Cass. pen., sez. I 09-10-2008 (01-10-2008), n. 38437 Ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero ed appello proposto dall’imputato contro sentenza emessa con il rito abbreviato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

FATTO E DIRITTO
La Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della decisione emessa dal tribunale della stessa città, dichiarava inammissibile l’appello proposto dall’imputato e in accoglimento del ricorso del P.G., convertito in appello, escludeva le attenuanti generiche e condannava M.G. all’ergastolo per i delitti di omicidio aggravato e rapina. Preliminarmente rilevava che l’imputato, dopo la fissazione del giudizio di appello aveva rinunciato all’impugnazione, per cui il suo appello doveva essere dichiarato inammissibile; quanto al ricorso del P.G., già convertito in appello, doveva essere valutato in quanto ormai la conversione era avvenuta e, pertanto, ne doveva essere valutata l’ammissibilità e la fondatezza. Richiamando la consolidata giurisprudenza di legittimità osservava che la rinuncia dell’imputato all’appello, intervenuta dopo la regolare costituzione delle parti, non poteva più incidere sulla conversione del ricorso del P.G. in appello, non riguardando la sua inammissibilità vizi originari, ma la sua libera scelta di rinunciare all’impugnazione.
Aggiungeva che la valutazione di ammissibilità del ricorso del P.G. doveva essere effettuata ai sensi dell’art. 606 c.p.p. e, solo una volta superato tale vaglio, la Corte d’appello poteva riprendere la propria funzione di giudice di merito e poteva adottare i provvedimenti conseguenti.
Riteneva che sussistessero le condizioni di ammissibilità del ricorso in quanto erano stati dedotti la mancanza di ogni motivazione sulla concessione delle attenuanti generiche ed in particolare sulla capacità a delinquere, nonchè la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui, dopo aver ritenuto l’assoluta gravità dei fatti, si era deciso di concedere le attenuanti, senza valutare i numerosi precedenti penali e il contraddittorio comportamento processuale volto ad ottenere vantaggi personali.
Venendo poi all’esame del merito osservava che l’impugnazione doveva essere accolta.
Il giudice di primo grado aveva riconosciuto le attenuanti generiche sulla base di 3 elementi; la circostanza che M. si fosse presentato spontaneamente ai carabinieri per confessare l’omicidio, anche se indotto da una situazione di conflitto insostenibile con la convivente; la circostanza che in quel momento non sapesse che la convivente aveva già reso dichiarazioni accusatorie; la circostanza che le fonti di prova fino a quel momento raccolte contro di lui non sarebbero state sufficienti per una condanna se non fosse intervenuta la sua confessione. Riteneva la corte che tali elementi fossero stati affermati dal giudice in modo apodittico e privo di riscontri, e infatti la motivazione sui riscontri di quanto affermato era mancante.
Tanto premesso riteneva la corte che a questo punto rientrasse nei suoi poteri procedere ad un riesame nel merito onde addivenire ad una rivalutazione degli elementi di fatto. Era provato in atti che M. si era presentato dai carabinieri perchè indotto da una situazione conflittuale con la convivente ed aveva affermato che la convivente non voleva che lui confessasse per amore dei figli; nella descrizione delle responsabilità aveva cercato di attribuirle alla convivente, riservando a se stesso un ruolo marginale di mero esecutore della rapina. Era stata accertato invece che M. utilizzava questo segreto, che i due condividevano, come arma di ricatto per impedire alla convivente di rivelare i fatti e per tenerla legata a sè. Nel momento in cui la donna aveva iniziato un’altra relazione e aveva acquistato sempre più autonomia, l’imputato aveva iniziato a tenere comportamenti violenti e minacciosi, tanto che i carabinieri avevano chiesto al P.M. di emettere una misura cautelare contro di lui. La convivente per uscire dal ricatto si era recata dai carabinieri ed aveva confessato la sua partecipazione ai fatti e nel corso di una lite furibonda col M., uno dei propri figli presente, glielo aveva detto, dal che se ne deduceva che la presentazione ai carabinieri di quest’ultimo era solo dovuta a vendetta e a calcolo utilitaristico. Infatti la scelta del M. di confessare era avvenuta subito dopo quella lite.
Anche l’affermazione secondo cui senza la confessione non si sarebbero acquisite prove sufficienti contro l’imputato appariva apodittica visto che vi erano stati numerosi testi oculari che avevano descritto l’autore con precisione. Infine la sua confessione lungi da apparire completa, era stata falsa fin dall’inizio, avendo egli cercato, prima, di scaricare la responsabilità sulla convivente, e poi, di ridurre le sue responsabilità narrando di una reazione della vittima, risultata insussistente.
La Corte riteneva, pertanto, di dover escludere le attenuanti generiche e condannava l’imputato all’ergastolo.
Avverso la decisione presentava ricorso l’imputato deducendo violazione di legge in relazione agli artt. 580 e 569 c.p.p. in quanto dopo la rinuncia all’appello dell’imputato la conversione del ricorso in appello non era più possibile; violazione dell’art. 443 c.p.p. poichè la pronuncia di primo grado era avvenuta nelle forme del rito abbreviato e poichè in caso di condanna, senza modifica della qualificazione giuridica del fatto, non era possibile per il P.M. presentare appello, seguendo la tesi prospettata dalla sentenza si sarebbe aggirato il divieto di legge e si sarebbe consentito al P.G. di appellare sentenze inappellabili; comunque il ricorso era inammissibile in quanto volto a rivalutare le circostanze che avevano indotto il giudice di primo grado a concedere le attenuanti generiche, mentre la motivazione appariva congrua e logica.
Con motivi aggiunti osservava:
– era necessario contemperare l’art. 580 c.p.p., che si occupa della conversione di distinti mezzi di impugnazione, con il divieto stabilito dall’art. 443 c.p.p. per il P.M. di impugnare con appello le sentenze di condanna con rito abbreviato che non abbiano modificato la qualificazione giuridica del fatto, con la conseguenza che la conversione poteva essere ritenuta possibile solo qualora la sentenza fosse di per se impugnabile ed il P.M. avesse scelto il ricorso in cassazione, ma non anche quando la sentenza era per legge non appellabile;
– la conversione del ricorso del P.G. in appello doveva conservare comunque la natura di impugnazione di legittimità, con la conseguenza che la corte d’appello doveva vagliarne l’ammissibilità e poi al massimo annullare la sentenza di primo grado con restituzione degli atti al primo giudice, così come avrebbe operato la Corte di cassazione, ma mai avrebbe potuto decidere nel merito sottraendo all’imputato un grado di giurisdizione, tanto più che per decidere si era avvalsa di verbali di dibattimento prodotti in appello dall’accusa e mai sottoposti al controllo dell’imputato;
– la manifesta infondatezza dei motivi di impugnazione del P.G. derivava dal contenuto di mero fatto delle contestazioni alla sentenza di primo grado, come il comportamento del M. al momento della rapina, la sua reticenza a riferire particolari dell’esecuzione particolarmente crudeli, l’intento perseguito con la confessione, mentre la motivazione di primo grado aveva preso in esame tali elementi e li aveva valutati come non idonei ad impedire la concessione delle attenuanti generiche.
Presentava una memoria la parte civile costituita e con essa affermava:
– la conversione del ricorso del P.G. in appello doveva essere ritenuto irretrattabile, anche in presenza di una rinuncia all’appello dell’imputato, così come affermato in numerose pronunce della Suprema Corte sulla natura della conversione disposta dall’art. 580 c.p.p. che opera ope legis per il solo fatto che siano proposti diversi mezzi d’impugnazione avverso il medesimo provvedimento, per esigenze di economia e di concentrazione processuale;
– non sussisteva nessuna violazione dell’art. 443 c.p.p., tanto è vero che anche in caso di appello proposto dal P.G. per modifica della qualificazione giuridica del fatto egli può presentare anche altri motivi di impugnazione che altrimenti gli sarebbero preclusi e comunque il limite deve essere interpretato in senso restrittivo tenuto conto della sua anomalia nel sistema delle impugnazioni;
– le censure del P.G. dovevano essere accolte perchè fondate sulle emergenze processuali trascurate o fraintese dal giudice di prime cure.
In sede di discussione il difensore dell’imputato sollevava formalmente questione di legittimità costituzionale degli artt. 580 e 443 c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 24 Cost. qualora fosse confermata l’interpretazione data dal giudice di appello sulla persistenza della conversione del ricorso in appello anche in presenza di una rinuncia all’impugnazione da parte dell’imputato in quanto nella perdita di un grado di giudizio vi sarebbe una insanabile violazione del diritto di difesa.
La Corte ritiene che il ricorso debba essere rigettato.
L’art. 443 c.p.p. dispone al terzo comma che il P.M. non può presentare appello avverso le sentenze di condanna emesse nella forma del rito abbreviato a meno che dette sentenze non abbiano modificato il titolo di reato. L’unico mezzo di impugnazione residuo consentito in tali casi è il ricorso per cassazione, ed è esattamente ciò che è accaduto nel caso di specie, cioè il P.G. ha presentato ricorso deducendo vizi di legittimità della sentenza impugnata. Tra le evenienze successi che a questo punto possono verificarsi, la legge processuale regolamenta la possibilità che contro quella sentenza, non appellabile per il P.G., venga proposto un diverso mezzo di impugnazione da altre parti processuali. L’art. 580 c.p.p. stabilisce esplicitamente, in relazione al giudizio di appello, che quando questo evento si verifica il ricorso per cassazione viene convertito in appello. Non vi è alcuna incongruenza in ciò, si tratta anzi di norme di salvaguardia del sistema delle impugnazioni, costruite come una fattispecie a formazione progressiva. Se è presentata solo l’impugnazione del P.M. il relativo giudizio si svolgerà davanti alla Suprema Corte che, se riterrà di accogliere il ricorso, annullerà la decisione di primo grado restituendo gli atti a quel giudice; qualora, invece, sia presentato appello dell’imputato, per economia processuale e per unitarietà del sistema, il ricorso viene convertito in appello. Non vi è alcuna violazione del divieto di appellare per il P.M., ma applicazione della fattispecie specifica della pluralità dei mezzi di impugnazione proposti avverso la medesima sentenza. Il P.M. non viene affatto reintegrato nel suo potere di appellare, visto che la corte territoriale ha l’obbligo di valutare la sua impugnazione come se fosse un giudice di legittimità e quindi di valutarne l’ammissibilità ai sensi dell’art. 606 c.p.p. e solo dopo riacquista il suo potere di giudicare nel merito. Non vi è alcuna violazione del diritto di difesa in quanto dopo la fase rescindente, analoga a quella del giudizio di legittimità, lo svolgimento della fase rescissoria vede l’imputato sempre come parte resistente all’impugnazione del P.M., con ogni possibilità di chiedere rinnovazioni del dibattimento di fronte a nuove produzioni dell’accusa. La circostanza che in tal caso vi sarebbe la perdita di un grado di giudizio non determina l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.p. in quanto, da un lato il diritto del doppio grado di giurisdizione non è costituzionalmente garantito (C. Cost. n. 288 del 1997), e dall’altro dipende da una opzione dell’imputato che dopo aver scelto il rito abbreviato, ha anche scelto di presentare appello. Pertanto la dedotta questione di legittimità costituzionale deve essere ritenuta manifestamente infondata.
La ricostruzione non muta e non può mutare in dipendenza del comportamento della parte processuale che ha deciso di appellare legittimamente quella sentenza, per cui la rinuncia all’impugnazione da parte dell’imputato non produce alcun effetto sulla conversione avvenuta ope legis, per la semplice attivazione di un diverso mezzo di impugnazione contro la medesima sentenza; ormai infatti in virtù di quella scelta, l’unica norma applicabile è l’art. 580 c.p.p., non potendosi far discendere da libere scelte di opportunità dell’imputato, la retrocessione dell’impugnazione concorrente alla fase antecedente alla conversione. Le ragioni di economia processuale sono evidenti, visto che il processo è già incardinato davanti al giudice di appello, giudice già deputato a decidere anche nel merito la questione.
Tale impostazione è stata già affermata più volte dalla giurisprudenza della Suprema Corte che in modo unitario ha riconosciuto la specialità dell’art. 580 c.p.p. rispetto all’art. 443 c.p.p. (Sez. 2^ 23 aprile 2007 n. 18253, rv. 236404; Sez. 1^ 21 novembre 2003 n. 1299, rv. 227632).
In merito alla ultrattività della conversione rispetto alle sorti dell’appello regolarmente presentato, in relazione al quale sia intervenuta rinunciaci segnala una pronuncia favorevole (Sez. 6^ 5 aprile 1994 n. 10941, rv. 199456), ed una contraria (Sez. 2^ 10 aprile 1996 n. 5059, rv. 204737), ma deve chiarirsi che questa seconda non affronta il problema specificamente, in quanto la Suprema Corte è stata chiamata a decidere sul ricorso del P.M. dopo che la corte territoriale aveva dichiarato l’inammissibilità dell’appello per rinuncia dell’imputato e senza che sul punto vi fosse motivo di impugnazione.
In senso quasi unitario si è pronunciata la Suprema Corte nel ritenere non operativa la conversione, qualora l’appello avesse vizi originari di ammissibilità, quali la mancanza dei motivi o la tardività (Sez. 4^ 24 febbraio 1992 n. 4792, rv. 189949; Sez. 4^ 14 giugno 1994 n. 9835, rv. 199441; Sez. 2^ 10 aprile 1996 n. 5059, rv.
204737).
Da tale excursus trova conforto la tesi che una volta presentato dall’imputato un appello ammissibile avverso la sentenza di condanna con rito abbreviato, ed una volta instaurato il relativo giudizio, la conversione opera ope legis e non può essere annullata dalla scelta dell’imputato di rinunciare all’impugnazione, effettuata addirittura dopo la costituzione delle parti.
Venendo all’esame degli altri motivi di ricorso, deve affermarsi che il giudizio sulla ammissibilità del ricorso del P.G. è stato condotto nel pieno rispetto delle regole dettate dalla giurisprudenza di legittimità sul punto, avendo posto il P.G. questioni di legittimità quali la mancanza su alcuni punti e la contraddittorietà su altri. La decisione nel merito parimenti deve essere confermata, essendo stati smentiti nel corso del dibattimento di secondo grado i tre punti sui quali si era basata la sentenza di primo grado per concedere le attenuanti generiche, come ad esempio la spontaneità della confessione e la sua rilevanza ai fini della pronuncia di responsabilità. Sul punto la decisione contiene una motivazione completa, logica e congrua e la diversa ricostruzione proposta dal ricorrente non è valutabile in sede di legittimità.
Il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 2500,00 oltre accessori come per legge quanto a B.A., e in complessivi Euro 3000,00 oltre accessori come per legge quanto a B.L. e B.M.G..

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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