Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 05-05-2011) 01-06-2011, n. 22193

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Antonio che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo

Il Tribunale di Matera condannava Q.I.G., all’esito di giudizio celebrato con il rito abbreviato, per il reato di furto dell’auto Fiat tg. (OMISSIS) di proprietà di M.R. S. ed in uso a M.A., con le aggravanti di cui all’art. 625 c.p., n. 2, seconda ipotesi, (uso di mezzo fraudolento), e art. 625 c.p., n. 7 (esposizione alla pubblica fede);

il Q., secondo l’ipotesi accusatoria formulata con il capo di imputazione, si era impossessato dell’auto sopra indicata mentre la stessa era in sosta, regolarmente chiusa a chiave, sulla pubblica strada, utilizzando una chiave contraffatta. L’imputato veniva condannato altresì per violazione della L. n. 1423 del 1956, art. 9, comma 2. A seguito di gravame ritualmente proposto, la Corte d’Appello di Potenza, e per la parte che in questa sede interessa, confermava tale decisione e, in risposta alle deduzioni dell’appellante relative alla condanna per il furto, motivava il suo convincimento richiamando la motivazione del primo giudice, e facendola propria – anche con la riproposizione testuale di taluni brani della stessa – in quanto ritenuta puntuale ed esaustiva con specifico riferimento alle tesi difensive proposte. La Corte territoriale rigettava poi la richiesta dell’appellante del riconoscimento della continuazione tra il fatto oggetto del presente procedimento e quello giudicato con altra sentenza divenuta definitiva, osservando che l’intervallo di tempo trascorso tra i due fatti non consentiva di ravvisare l’identità del disegno criminoso.

Avverso detta sentenza ricorre per Cassazione l’imputato, tramite il difensore, affidando le sue doglianze a motivi di censura che possono così riassumersi: 1) nullità della sentenza impugnata posto che il giudizio di appello avrebbe dovuto essere celebrato con il rito camerale, e non in pubblica udienza, essendo stata emessa la sentenza di primo grado all’esito di rito abbreviato; 2) i giudici di merito avrebbero dovuto qualificare il fatto non come furto aggravato ex art. 624 c.p. e art. 625 c.p., nn. 2 e 7, bensì come furto ai sensi dell’art. 626 c.p., nn. 1 e 2, in accoglimento della versione difensiva secondo cui il Q., tossicodipendente, in stato di incoscienza dopo aver assunto sostanza stupefacente, si sarebbe impossessato dell’auto al solo fine di raggiungere il più vicino nosocomio in quanto colto da un attacco di panico; 3) prospettata incompatibilità tra le due aggravanti contestate; 4) avrebbe errato la Corte distrettuale nel negare il vincolo della continuazione basandosi sul solo dato del decorso del tempo, avendo la stessa Corte dato atto della analogia tra i fatti prospettati dalla difesa in continuazione.
Motivi della decisione

Il ricorso deve essere rigettato per le ragioni di seguito indicate.

Quanto alla prospettata invalidità del giudizio di appello perchè celebrato in pubblica udienza e non con rito camerale, la tesi del ricorrente è manifestamente infondata non essendo prevista per tale ipotesi alcuna nullità e stante il principio della tassatività delle nullità, come più volte precisato da questa Corte che ha altresì condivisibilmente sottolineato che col rito ordinario pubblico l’esercizio del diritto di difesa dell’imputato non solo non riceve alcun pregiudizio, ma anzi esso, rispetto al rito camerale, ha la sua massima espressione (in tal senso, "ex plurimis": Sez. 6, n. 21977 del 21/04/2008 Ud. – dep. 30/05/2008 – Rv. 240365; Sez. 6, n. 7959/95, RV. 202565; Sez. 4, n. 3782/93, RV. 193884; Sez. 1, n. 9704/92, RV. 191881). Parimenti del tutto infondato è il secondo motivo circa la prospettata configurabilità dell’ipotesi del furto d’uso. Mette conto sottolineare, invero, che la Corte distrettuale ha richiamato quanto argomentato già dal primo giudice, e cioè: il Q. si era recato in ospedale almeno due ore dopo il perpetrato furto, evidentemente al solo fine di preordinarsi una giustificazione posto che aveva poi esibito ai Poliziotti un referto ospedaliero in cui si dava atto di un riferito (e dunque nemmeno certificato) stato di agitazione; tra il luogo del furto e l’ospedale vi era una distanza di pochi chilometri percorribile in auto in non più di dieci minuti; difettava la condizione della momentaneità dell’uso dell’auto rubata. A ciò aggiungasi che, come evidenziato anche nell’impugnata sentenza, l’art. 626 c.p., comma 2, esclude l’applicabilità del primo comma, e dunque esclude anche la configurabilità dell’ipotesi del furto d’uso, se concorre la circostanza aggravante indicata nell’art. 625 c.p., n. 2: orbene, al Q. è stata contestata (e ritenuta sussistente dai giudici di merito) l’aggravante dell’uso del mezzo fraudolento di cui, appunto, all’art. 625 c.p., n. 2. Infondati sono infine gli ultimi due motivi del ricorso.

Per quel che riguarda il terzo motivo, è orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello, assolutamente condivisibile, secondo cui in tema di furto sono compatibili le due aggravanti dell’uso del mezzo fraudolento e della esposizione alla pubblica fede dato che esse hanno diversa obiettività giuridica (in termini, ex plurimis", Sez. 2, n. 12395 del 10/06/1975 Ud. – dep. 20/12/1975 – Rv. 131588).

La quarta ed ultima censura – asserita violazione dell’art. 81 c.p. – attiene a valutazioni di merito circa la sussistenza dei presupposti per ritenere l’unicità del disegno criminoso tra il reato di cui al presente procedimento e quello per il quale è già intervenuta sentenza passata in giudicato. La Corte territoriale ha ritenuto che fosse presumibile l’insussistenza di tale presupposto tenuto conto della distanza temporale tra i fatti; orbene trattasi di apprezzamento privo di qualsiasi connotazione di illogicità avendo questa Corte avuto modo di precisare, condivisibilmente, che "la lontananza temporale tra i reati di per sè costituisce oggettivamente un indizio negativo nella direzione di ritenere sussistente il vincolo della continuazione, per la regola di esperienza che connota psicologicamente la condotta umana improntata di norma all’azione o all’omissione come conseguenza dell’immediatezza dell’ideazione e della violazione" (in termini, "ex plurimis", Sez. 1, n. 395 del 24/01/1994 Cc. – dep. 11/03/1994 – Rv.

196677). Ma vi è di più. La richiesta del vincolo della continuazione fu formulata in termini del tutto generici ed assertivi dal difensore dell’imputato nel corso del giudizio di secondo grado con l’allegazione della sentenza passata in giudicato concernente il fatto da porre in continuazione con quello di cui al presente procedimento secondo la prospettazione difensva è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui "al fine del riconoscimento della continuazione tra fatti da giudicare e fatti giudicati con sentenza irrevocabile di condanna, l’imputato, pur non essendo soggetto ad un rigoroso onere di prova di tutti i presupposti necessari per caratterizzare la situazione ed ottenere la decisione favorevole del giudice, è tuttavia tenuto ad un dovere di specifica allegazione mediante adeguata indicazione, nei loro precisi termini, degli elementi indispensabili a sorreggere la richiesta cioè quelli da cui dovrebbe desumersi l’unicità del disegno criminoso. Tale onere non può ritenersi adempiuto allorchè siano indicati soltanto gli estremi temporali dei reati, senza che siano precisati, sia pure sommariamente, gli elementi idonei a confortare l’assunto dell’identità del disegno criminoso" (Sez. 2, n. 5461 del 21/06/1990, imp. Russo ed altro, Rv. 187154)- ed è stato altresì precisato da questa Corte Suprema che, "in tema di continuazione fra reato già giudicato e reato da giudicare, il soggetto che, nell’ambito del procedimento relativo a quest’ultimo, solleciti l’applicazione dell’istituto è gravato da un onere di allegazione, per l’assolvimento del quale non è sufficiente che egli si limiti ad indicare gli estremi della sentenza relativa al fatto già giudicato ma è necessario che, pur senza produrre in giudizio la copia di detta sentenza, quanto meno si dia carico di portare a conoscenza del giudice di elementi probatori e argomentativi atti a dimostrare l’unicità del disegno criminoso, non potendo quest’ultima formare oggetto di alcuna presunzione. E’ pertanto inammissibile, per difetto di specificità, il motivo di impugnazione che consista nella semplice formulazione della richiesta di applicazione della continuazione, senza la specificazione degli elementi atti a sorreggerla" (Sez. 1, n. 4689 del 06/02/1992, imp. P.G. e Baraldi ed altri, Rv. 189868). Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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