Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 18-05-2011) 01-06-2011, n. 21812 Cognizione del giudice d’appello reformatio in peius

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1 – D.P.B., tramite difensore, ricorre per cassazione avverso la sentenza della corte di appello di Venezia che, in parziale riforma della pregressa decisione del gip del tribunale della stessa città, per aver ritenuto l’attenuante del risarcimento del danno pur sempre nel contesto del pregresso giudizio di equivalenza tra le aggravanti contestate e le attenuanti generiche già in precedenza concesse, riduceva la pena in anni quattro e Euro 600,00 di multa per il delitto di tentata estorsione aggravata ex art. 56.629, commi 1 e 2 e art. 61 c.p., n. 9, in continuazione con ulteriori fatti di reati (ancora tentata estorsione e utilizzazione di segreti di ufficio ex art. 326, comma 3, capi B, E, ed F).

Per essere stata ridotta la pena, il giudice, come d’obbligo, sostituiva la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici Uffici con la interdizione temporanea per anni cinque.

2- Due i motivi del ricorso per cassazione proposto dall’imputato avverso la decisione attraverso il richiamo, tra gli altri, dell’art. 606, lett. b), c) ed e) codice di rito: violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 4 per non aver ritenuto prevalenti sulle aggravanti contestate le attenuanti, una volta implementate con il riconoscimento dell’attenuante del risarcimento del danno, per aver limitato, come da dispositivo, il giudizio di comparazione, quanto alle attenuanti alla sola circostanza di cui all’art. 62 c.p., n. 6, da un lato, violazione dell’art. 29 c.p. per aver considerato, ai fini della irrogazione della pena accessoria, la pena complessiva, e non invece la sola pena ricollegata, tenuto conto di tutte le diminuenti, al reato-base, il più grave tra quelli contestati.

3- Solo il secondo motivo di ricorso è parzialmente fondato.

Non il primo, per avere i giudici di merito tenuto conto del già operato giudizio di equivalenza operato dai primi giudici e per non aver ritenuto, anche una volta riconosciuta l’ulteriore attenuante del risarcimento del danno quel giudizio di equivalenza modificare, ma solo incidere sulla entità della pena.

Invero, per giurisprudenza consolidata, non viola il divieto di "reformatio in peius" il giudice di appello che, su gravame del solo imputato, pur escludendo l’esistenza di una circostanza aggravante ovvero riconoscendo una ulteriore attenuante, lasci addirittura inalterata la misura della pena inflitta in primo grado, qualora a quella esclusione non consegua una automatica riduzione di questa, ma la necessità di un rinnovato giudizio comparativo tra aggravanti residue e attenuanti, nella formulazione del quale il giudice di secondo grado conserva piena facoltà di conferma del precedente giudizio di valenza, il cui esercizio è insindacabile in cassazione, se congruamente motivato (in tal senso, Sez. 4^, 27.10/24.11.2010, Tantucci, Rv 248457; Sez. 1^, 6.2/12.4.2010, Rv 246685 Sez. 5^, 13.1/13.4.2006, Mollicone e a., Rv. 233981).

Ed i giudici di merito hanno congruamente motivato sulla impossibilità nella specie di modificare il giudizio di valenza rispetto alle aggravanti, considerando che già il primo giudice aveva tenuto presente il risarcimento del danno, anche se non qualificato come invece ha ritenuto il giudice di secondo grado, come aveva ritenuto ostacolo al giudizio di prevalenza la gravità dei reati commessi dall’imputato per l’abuso continuato e non occasionale della propria funzione di pubblico ufficiale.

Quanto al secondo motivo di ricorso, se deve riconoscersi la correttezza del ragionamento difensivo una volta condiviso il suo presupposto, quel riconoscimento deve negarsi a fronte della palese erroneità del punto di abbrivio del predetto ragionamento.

In verità è indubbio che in caso di condanna per reato continuato, la pena principale alla quale si deve fare riferimento per stabilire la durata della conseguente pena accessoria è quella inflitta per la violazione più grave, come determinata per effetto del giudizio di bilanciamento tra le circostanze attenuanti ed aggravanti, e non già quella complessivamente individuata tenendo conto dell’aumento per la continuazione. (in tal senso, per tutte, Sez. 6^, 27.3/30.4.2008, Pizza e a. Rv 240067).

E costituisce anche principio consolidato quello per il quale ai fini della applicazione delle pene accessorie, la misura della pena della reclusione inflitta con la sentenza di condanna debba essere considerata tenendo conto della diminuzione della pena stessa in conseguenza della scelta del rito abbreviato, in quanto le norme in tema di pene accessorie ( artt. 29 e 32 c.p.) fanno riferimento esclusivo alla misura della pena in concreto irrogata, a prescindere dai modi in base ai quali si è pervenuti al risultato finale (Sez. 6^, 25.3/5.5.2004, Carneli, Rv. 229126).

Nella specie la pena – base è stata determinata, in relazione al reato di tentata estorsione di cui al capo A) dell’imputazione in anni due, mesi otto, e Euro 400,00 di multa, equivalente la multa in caso di conversione in pena detentiva, ex art. 135 c.p., a tre giorni di reclusione.

Ne consegue che erroneamente e il ricorrente e la sentenza di secondo grado hanno fatto riferimento all’art. 29 c.p. per quantificare il periodo di interdizione dai pubblici uffici in cinque anni, previsti dalla predetta disposizione solo in caso di condanna non inferiore a tre anni.

Invece il presupposto normativo per l’applicazione della pena accessoria deve rinvenirsi nella specie nel combinato disposto degli artt. 31 e 37 c.p.: il reato è stato commesso dall’imputato, ufficiale della guardia di finanza abusando dei suoi poteri e violando i suoi doveri di ufficiale della guardia di Finanza, con la conseguenza che la condanna relativa importa ai sensi dell’art. 31 cit., l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, la cui durata, per non essere espressamente determinata, deve essere commisurata, a quella della pena principale inflitta o che dovrebbe scontarsi nel caso di conversione per insolvibilità del condannato, ai sensi dell’art. 37 cit..

Per questo aspetto quindi la sentenza oggetto di ricorso, deve essere riformata, determinando la durata della pena accessoria in anni due, mesi otto e tre giorni.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla durata della interdizione temporanea dai pubblici uffici che determina in anni due, mesi otto e giorni tre; rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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