Cass. pen., sez. I 31-10-2008 (16-10-2008), n. 40684 Elemento soggettivo – Dolo generico – Fini del colpevole e motivi del fatto – Irrilevanza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

FATTO E DIRITTO
Il GUP presso il Tribunale di Milano pronunciava sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. nei confronti di F.E. in relazione al delitto di cui all’art. 414 c.p..
Osservava che la vicenda era accaduta nel corso di un consiglio comunale nel quale il F., quale consigliere di opposizione appartenente alla Lega Nord, durante una pausa di sospensione della seduta, era intervenuto al microfono, parlando alla folla, più di cento persone, che aveva invaso l’aula, ed aveva invitato i manifestanti ad occupare la tendopoli realizzata dal comune per ospitare un campo nomadi ed a spostare la protesta in quel luogo.
Successivamente era intervenuto dalla finestra del palazzo comunale, per calmare gli animi della folla che cercava di entrare, ed aveva ribadito la necessità di spostare la protesta al campo allestito dal comune.
La protesta, spostatasi nel campo nomadi, era degenerata, tanto che i manifestanti avevano bruciato le tende e devastato il campo allestito dal comune.
Riteneva il giudice che non vi fosse la prova che l’intervento del F. avesse come contenuto quello di istigare al delitto, ed anzi, dall’esame del contesto in cui erano state pronunciate le frasi, emergeva che egli intendeva sedare gli animi esasperati dei cittadini e instradarli verso una forma di protesta pacifica, quale poteva essere il picchettamento dell’area antistante il campo, anche perchè le persone a cui si era rivolto non erano teppisti ma anziani e bambini.
Inoltre, il consigliere comunale aveva accolto la richiesta dei carabinieri di intervenire dalla finestra per calmare la protesta e quindi il suo intento era l’esatto opposto di quello che gli era stato attribuito.
Riteneva che tali fatti, del tutto pacifici, non integrassero il delitto in contestazione che richiedeva che le condotte fossero di per se idonee a minacciare la sicurezza collettiva e suscettibili di generare inquietudine e allarme nella popolazione; non era sufficiente la generica incitazione a violare le leggi essendo necessario un arredo minimo di modalità concrete che dessero consistenza all’intento esternato.
Doveva coniugarsi l’esigenza di tutela dell’ordine pubblico con la libertà di manifestazione del pensiero, soprattutto in un’epoca che vedeva spesso la manifestazione del pensiero assumere caratteristiche di opposizione materiale alla realizzazione delle scelte della controparte e nel caso di specie il consigliere comunale era inserito in un contesto di manifestazione di idee politiche, aveva parlato ad una folla esasperata, invitandoli ad occupare il campo nomadi senza mai fare riferimento ad azioni violente e con lo scopo di tutelare gli interessi dei cittadini;
pertanto, l’azione nel suo complesso non consentiva di sostenere l’accusa in giudizio in relazione al delitto contestato.
Avverso la decisione presentava ricorso il P.M. e deduceva questione di legittimità costituzione dell’art. 428 c.p.p., in relazione agli artt. 111, 112 e 97 Cost., nella parte in cui impedisce al P.M. di appellare le sentenze di non luogo a procedere, violando la parità processuale delle parti, in quanto il P.M. è l’unico veramente interessato all’impugnazione; violando il principio di ragionevolezza, in quanto crea una disparità di trattamento tra procedimenti a citazione diretta e quelli per i quali è prevista l’udienza preliminare; violando il principio della ragionevole durata del processo, in quanto la Corte di cassazione non può che rinviare al medesimo giudice che ha deciso e non può invece emettere decreto che dispone il giudizio; violando il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, rimanendo definitivamente frustrata l’iniziativa del P.M.; violando la funzione della corte di legittimità, chiamata a pronunciarsi sul merito della vicenda e i principi di buon andamento ed efficienza della P.A., per l’incremento ingiustificato dei ricorsi davanti alla Suprema Corte;
inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 414 c.p. in quanto la norma punisce qualsiasi condotta rivolta a determinare e rafforzare il proposito di commettere reati e nel caso di specie le parole del consigliere miravano a indurre la folla ad occupare l’area predisposta dal comune per il campo nomadi e ad impedire l’erogazione di un servizio pubblico; inoltre l’istigazione posta in essere conteneva quel corredo di modalità concrete dell’azione che faceva trasmodare la manifestazione del pensiero nell’istigazione;
– contraddittorietà della motivazione e travisamento della prova in quanto il teste R. non aveva confermato che l’imputato avesse cercato di calmare gli animi, le prove documentali consistenti nelle registrazioni fonografiche dell’intervento dell’imputato testimoniavano del suo incitamento ad occupare il suolo pubblico, e infine neppure risultava provato il suo intento pacificatore, anche perchè il dolo richiesto dalla norma è generico essendo irrilevanti i motivi.
La Corte rileva preliminarmente che l’atto di impugnazione presentato dal P.M. appare ammissibile, in quanto contiene una parte rivolta alla Corte d’appello, qualora avesse ritenuto di trattenere gli atti, sollevando la questione di legittimità costituzionale, ed una parte rivolta al giudice di legittimità con la quale chiede di annullare la decisione.
In relazione al primo punto, la Corte rileva che vi è stata già una pronuncia di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 428 c.p.p. proveniente dalla Sezione 5^ penale, 4 maggio 2007 n. 23838, secondo la quale la sentenza di non luogo a procedere ha connotazioni peculiari, non segnando in modo irrevocabile la definizione della vicenda processuale, tanto che ne è prevista la revoca alle condizioni previste dall’art. 434 c.p.p., e assume, quindi, connotazioni di carattere meramente processuale, in relazione alle quali il legislatore può ragionevolmente stabilire una disciplina diversa da quella destinata alla fase del giudizio.
Non vi è disparità tra le parti processuali, visto che ad ambedue è impedito l’appello, ed essendo non corretto ritenere che solo il P.M. vi abbia interesse, sussistendo l’interesse della parte ad ottenere ad esempio una decisione a lui più favorevole.
Non vi è irragionevolezza nella distinzione tra i processi a citazione diretta e quelli per i quali è prevista l’udienza preliminare in quanto, nel primo caso la decisione è comunque di merito e non meramente processuale.
Non vi sono ragioni diverse e apprezzabili per discostarsi da tale orientamento per cui deve essere dichiarata la manifesta infondatezza della dedotta questione di legittimità costituzionale.
In relazione agli altri motivi di ricorso la corte rileva che, mentre i primi sono inammissibili in quanto pongono solo questioni di rivalutazione dei fatti, deve essere accolto l’ultimo con annullamento della decisione impugnata.
In merito al delitto di istigazione a delinquere deve rilevarsi che il dolo richiesto dalla norma è generico e consiste nella cosciente volontà di commettere il fatto in sè, con l’intenzione di istigare alla commissione concreta di uno o più delitti, essendo del tutto irrilevante il fine particolare perseguito o i motivi dell’agire (Sez. 1^ 11 giugno 1986 n. 13534, rv. 174483).
Nella decisione impugnata, invece, il giudice ha compiuto valutazioni sulla condotta in concreto tenuta, interpretandola alla luce delle motivazioni latu senso politiche, o meglio di convenienza politica dell’autore.
La motivazione adottata è quindi permeata di intrinseca contraddittorietà nella parte in cui ritiene che le frasi pronunciate non fossero idonee a configurare il reato, sulla base dei motivi dell’azione, e cioè al fatto che l’incitamento della folla corrispondeva all’esigenza del consigliere di ottenere consenso politico.
Vi è stata, in sostanza, una contusione tra il dolo generico ed i motivi dell’azione, non consentita neppure facendo ricorso al principio costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero;
la Corte Costituzionale, in proposito, ha avuto modo di affermare con la decisione n. 65 del 1970 che l’apologia punibile non è la pura manifestazione di pensiero, ma quella che sia concretamente idonea a provocare la commissione di delitti.
Ne consegue che, sgombrato il campo da tale equivoco, la valutazione degli elementi costitutivi del reato deve essere effettuata alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al delitto di cui all’art. 414 c.p., occorrendo che sia posta in essere in pubblico la propalazione di condotte che configurino precise azioni delittuose, con rappresentazioni di azioni concrete che possano indurre altri alla commissione di tali fatti;
tale analisi deve essere condotta, anche ai fini di una pronuncia di non luogo a procedere in sede di udienza preliminare, in relazione alla situazione concreta per verificare quale forza persuasiva e suggestiva potevano avere le frasi pronunciate ai fini istigatori della condotta (Sez. 1^ 3 novembre 1997 n. 10641, rv. 209166).
P.Q.M.
La Corte dichiara manifestamente infondata la dedotta questione di legittimità costituzionale.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame al GUP presso il Tribunale di Milano.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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