Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 20-04-2011) 01-06-2011, n. 22184 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

T.G. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, giudicando in sede di rinvio dopo annullamento della Cassazione, ha confermato la sentenza di primo grado del GUP di Milano, resa in esito a giudizio abbreviato, che la riconosciuto colpevole del reato di violenza sessuale in danno di T.M..

Qui è in discussione la tematica se possa o no applicarsi la disciplina sanzionatola della violenza sessuale in danno di persona di inferiorità fisiopsichica in ragione della pregressa assunzione di sostanza stupefacente, tale, secondo la prospettazione accusatoria, da avere determinato nella vittima una condizione di obnubilamento di cui l’imputato avrebbe abusato per avere rapporti sessuali.

E’ su tale qualificazione che è già intervenuta questa Corte che, con sentenza della Sezione 3, in data 19 giugno 2007, ha annullato con rinvio la sentenza di appello, per difetto di motivazione sul grado di inferiorità fisiopsichica della persona offesa: il giudice di merito non avrebbe adeguatamente motivato sull’effetto dell’assunzione della droga nella serata dei fatti sub iudice, giacchè le dichiarazioni della ragazza, su cui era basata la condanna, avrebbero espresso solo un giudizio di mera probabilità sul punto.

La Corte di appello, in sede di rinvio, ha ritenuto di dover confermare la sentenza di primo grado resa dal Gup in primo grado, in esito a giudizio abbreviato.

Ciò lo si è desunto (in particolare richiamando, a conforto della decisione di condanna, una lettera spedita dalla Slovenia dalla persona offesa, le dichiarazioni rese dalla medesima alla p.g. e poi le ulteriori dichiarazioni assunte in sede di audizione protetta) dal fatto che la sera dell’episodio incriminato la persona offesa aveva già assunto sostanza stupefacente (un intero joint di crack), tanto da avere dichiarato di essere già "fatta": pur tuttavia, le era stata offerta una ulteriore, significativa quantità di droga (cocaina), di cui lei aveva "sniffato" circa un grammo (4 strisce), dopodichè erano avvenuti i rapporti sessuali incriminati.

Il giudicante ne ha tratto il convincimento della condizioni alterata della ragazza e dell’approfittamento (per quanto qui interessa) da parte dell’imputato T.G., che con lei aveva avuto rapporti sessuali orali. L’approfittamento della condizioni di minorata difesa era spiegato anche valorizzando l’età (appena quindici anni) della persona offesa, e la non conoscenza della lingua italiana (trattavasi di cittadina slovena, da soli pochi giorni in Italia).

Con due distinti ricorsi, la difesa censura la decisione.

Con il primo ricorso si sostiene che la Corte di merito avrebbe posto a base della decisione e, in particolare, della affermata condizione di alterazione, affermazioni della persona offesa che non poteva desumersi dal verbale dell’audizione protetta, di cui si riportano ampi stralci. In particolare, si sostiene che in tale sede la ragazza non avrebbe dichiarato di essere stata "fatta" dopo l’assunzione del crack, nè avrebbe fatto cenno all’assunzione della cocaina.

Per l’effetto, la Corte non avrebbe rispettato le indicazioni della Corte di legittimità, formulando un giudizio di condanna contraddittorio e illogico.

Con il secondo ricorso, dopo la ricostruzione in fatto della serata e il richiamo ai principi operanti in materia di violenza sessuale in danno di persona in stato di inferiorità, si deduce che la Corte di merito si sarebbe "supinamente" adagiata al dictum del primo giudice quanto alla ricostruzione della condizione alterata determinata, secondo l’accusa, dall’assunzione della droga. In particolare, non era stato tenuto conto che lo stato di alterazione avrebbe dovuto essere meglio approfondito, sulla base del rilievo che l’assunzione di droghe, quali il crack e la cocaina, determinano effetti euforizzanti e disinibitori, lasciando intatte le facoltà mentali.

Inoltre, non si era sviluppato il profilo dell’"abuso" necessario per potere comunque ipotizzare il reato.

Si insta per l’annullamento della decisione impugnata.
Motivi della decisione

I ricorsi sono entrambi infondati.

Va ricordato, in premessa, che, a seguito di annullamento per vizio di motivazione, il giudice di rinvio è vincolato dal divieto di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Cassazione, ma resta libero di pervenire, sulla scorta di argomentazioni diverse da quelle censurate in sede di legittimità ovvero integrando e completando quelle già svolte, allo stesso risultato decisorio della pronuncia annullata. Ciò in quanto spetta esclusivamente al giudice di merito il compito di ricostruire i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e di apprezzare il significato e il valore delle relative fonti di prova, senza che egli possa essere condizionato da valutazioni in fatto eventualmente sfuggite al giudice di legittimità nelle proprie argomentazioni, essendo diversi i piani su cui operano le rispettive valutazioni e non essendo compito della Corte di cassazione di sovrapporre il proprio convincimento a quello del giudice di merito in ordine a tali aspetti. Del resto, ove la Suprema Corte soffermi eventualmente la sua attenzione su alcuni particolari aspetti da cui emerga la carenza o la contraddittorietà della motivazione, ciò non comporta che il giudice di rinvio sia investito del nuovo giudizio sui soli punti specificati, poichè egli conserva gli stessi poteri che gli competevano originariamente quale giudice di merito relativamente all’individuazione ed alla valutazione dei dati processuali, nell’ambito del capo della sentenza colpito da annullamento (Sezione 4, 12 febbraio 2010, Recupero).

La ricostruzione in fatto della vicenda non può quindi essere rimessa in discussione in questa sede.

Va verificato piuttosto se la sentenza di merito ha fatto corretta applicazione della disciplina di settore, fornendo una motivazione satisfattiva, tale da colmare le lacune evidenziate dalla sentenza della Sezione 3, di questa Corte.

Sotto il primo profilo, va ricordato che gli atti sessuali con una persona affetta da inferiorità psichica o fisica (qui, in ipotesi, per pregressa assunzione di droga) integrano il reato di violenza sessuale solo quando il rapporto sessuale sia connotato da un qualificato differenziale di potere: vale a dire quando sia connotato da "induzione" da parte del soggetto forte e da "abuso" delle condizioni di inferiorità del soggetto debole, non essendo viceversa sufficiente la mera conoscenza da parte del soggetto attivo delle minorate condizioni dell’altro. Elemento essenziale del reato è, quindi, l’"induzione", che si ha quando il soggetto passivo viene convinto a compiere o a subire l’atto sessuale, realizzato "abusando" di quelle condizioni di menomazione, ossia con distorta utilizzazione di queste.

Come si ricorderà, sotto la vigenza dell’abrogato art. 519 c.p. (violenza carnale), alla persona inferma di mente o in condizioni di inferiorità fisica o psichica era tout court impedito di avere una propria vita sessuale, dato che era punito, sempre e comunque, il fatto di congiungersi carnalmente con essa (cfr. art. 519 c.p., comma 2, n. 3). In sostanza, per la configurabilità del reato, la violenza idonea a configurare il reato era presunta iuris et de iure (cioè, senza possibilità di "prova contraria") quando l’agente si era consapevolmente congiunto con una persona malata di mente ovvero in condizioni di inferiorità psichica o fisica.

Con la L. 15 febbraio 1996, n. 66, che ha radicalmente innovato la disciplina penale dei reati in materia sessuale, si è invece finalmente assicurata ai soggetti in condizioni fisiche e/o psichiche pregiudicate, una sfera di libera estrinsecazione della loro individualità anche sotto l’aspetto sessuale. L’art. 609 bis c.p. (violenza sessuale), introdotto appunto dalla citata Legge, art. 3, ha infatti eliminata la "presunzione di violenza" che caratterizzava la previgente disciplina e punisce soltanto le condotte consistenti nell’"induzione" all’atto sessuale, tramite l’"abuso" della condizione di inferiorità fisica e/o psichica (art. 609 bis c.p., comma 2, n. 1).

In tal modo, proprio limitandosi la punizione alle condotte connotate da induzione da parte del "soggetto forte" e da abuso delle condizioni di inferiorità del "soggetto debole", si vuole riconoscere e tutelare il "diritto alle relazioni sessuali" anche delle persone affette da inferiorità psichica o fisica purchè esercitato in un clima di assoluta libertà.

Condizione, quest’ultima, che è esclusa solo se ed in quanto l’agente abbia "abusato" della condizione particolare del partner, "inducendolo" ad un consenso che altrimenti non avrebbe prestato: si ha "induzione" quando, con un’opera di persuasione, l’agente spinge o convince il partner a sottostare ad atti che, diversamente, non avrebbe compiuto; e si ha "abuso", in questa prospettiva, quando le condizioni di menomazione siano strumentalizzate per ottenere il consenso alla prestazione sessuale da parte di una persona che, proprio per la propria condizione soggettiva, viene ad essere ridotta al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità altrui (tra le tante, cfr. Sezione 3, .27 settembre 2006, Santoro; Sezione 3, 10 giugno 2009, Verdino).

In questa prospettiva, compito del giudice di merito è quello di verificare, nel concreto, la sussistenza di entrambe le condizioni richieste dalla fattispecie incriminatrice: l’induzione al compimento degli atti sessuali e l’abuso delle condizioni di inferiorità quale elemento qualificante dell’induzione.

Sotto questo profilo, l’apprezzamento specifico della situazione concreta deve essere operato dal giudice avendo riguardo alle circostanze del fatto, ed in particolare alla natura dell’azione posta in essere da colui al quale viene attribuito il reato per convincere il partner all’atto sessuale in correlazione con la valutazione del grado di inferiorità fisica e/o psichica di quest’ultimo. Dovendosi quindi concludere per la sussistenza del reato solo quando le emergenze fattuali risultino tali da consentire di affermare che la persona in condizioni di inferiorità fisica e/o psichica ha accettato di compiere l’atto sessuale non per sua libera scelta ma perchè condizionata dal suo stato fisico o mentale.

Ciò che qui il giudicante ha fatto valorizzando le circostanze della plurima assunzione di droga e, in particolare, la seconda assunzione, relativa alla sostanza offerta alla persona offesa (anche) dall’imputato, quando già la ragazza era "fatta", e valorizzando, sotto il profilo dell’induzione, proprio l’offerta della droga come strumentalmente indirizzata ad ottenere il rapporto sessuale.

E’ ricostruzione che il giudice ha ritenuto di poter effettuare, richiamando in toto gli argomenti conformi sviluppati dal primo giudice (in sede di giudizio abbreviato) e tutte le dichiarazioni (definite "univoche") della persona offesa: vuoi nella lettera inviata dalla Slovenia, vuoi nelle sit rese alla p.g., vuoi in sede di audizione protetta.

A tal riguardo, non può trovare accoglimento il profilo di doglianza che si incentra solo sulle dichiarazioni rese in sede di audizione protetta, per farne discendere l’illogicità e la contraddittorietà della decisione, perchè trattasi solo di un segmento del complessivo compendio probatorio valorizzato dai giudici, convergentemente in primo e secondo grado.

Va del resto ricordato che, in tema di ricorso per cassazione, alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, è ora sindacabile il vizio di "travisamento della prova", che si ha quando nella motivazione si fa uso di un dato di conoscenza considerato determinante, ma non desumibile dagli atti del processo, o quando si omette la valutazione di un elemento di prova decisivo sullo specifico tema o punto in trattazione. Tale vizio, peraltro, può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, ma non nel caso in cui la sentenza di appello abbia confermato l’anteriore decisione (cosiddetta "doppia conforme"), posto in questo caso il limite posto dal principio devolutivo, che non può essere valicato, con coeva intangibilità della valutazione di merito del risultato probatorio, se non nell’ipotesi in cui il giudice di appello abbia individuato -per superare le censure mosse al provvedimento di primo grado- atti o fonti conoscitive mai prima presi in esame, ossia non esaminati dal primo giudice (Sezione 6, 10 maggio 2007, Contrada).

Del resto, la censura è solo parzialmente rivolta a esaminare alcune delle dichiarazioni della ragazza, non il complesso di queste, definite, come detto, sostanzialmente univoche.

A conforto della correttezza giuridica della decisione, non è poi inutile ricordare che per la disciplina di settore, la condizione di inferiorità fisica o psichica del soggetto passivo non può valere, di per sè, a far ritenere sussistente il reato, perchè non è incompatibile con un consenso liberamente prestato al rapporto sessuale, onde l’accertata sussistenza di una tale condizione impone, sempre, un’attenta verifica sulla possibile sussistenza di un abuso posto in essere in danno del soggetto passivo, che abbia influito sulla prestazione del consenso all’atto sessuale.

Ciò che qui, come detto, è stato fatto, ponendo in evidenza, in uno con le particolari modalità di assunzione della droga (sui cui specifici effetti, è precipuo compito del giudice di merito investigare), oltre che all’età della persona offesa (qui, trattavasi di minorenne, di appena 15 anni), alla durata e complessiva qualità dei rapporti interpersonali tra questa e l’agente (aspetto satisfatti va mente esaminato, nella ricostruzione della serata operata convergentemente in primo e secondo grado).

In questa prospettiva, i ricorsi si risolvono entrambi in una censura di merito dell’apprezzamento del compendio probatorio, sviluppato in modo affatto illogico e comunque rispettoso dei principi come sopra ricostruiti e già posti dalla precedente sentenza di annullamento.

Al rigetto dei ricorsi consegue ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e la rifusione delle spese ed onorari sostenute dalla parte civile in questo giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e condanna ancora il ricorrente al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile T.M. per questo giudizio di cassazione, liquidate in Euro 2.500,00, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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