Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 20-04-2011) 01-06-2011, n. 22179

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

N.G. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, relativamente alla sua posizione, ha confermato quella di primo grado, che l’aveva riconosciuto colpevole di un episodio di violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Con il primo motivo prospetta questione di legittimità costituzionale dell’art. 157 c.p., comma 2 con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., sostenendo che la norma violerebbe le succitate disposizioni costituzionali laddove non prevede che il tempo necessario alla maturazione della prescrizione del reato sia computato sulla pena base per quest’ultima prevista senza tener conto delle attenuanti ad effetto speciale (questione rilevante nel caso di specie, laddove è stata concessa all’imputato l’attenuante del fatto lieve ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, e laddove si sostiene che se si tenesse conto dell’attenuante speciale il reato sarebbe prescritto).

Ritiene non concludenti, in senso contrario, gli argomenti sviluppati dalla sentenza della Sezione 2 della Cassazione, 13 febbraio 2008, PG in proc. Mirea, che aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 157 c.p., comma 2 in relazione agli artt. 3 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede che per determinare il termine di prescrizione si tenga conto delle circostanze attenuanti eventualmente sussistenti, sul rilievo che tale soluzione normativa doveva ritenersi espressione di una valutazione discrezionale del legislatore, insindacabile nel merito poichè non irragionevole nè arbitraria.

La Corte, in tale occasione, aveva argomentato la manifesta infondatezza della questione ritenendo non fosse possibile raffrontare, per dedurne l’irragionevolezza della disposizione, la disciplina delle attenuanti ad effetto speciale e quella delle aggravanti ad effetto speciale: ciò sul rilievo che trattavasi di discipline non omogenee.

Secondo il ricorrente, il raffronto, sì da dedurne l’irragionevolezza della disciplina, doveva effettuarsi comparando la disciplina della prescrizione per i reati qualificati dalla ricorrenza di un’attenuante ad effetto speciale con la disciplina della prescrizione "di tutti i delitti che si prescrivono con il termine minimo": sarebbe irragionevole, allora, una previsione, quale quella sub iudice, che non consideri con favore una fattispecie attenuata, accomunandola, in punto di prescrizione, a quella non circostanziata.

Con il secondo motivo, contesta il rigetto del "primo motivo" di appello, sostenendo che doveva porsi una questione di ne bis in idem, cui si sostiene che la corte non avrebbe dato risposta.

Con il terzo motivo, si contesta il diniego della continuazione tra il fatto sub iudice e altri fatti già separatamente giudicati, che si assume essere stati tutti motivati dal "fine di agevolare il proprio consumo di stupefacenti".

Con il quarto si censura il trattamento dosimetrico, sostenendosi che la pena, pur contenuta nei minimi, non sarebbe stata adeguatamente spiegata con il riferimento ai precedenti penali e al ruolo di "autista" svolto dal prevenuto.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile.

Manifestamente infondata è la censura di illegittimità. Valgono gli argomenti già sviluppati dalla richiamata decisione della Corte, che ha dichiarato tale identica questione di costituzionalità. Si è in presenza di una scelta non irragionevole e per ciò insindacabile del legislatore: qualche siano i termini della pretesa comparazione, è la scelta di fondo (irrilevanza delle attenuanti ai fini del computo della prescrizione) che non è concettualmente arbitraria e, come tale, sfugge a censure di costituzionalità.

Il secondo motivo è generico, laddove, tra l’altro, neppure censura lo specifico e puntuale argomento in fatto sviluppato dalla corte di appello, per escludere che potesse porsi questione di ne bis in idem (ha argomentato la corte che l’episodio sub iudice non solo doveva ritenersi anteriore a quelli già perseguiti, ma trattavasi, finanche, di condotte differenti: qui un episodio di trasporto, lì episodi di detenzione di droga).

Analoga genericità ha la doglianza sulla continuazione.

Basta ricordare, in diritto, che, in tema di applicazione della disciplina del reato continuato in fase esecutiva, l’unicità del disegno criminoso costituente l’indispensabile condizione per la configurabilità della continuazione, non può identificarsi con la generale inclinazione a commettere reati, sotto la spinta di fatti e circostanze occasionali più o meno collegati tra loro, ovvero di bisogni o necessità di ordine contingente, e neanche con la tendenza a porre in essere reati della stessa indole o specie, determinata o accentuata da talune condizioni psicofisiche (come l’accertato stato di tossicodipendenza del condannato), dovendo le singole violazioni costituire parte integrante di un unico programma criminoso deliberato sin dall’inizio nelle linee essenziali per conseguire un determinato fine, a cui di volta in volta si aggiungerà l’elemento volitivo necessario per l’attuazione del programma medesimo.

Tale programma deve essere positivamente e rigorosamente provato, non giovando a tale fine la mera indicazione della identità di natura delle norme violate, la loro prossimità temporale, la medesimezza del movente delle varie azioni criminose, tutte circostanze concernenti i singoli reati, ma non probanti quella preventiva deliberazione a delinquere che ne unifica l’ideazione anteriormente alla loro commissione (Sezione 1, 19 settembre 2007, Petronelli).

La corte, in ossequio ai richiamati principi, ha giustamente rigettato il motivo sostenendo che non risultavano spiegate le ragioni per cui doveva ritenersi il medesimo disegno criminoso, rispetto a fatti, peraltro, commessi a distanza di parecchi mesi.

Qui, l’asserzione che il disegno criminoso unitario dovrebbe ravvisarsi nella (pretesa) finalità di "agevolare il proprio consumo di stupefacenti" è assertiva e indimostrata, comunque improponibile in questa sede a fronte di un diniego così pertinentemente motivato.

Anche la doglianza sulla pena non può trovare accoglimento. La motivazione del giudice, ancorata ai criteri di cui all’art. 133 c.p. (il ruolo avuto nella vicenda dal prevenuto e i suoi precedenti), non può essere censurata.

Vale ricordare che, in tema di determinazione della misura della pena, il giudice del merito, con la enunciazione, anche sintetica, della eseguita valutazione di uno (o più) dei criteri indicati nell’art. 133 c.p., assolve adeguatamente all’obbligo della motivazione: infatti, tale valutazione rientra nella sua discrezionalità e non postula una analitica esposizione dei criteri adottati per addivenirvi in concreto (Sezione 2, 3 febbraio 2010, Carlostella).

Segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 (mille) a titolo di sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero.
P.Q.M.

Dichiara manifestamente infondata la proposta questione di legittimità costituzionale e dichiara inammissibile il ricorso proposto, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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