiuta e logica, ha evidenziato l’operatività di un articolato sodalizio di stampo mafioso, capeggiato dai fratelli Ma. e Me.De.Sa., all’interno del quale l’indagato svolgeva funzioni di raccordo operativo nel tessuto connettivo dell’articolazione di "cosa nostra" attiva in territorio di (OMISSIS), metteva la sua officina a disposizione dei consociati per le riunioni dell’organizzazione.

Il provvedimento impugnato ha, altresì, sottolineato che, con tali comportamenti, il ricorrente forniva un pieno e consapevole contributo causale grazie al suo rapporto fiduciario con i capi indiscussi dell’organizzazione, da tempo adusa ad avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà, per la commissione di una serie di delitti al fine di realizzare il controllo capillare del territorio e di realizzare ingenti profitti illeciti e di consentire il pieno radicamento territoriale dell’organizzazione, della sua espansione economica, del sostentamento degli associati del sodalizio.

Orbene, lo sviluppo argomentativo della motivazione è fondato su una coerente analisi critica degli elementi indizianti e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale, pur tenendo conto delle considerazioni svolte dalla difesa e degli apporti dalla stessa forniti, appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi del requisito della gravità, nel senso che questi sono stati reputati conducenti, con un elevato grado di probabilità, rispetto al tema di indagine concernente la responsabilità di I. in ordine al delitto di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso contestatogli, oggetto di una corretta qualificazione giuridica.

Di talchè, considerato che la valutazione compiuta dal Tribunale verte sul grado di inferenza degli indizi e, quindi, sull’attitudine più o meno dimostrativa degli stessi in termini di qualificata probabilità di colpevolezza anche se non di certezza, deve porsi in risalto che la motivazione dell’ordinanza impugnata supera il vaglio di legittimità demandato a questa Corte, il cui sindacato non può non arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e della conformità ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, prescritti dall’art. 273 c.p.p. per l’emissione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, senza poter attingere l’intrinseca consistenza delle valutazioni riservate al giudice di merito.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.

La cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille Euro alla cassa delle ammende.

Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al Direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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