Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 28-04-2011) 01-06-2011, n. 22105 Stranieri

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

che ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 15.9.2010 il Tribunale di Venezia applicava su richiesta, ex art. 444 cod. proc. pen., a T.Y. la pena di otto mesi e dieci giorni di reclusione, per il reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater, accertato il (OMISSIS).

Al T., già destinatario del decreto di espulsione emesso dal Questore di Trento, in data 11.2.2010, era stato contestato di essersi trattenuto, senza giustificato motivo, nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine di allontanamento impartitogli dal Questore di Trento, ai sensi del comma 5 bis della norma citata, in data 6.8.2010. 2. Avverso detta sentenza, ha proposto ricorso personalmente l’imputato, chiedendone l’annullamento. Deduce carenza di motivazione, affermando che dalla sentenza non era rilevabile l’iter logico seguito dal giudice in punto di mancata applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen. e In punto di determinazione della pena.

3. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata sul presupposto che sia il provvedimento di espulsione mediante intimazione adottato nel caso in esame, sia la norma che ne punisce la violazione sono in contrasto con la Direttiva europea 2008/115/CE, avente efficacia diretta nel nostro paese dal 24.12.2010. 4. Con atto a sua firma – redatto il 9.3.2011 presso l’Ufficio matricola del carcere in cui era ancora ristretto per questa causa – l’imputato ha dichiarato di rinunziare al ricorso al fine di potere fruire dei benefici penitenziari.
Motivi della decisione

1. La richiesta del Procuratore generale è fondata e la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. e art. 2 c.p., comma 2, nonostante l’intervenuta rinunzia al ricorso dell’imputato.

2. In data odierna è stata depositata la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel procedimento C-61/11 PPU, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, proposta dalla Corte d’appello di Trento nell’ambito del procedimento a carico di Hassen El Dridi, imputato del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter in relazione alla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante "norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare".

Con tale sentenza la Corte europea afferma che "la direttiva 2008/115, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo".

Spetta perciò al giudice nazionale "disapplicare ogni disposizione del D.Lgs. n. 286 del 1998 contraria al risultato della direttiva 2008/115, segnatamente l’art. 14, comma 5-ter, di tale D.Lgs.", tenendo altresì nel debito conto il principio "dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri". 3. La pronunzia richiamata è stata assunta, come detto, in relazione all’ipotesi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter.

Ritiene tuttavia il Collegio che le conclusioni ivi raggiunti valgano, a fortiori, per il reato previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater cui si riferisce la sentenza oggetto di ricorso.

3.1. A ragione della decisione, la Corte di giustizia ha osservato:

– che la successione delle fasi della procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 risponde a una esigenza di "gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato – la concessione di un termine per la sua partenza volontaria – alla misura che maggiormente limita la sua libertà – il trattenimento in un apposito centro -, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità";

– che, in quest’ottica, persino il trattenimento, che rappresenta la misura più restrittiva della libertà consentita dalla direttiva, è strettamente regolamentato, quanto a durata e modalità, "allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi" e di "limitare la privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi in situazione di allontanamento coattivo" entro termini ragionevoli – vale a dire non superiori al tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito e i più brevi possibili- in conformità all’ammonizione già impartita dall’ottavo dei "Venti orientamenti sul rimpatrio forzato", adottati il 4 maggio 2005 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa;

– che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere al rimpatrio coattivo conformemente all’art. 8, n. 4 della direttiva, una pena detentiva quale quella prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, "solo perchè un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale", dovendo "essi Stati invece, continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti";

– che una regolamentazione nazionale quale quella oggetto d’esame finisce per ostacolare la stessa applicazione delle misure di cui all’art. 8, n. 1, della direttiva medesima (in base alla quale "Gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria a norma dell’art. 7, paragrafo 4, o per mancato adempimento dell’obbligo di rimpatrio entro il periodo per la partenza volontaria concesso a norma dell’art. 7") e ritardare l’esecuzione della decisione di rimpatrio.

3.2. Anche la fattispecie prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater, riguarda la mera "violazione" della intimazione impartita, per di più serialmente, nei confronti dello straniero in condizione di soggiorno irregolare e trova causa esclusiva nella perdurante mancanza di "cooperazione" all’allontanamento volontario.

Necessariamente presupponendo l’esistenza anche di una precedente contestazione ai sensi dell’art. 14, comma 5-ter, meno ancora (rispetto a questa) risponde ad esigenze di proporzionalità e a criteri di adeguatezza con riguardo al tempo di restrizione, strettamente necessario per il conseguimento dello scopo espulsivo, che dovrebbe giustificare l’intervento limitativo della libertà personale. E la dimostrazione che l’apparato statuale abbia posto in essere ogni ragionevole sforzo per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, rispettando la gradazione procedi menta le imposta dalla direttiva, non soltanto non è richiesta dalla disposizione incriminatrice, ma mediante il richiamato art. 14, comma 5-bis risulta inaccettabilmente sostituita dal mero reiterato riferimento alla obiettiva impossibilità di dar corso alla espulsione coattiva o di trattenere lo straniero presso un centro di identificazione ed espulsione, in ipotesi anche a causa dell’inutile decorso dei tempi di permanenza in tale struttura.

Se dunque lo scopo della direttiva 2008/115 è quello di garantire che lo Stato membro compia ogni ragionevole sforzo per attuare la politica di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini dei paesi terzi e di impedire che la privazione della libertà di costoro si protragga, nonostante l’impegno statuale, oltre limiti accettabili e proporzionati al fine espulsivo concretamente da perseguire, il comando impartito dalla Corte europea al giudice nazionale, di "disapplicare ogni disposizione dei D.Lgs. n. 286 del 1998" contraria al risultato che la direttiva intende perseguire, non può che essere inteso come riferito anche al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater.

4. La decisione della Corte di Giustizia, interpretando in maniera autoritativa il diritto dell’Unione con effetto diretto per tutti gli Stati membri e le rispettive giurisdizioni, incide sul sistema normativo impedendo la configurabilità del reato. L’effetto è paragonabile a quello della legge sopravvenuta (cfr. C. Cost. nn. 255 del 1999, 63 del 2003, 125 del 2004 e 241 del 2005, secondo cui "i principi enunciati nella decisione dalla Corte di giustizia si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno, con il valore di jus superveniens, condizionando e determinando i limiti in cui quella norma conserva efficacia e deve essere applicata anche da parte del giudice nazionale") con portata abolitrice della norma incriminatrice.

Non può a tale proposito ingenerare incertezze il riferimento contenuto, nella sentenza El Oridi, alla applicabilità della "pena più mite". Nell’ordinamento non vi sono ipotesi residuali di reato che possano ritenersi interamente contenute nella contestazione D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 14, comma 5 quater, idonee a riespandersi, senza necessità alcuna di integrazione, a fronte della disapplicazione della fattispecie in esame.

Il richiamo alle tradizioni costituzionali comuni e ai diritti fondamentali rende per altro evidente che i principi evocati sono quelli elaborati, anche dalla Corte EDU, in tema di art. 7 della Convenzione, mentre la sentenza della CtGUE lager, pure richiamata (e che tratta di sanzioni amministrative), palesa come nel linguaggio della Corte il termine "pene" si riferisca a qualsivoglia regime sanzionatorio o afflittivo, non necessariamente corrispondente ad un trattamento "penale" secondo l’ordinamento italiano.

5. In relazione a fattispecie quale quella in esame, realizzata prima della scadenza dei termini per il recepimento della direttiva, deve per conseguenza affermarsi che il fatto non è più preveduto dalla legge come reato.

La formula è in linea con quanto già ritenuto, in relazione a ipotesi in qualche modo simile, da questa Corte, sez. 1, sentenza del 20.1.2011, n. 16521, imp. Titas Luca, allorchè ha osservato che la pronunzia della Corte di Giustizia che accerta l’incompatibilità della norma incriminatrice con il diritto europeo (si trattava del caso Schwibbert) "si incorpora nella norma stessa e ne integra il precetto con efficacia immediata" (cfr. Corte Cost. nn. 13 del 1985, 389 del 1989, 168 del 1991), così producendo "una sorta di abolitici criminis" che impone, in forza di interpretazione costituzionalmente necessitata, di estendere a siffatte situazioni di sopravvenuta inapplicabilità della norma incriminatrice nazionale, la previsione dell’art. 673 cod. proc. pen..

6. L’assimilazione sostanziale e logica dell’accertata incompatibilità ad una abolitio criminis, impone quindi di risolvere il problema che si pone nella presente fattispecie, connotata dalla particolarita della rinuncia al ricorso da parte dell’imputato, intervenuta medio tempore, nel senso che l’incompatibilità è destinata a prevalere anche su tale causa di inammissibilità del ricorso.

Sul punto, già S.U. n 32 del 22 novembre 2000, De Luca, osservava come, in realtà, la rinunzia sia nel sistema l’unica causa d’inammissibilità che può, a ragione, considerarsi sopravvenuta, "discendendo … dall’esercizio di un diritto potestativo dell’interessato che … è in grado di estinguere il rapporto di impugnazione, tanto da provocare, una volta dichiarata l’inammissibilità, la formazione del giudicato formale".

Parificata, ad ogni modo, nel codice vigente, la disciplina della inammissibilità sopravvenuta e originaria, per tutti i casi in cui il giudicato formale si realizza soltanto al momento della pronunzia del giudice ad quem (con l’unica esclusione dunque dell’ipotesi del ricorso tardivo, in cui il giudicato formale coincide con la scadenza del termine per impugnare) alla impossibilità di rilevare cause di non punibilità in costanza di ricorso inammissibile, resistono le ipotesi di successione di leggi, riconducibili all’art. 2 cod. pen..

La nozione di condanna, ricavabile da tale norma in combinato con l’art. 673 cod. proc. pen., non può essere difatti che ricondotta al giudicato formale e ciò comporta che, fin tanto che esso non si è formato, spetta al giudice della cognizione prendere atto, in particolare, della intervenuta abolitio criminis e annullare la condanna per fatto divenuto privo di rilievo penale (nello stesso senso S.U. De Luca, citata; nonchè S.U. n. 24246 del 25/02/2004, Chiasserini, in tema di remissione di querela; con riferimento al giudizio di rinvio a seguito di annullamento solo per la determinazione della pena S.U. n. 4904 del 26.3.1997; con riferimento al giudizio di rinvio celebrato a seguito di sentenza della Corte di giustizia europea, Sez. 6, n. 41683 del 19.10.2010, Ndaw; Sez. 6, del 5.11.2010, Gargiulo, non massimata).

7. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perchè il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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