Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 13-04-2011) 01-06-2011, n. 21847 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso – L’odierno ricorrente è stato ritenuto colpevole di avere abusato sessualmente di una donna che presentava problemi di grave depressione e che era stata a lui indirizzata perchè ritenuto psicologo e sociologo (la sentenza di primo grado ha anche dichiarato estinto per prescrizione il reato di cui all’art. 468 c.p,). Secondo l’accusa, la giovane donna, fu indirizzata al B. da un sacerdote che la conosceva e sapeva del suo stato di prostrazione legato alla morte prematura del padre e quindi alla perdita di un figlio abortito involontariamente.

Il B. era stato introdotto alla p.o. ed al di lei marito come persona esperta che svolgeva volontariato e, soprattutto, operava con i tossicodipendenti. Quest’ultimo convinse la donna della necessità di effettuare gli incontri presso la propria villa di campagna ed il rapporto si protrasse dall’aprile all’agosto 1988 quando la donna sospese i contatti, sia per il sopraggiungere di parenti, che per l’effettuazione di un viaggio vacanza al ritorno dal quale ebbe ancora alcuni incontri e, quindi, li interruppe del tutto.

La p.o. non è mai stata sentita nel corso del processo per sua prematura morte e le indagini sono state avviate sulla base dei racconti del marito, della madre, della sorella di un’amica e di altre persone informate.

Avverso tale decisione, l’imputato ha proposto due distinti atti di ricorso dei propri difensori.

Ricorso dell’avv. Spinarelli:

premessa una breve ricostruzione dei fatti nell’ottica difensiva ove si valorizza la circostanza che la p.o. non è mai stata sentita, è deceduta in situazioni non chiarite e comunque, secondo le persone più vicine alla donna, gli incontri con il B. le avevano giovato, deduce:

1) illogicità della motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. e)) riguardo a specifiche censure difensive e travisamento della prova. Si osserva che la Corte ha ripercorso solo apparentemente i punti affrontati nell’atto di appello dove erano stati esaminati e contestati tutti i passaggi della prima sentenza di condanna.

In particolare si rammenta:

– quanto all’abuso consistito nello spacciarsi come psicologo, che lo stesso sacerdote, Padre A. ha affermato di non avere mai appurato se B. fosse o meno laureato. Conseguentemente, egli non avrebbe mai potuto presentare il B. come esperto in psicologia. Secondo la difesa del ricorrente, la risposta della Corte sul punto si risolve in una tautologia, essendosi essa limitata a ribadire il proprio assunto senza dimostrarlo. A tal fine, si ripercorrono, punto per punto, le dichiarazioni di Padre A. criticando il fatto che la Corte abbia, contraddittoriamente, evinto dalle stesse dei convincimenti, di fraudolenza e colpevolezza del B., che sarebbero meramente asseriti ed indimostrati.

– sulle asserite condizioni di inferiorità psichica della donna, (nel riportare passaggi della sentenza impugnata, sul punto), se ne contesta il tenore congetturale, facendo notare che, contrariamente a quanto ivi asserito, i testi sentiti non hanno mai fatto alcun riferimento alla grave crisi depressiva ed alla disperazione in cui avrebbe versato la donna all’epoca in cui incontrò il B.. Al contrario, denunciandosi vero e proprio travisamento dei fatti, si sostiene che i testi hanno sostenuto il contrario, e cioè che le crisi depressive della donna insorsero proprio dopo la fine dei rapporti con il B., rapporti grazie ai quali, anzi, la vittima era apparsa più sicura di sè.

Analogamente, si richiamano le dichiarazioni del marito della vittima dalle quali emergerebbe l’esclusione di quanto affermato dalla Corte a proposito del fatto che la donna sarebbe stata depressa per via della morte del padre e della perdita del bambino. In realtà, lo stesso marito avrebbe escluso l’esistenza di tale stato depressivo e l’incidenza della perdita del padre in quanto risalente nel tempo, limitandosi ad asserire che la vittima si lamentava, spesso, solo di sentirsi brutta.

Quanto alla già citata deposizione di Padre A., si richiamano le sue parole a proposito del fatto che, a suo dire, una sola volta la donna aveva manifestato, al di fuori del sacramento della riconciliazione, un mondo interiore disturbato. Proseguendo su questa linea, la difesa, richiama le affermazioni della madre e della sorella della p.o. dalle quali emergerebbe l’esclusione dello stato di depressione e, al massimo il riconoscimento di uno stato di tristezza.

In sostanza, secondo il ricorrente, tutto il ragionamento della Corte sarebbe basato su una circostanza – la depressione della vittima – indimostrata.

– a proposito della attendibilità della vittima quando rese le proprie dichiarazioni a coloro che, poi, le hanno riportate, si ribadisce che la Corte ha omesso di rispondere alle obiezioni difensive contenute nell’atto di appello circa l’omessa valutazione dell’attendibilità della donna che – se è vero che era triste e si sentiva brutta dopo l’aborto, che a seguito dei rapporti con il B. aveva migliorato e che, invece, una volta interrottili aveva mostrato momenti di assenza e reazioni aggressive – verosimilmente, quando raccontò ai familiari ciò che asseritamene le avrebbe fatto il B., era in preda ad una vera e propria crisi psicotica con allucinazioni. A sostegno di tale affermazione, la difesa evoca (f. 15) il contenuto delle dichiarazioni della teste Bo. e quelle del comandante il N.O. CC. C. il quale ultimo ha confermato che talvolta la p.o. perdeva il senso della realtà ed anche il marito ha parlato di un "tracollo psicologico" (f. 16) verificatosi al rientro dalla vacanza ed ha riferito di dubbi avuti da lui stesso a proposito della credibilità della moglie.

Ugualmente, il ricorrente riporta brani di affermazioni della madre della vittima (relativamente al fatto che la figlia, nel raccontarle quanto le sarebbe stato fatto dal B., si comportò con lei come se la ritenesse responsabile puntandole contro un coltello) e della sorella (che sottolinea la "stranezza" della propria congiunta).

A tale stregua, secondo il ricorrente, le asserzioni di "precisione e sincerità" della p.o. sarebbero del tutto scollegate dal contesto e si critica il fatto che la Corte non abbia valutato la eventualità – sottolineata nell’atto di appello – che, anche ove i rapporti sessuali vi siano stati – essi potessero essere stati raccontati dalla donna in modo ambiguo proprio di chi teme di esser giudicato male;

– a proposito della inosservanza del principio del "ragionevole dubbio" si sottolinea il fatto che la decisione impugnata è viziata ab imis dalla impossibilità originaria di ascoltare la p.o. e, conseguentemente, anche dalla impossibilità di verificarne la attendibilità nel momento in cui fece i propri racconti ai terzi sentiti. Si cita, in proposito, la nota sentenza Franzese di queste S.U. (10.7.02);

2) illegittimità costituzionale dell’art. 195 c.p.p., comma 3 per contrasto con l’art. 117 Cost. in rel. all’art. 6 CEDU. Si ricorda, infatti, che, tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e ratifica della CEDU, vi è quello di adeguare la normativa interna alle norme i quel trattato. Si tratta, infatti, di norme che, pur sempre ad un livello sub-costituzionale, devono essere conformi alla Costituzione. La presenza, contemporanea, nel nostro sistema, di norme come l’art. 195 c.p.p., comma 3 che consentono di condannare un individuo esclusivamente su una o più testimonianze de relato è palesemente in contrasto con l’art. 6 p. 3 del trattato. A tal fine, si citano varie pronunzie della Corte di Strasburgo che hanno stigmatizzato decisioni nelle quali l’imputato non fosse stato in grado di contestare una testimonianza interrogandone l’autore (19.12.90, delta c. Francia) ovvero la decisione abbia costituito il fondamento diretto ed esclusivo della condanna (es. 20.9.93, Visser c/Francia; 6.4.00, Labita c/Italia);

3) erronea applicazione della legge penale con riferimento alla nozione di abuso ed alla valutazione delle condizioni di inferiorità psichica. Anche ammesso, infatti, che la vittima versasse in uno stato psicologico di depressione e che vi siano stati i rapporti sessuali contestati, la stessa sentenza – nell’affermare che il tutto si svolgeva in un contesto "rilassante", che il rapporto tra i due era come da terapeuta a paziente e che addirittura il B. "faceva sentire donna" la p.o. – esclude totalmente da qualsivoglia "abuso" ed induzione da parte dell’imputato o, ancor meno, costrizione.

In altri termini, non possono ritenersi sufficienti per la ricorrenza del reato il dato obiettivo del rapporto sessuale e l’eventuale percezione di una condizione di inferiorità psichica da parte della p.o.. Ed infatti, la nuova disciplina in tema di abuso sessuale su persone affette da inferiorità fisica o psichica, vuole una condotta di "induzione" mediante "abuso" delle condizioni di inferiorità. E’ richiesta, in altri termini, una condotta attiva dell’agente volta a sopraffare la vittima.

Essa, però, non può essere individuata – come fatto nella sentenza – nella posizione di supremazia dell’imputato e nella corrispondente inferiorità psichica della vittima perchè, così facendo, si evidenzia esclusivamente il divario psicologico;

4) mancanza di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. e) in rel. all’art. 609 bis c.p., comma 3). Nel corso dell’udienza del 25.2.10 risulta, a verbale, la richiesta dell’imputato di riconduzione del fatto nell’alveo dell’attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., comma 3 ma, il punto, non risulta per nulla affrontato nella sentenza impugnata;

5) mancanza di motivazione con riferimento all’accusa di abusivo esercizio della professione. Dal momento che oggetto dell’atto di appello erano "tutti i capi e tutti i punti della sentenza impugnata", i giudici avrebbero dovuto pronunziarsi anche sull’implicita affermazione di responsabilità insita nella declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di cui all’art. 348 c.p..

Tale omissione riverbera anche sul piano della procedibilità visto che, in difetto di querela, la possibilità di procedere per la violenza sessuale discendeva dalla connessione con il reato procedibile di ufficio.

Ricorso dell’avv. Randazzo:

1) vizio di motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. e)) con specifico riferimento alla credibilità della p.o.. Tale vizio emergerebbe, nello specifico dalle deposizioni di C.F., dal diario della p.o., dalla testimonianza della madre e della sorella della vittima e da quelle di B.F. e L.M.R..

Si sottolinea come il peculiare problema del presente procedimento sia rappresentato dall’assenza di una deposizione della persona offesa e, quindi, le dichiarazioni de relato dei soggetti appena menzionati, avrebbero dovuto essere vagliate con una cura precipua.

Al fine di provare che ciò non è avvenuto, il ricorrente riporta i passaggi principali della deposizioni di tali persone e sviluppa la tesi secondo cui, quando la defunta p.o. fece ai propri familiari ed amici le confidenze sui rapporti sessuali avuti con il B., versava in uno stato psicologico estremamente precario tanto da minacciare la madre con il coltello mentre le riferiva di ciò che sarebbe avvenuto con il B..

Al contrario, la sentenza non solo non mostra il rigore motivazionale richiesto ma, per di più, cade in contraddizione con l’obiettività delle emergenze processuali;

2) vizio logico di motivazione sul punto delle condizioni psichiche della vittima. Secondo il ricorrente, infatti, esiste un insanabile contrasto logico tra la condizione di inferiorità asseritamene presente nella vittima quando il B. l’avrebbe indotta a rapporti sessuali non validamente assentiti e la lucidità nel momento in cui raccontò a familiari ed amici l’accaduto;

3) vizio di motivazione relativamente alle testimonianze de relato.

Già nell’atto di appello era stato evidenziato come, nonostante le numerose discordanze, i testi erano stati creduti dal Tribunale che, in realtà, si era reso conto della "non sovrapponibilità" delle deposizioni ma aveva finito per ritenere che ciò non fosse indice di inattendibilità dei testi ma solo "il riflesso della molteplicità degli episodi susseguitisi".

Neanche la sentenza impugnata ha sanato i dubbi derivanti dalle obiettive difformità esistenti tra le testimonianze;

4) illegittimità costituzionale dell’art. 195 c.p.p., comma 3. A tal fine si richiamano le argomentazioni del parere del prof. G. già prodotto anche alla Corte d’appello;

5) vizio di motivazione per sua contraddittorietà e manifesta illogicità con specifico riferimento alle "condizioni di inferiorità psichica". Si sostiene, in particolare che, a fronte delle censure mosse con l’atto di appello, la Corte ha fondato il proprio convincimento su dati probatori fittizi e diversi dal reale visto che i testi (le cui dichiarazioni vengono evocate dal ricorrente) hanno riferito fatti e circostanze incompatibili con l’idea che la donna fosse in uno stato depressivo tale da impedirle di prestare un valido consenso ai rapporti sessuali che le sarebbero stati proposti dal B.;

6) erronea applicazione dell’art. 609 bis c.p., comma 2 nell’individuazione delle condizioni di inferiorità psichica necessarie alla individuazione della fattispecie criminosa ipotizzata. A tal fine, si richiama la giurisprudenza di questa S.C. in base alla quale, per aversi il reato, è necessario che la situazione psichica sia tale da elidere, in tutto o in parte, la capacità della vittima di esprimere un valido consenso ai rapporti sessuali;

7) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione a proposito della posizione di supremazia derivante dalla qualifica professionale di sostegno psicologico fornita dall’imputato. Entrambe le sentenze di merito hanno valorizzato il fatto che l’imputato si sarebbe proposto agli occhi della vittima come terapeuta in grado di aiutarla a superare le difficoltà psicologiche ma, a proposito di tali presunte qualità professionali, sono state ignorate le obiezioni difensive secondo cui, in realtà, lo stesso sacerdote che presentò la vittima al B., non testimoniò affatto l’esistenza di alcuna qualifica di psicologo o altrimenti psicoterapeuta dell’imputato ma, semmai, solo che B. svolgeva attività di "volontariato". Le parole del Padre A., quindi, sono state utilizzate in modo illogico;

8) violazione di legge con riferimento alla nozione di "abuso" di cui all’art. 609 bis c.p.. A tal fine, si evocano i contenuti del parere prò ventate rilasciato dai prof.ri M.F. e G. F. dai quali si evince che "non sono sufficienti la provata esistenza delle due situazioni statiche della condizione di inferiorità psichica e della possibile posizione di supremazia o di ascendente dell’agente" occorrendo "l’ulteriore elemento dinamico dell’"abuso" e, quindi, la prova del dissenso della vittima ai rapporti;

9) violazione di legge sotto il profilo della "induzione".

A riguardo si sostiene che la Corte mostra una "becera e bigotta visione" della libertà sessuale dei malati di mente e comunque della libertà sessuale in genere evincendo il dissenso e l’induzione dal fatto di avere la donna aderito all’effettuazione di rapporti orali che, di certo – si dice in sentenza – nessuna donna è disposta a compiere se non "per amore o per mestiere". In altri termini, si critica che, per la Corte, sarebbe il tipo di atto sessuale in sè a qualificarlo come illecito;

10) mancanza di motivazione a proposito del diniego dell’attenuante speciale di cui all’art. 609 bis c.p.p., comma 6;

11) omessa motivazione a proposito del reato di cui al capo b) ( art. 348 c.p.);

12) improcedibilià per difetto di querela per il reato di cui all’art. 609 bis c.p. conseguente alla eventuale pronuncia di proscioglimento per il delitto di abusivo esercizio della professione.

Con memoria depositata il 7.4.11, si rileva, in via subordinata, la sopraggiunta estinzione per prescrizione del reato di cui all’art. 609 bis c.p. dal momento che i fatti risalirebbero al 18.9.98 e, quindi, medio tempore, si sarebbero prescritti il 18.3.11.

Con memoria depositata l’8.4.11. si chiede dichiararsi l’estinzione del reato per difetto di querela posto che, sulla base della giurisprudenza di questa stessa S.C., la connessione va intesa in senso materiale e non processuale e si impone un rigoroso controllo, a riguardo, visto che nella specie la presunta violenza sessuale ascritta al B. non aveva alcuna rilevanza ai fini delle investigazioni sull’esercizio abusivo della professione di psicologo.

Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

2. Motivi della decisione – I ricorsi sono fondati per più motivi.

Non può, infatti, essere considerata decisiva la circostanza che i fatti-reato ipotizzati siano prescritti (la sentenza di primo grado non era stata ancora pronunciata quando è entrata in vigore la cd.

L. Cirielli – v. anche Sez. 2^ 17.9.10, Careri, Rv. 248872) perchè, comunque, sulla base dei dati processuali (cosi come illustrati nella motivazione ed esaminati anche alla luce dei plurimi motivi di ricorso), non può dirsi raggiunta – nè altrimenti raggiungibile – la prova della sussistenza dei fatti denunciati.

In particolare, esaminando più in dettaglio le ragioni dei ricorrenti (sia pure accorpando i motivi che in gran parte ripropongono lo stesso tema sotto differenti angolazioni), si osserva che i punti fondamentali sui quali la decisione risulta censurabile sono quelli concernenti le deposizioni de relato e l’apprezzamento del contenuto delle loro dichiarazioni.

Il collegio ben conosce la giurisprudenza della CEDU in tema di testimonianza indiretta ma il vero nocciolo del presente processo non è tanto rappresentato dalla inutilizzabilità delle dichiarazioni dei testi quanto dal fatto che i loro contenuti impediscono di pervenire a dei convincimenti che vadano oltre il ragionevole dubbio.

In tema di testimonianza de relato, questa S.C. ha già avuto modo di osservare come non sia sufficiente la semplice impossibilità di sentire la fonte principale per escludere attendibilità alle dichiarazioni riferite che, ad esempio, ben possono ugualmente essere utilizzate (sez. 3^, 2.7.03, Baini, rv. 226544), senza che la cosa si ponga in contrasto con l’art. 111 Cost., qualora l’imputato non si sia avvalso del diritto di chiedere che sia chiamato a deporre il teste di riferimento. Analogamente, è stato anche osservato (Sez. 3^, 11.6.09, f., Rv. 244939) che la sanzione della inutilizzabilità dei testi de relato riguarda solo la fattispecie della omessa audizione del dichiarante diretto, ritualmente sollecitata dalle parti e che "in mancanza di tale richiesta, la testimonianza indiretta deve essere valutata alla stregua di ogni altra prova rappresentativa e non come prova logica o indiziaria".

Di certo, perciò, quando, come nel caso in esame, la testimonianza della fonte principale sia resa impossibile dal suo prematuro decesso, nulla impedisce una valutazione delle testimonianze indirette sulle dichiarazioni che la presunta vittima ebbe a fare in vita.

Ovviamente, però, nel fare ciò, non si deve perdere di vista il fatto che la dichiarazione indiretta diviene indizio soltanto con il giudizio di attendibilità e che, per la sua composita natura, se ne impone una duplice rigorosa verifica, intrinseca ed estrinseca: una, relativa alla credibilità della fonte primaria, l’altra, relativa alla fonte secondaria, il dichiarante.

Come è stato già asserito da questa S.C. (sez. 5^, 9.10.96, cannoio, Rv. 206338) l’accusa de relato "abbisogna, non di un riscontro generico ma di un "quid pluris" più specifico e qualificante, più incisivo ed esterno, che, per qualità e quantità, specificità e correttezza, rappresenti, se non un inizio di prova individualizzante, almeno una verifica certa ed esterna dell’effettività, se non veridicità sostanziale della confidenza".

Acquisita la valenza indicativa – sia pure di portata possibilistica e non univoca – di ciascun indizio "deve allora passarsi al momento metodologico successivo dell’esame globale ed unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio può risolversi, perchè nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, di tal che l’insieme può assumere quel pregnante ed univoco significato dimostrativo che consente di ritenere conseguita la prova logica del fatto; prova logica che non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica), quando sia conseguita con la rigorosità metodologica che giustifica e sostanzia il principio del cosiddetto libero convincimento del giudice (s.u.

4.2.92, Musumeci, rv. 191230; s.u., 12.7.05, Mannino, Rv. 231678).

Orbene, avendo come parametri di riferimento i principi metodologici appena richiamati, risulta innegabile che – come evidenziato nei ricorsi in esame – la sentenza impugnata sia censurabile per non aver proceduto con il dovuto rigore nè nella valutazione della attendibilità della cd. fonte primaria, nè nella disamina delle testimonianze di parenti ed amici della p.o. ma ha, piuttosto, operato – come si dirà meglio di qui a breve – dei veri e propri salti logici nel proprio percorso argomentativo.

Innanzitutto, infatti, si constata che quasi tutte le testimonianze acquisite riguardano, per cosi dire, la "seconda fase", vale a dire quella in cui la donna iniziò a fare le proprie confidenze e rivelazioni in ordine agli abusi asseritamene subiti. Si imponeva, quindi, la riposta ad un primo interrogativo circa la capacità di intendere e di volere della p.o. quando riferì le condotte del B..

Ma, di certo, la questione non può essere risolta con l’affermazione – meramente assertiva – dei giudici di secondo grado, secondo cui "la M. non aveva una infermità mentale che la rendeva incapace di intendere e di volere e quindi di narrare con precisione e con sincerità". Nè può rinvenirsi un riscontro di tale asserzione nella frase che segue: "(è significativo il pudico riferimento a L.M. per indicare gli atti sessuali che era stata costretta a compiere") (f. 7).

Per contro, significativi indizi contrari – e che avrebbero dovuto indurre i giudici a dubitare della stabilità delle facoltà mentali della donna all’epoca dei propri racconti (indubbiamente fatti) – sono, sia, le dichiarazioni della teste Bo. nonchè quelle del comandante il N.O. CC. C.. In particolare, quest’ultimo ebbe a confermare che, talvolta, la p.o. perdeva il senso della realtà e persino il marito della donna ha parlato di un "tracollo psicologico" (ff. 40 ss. ud. 8.4.05) verificatosi al rientro dalla vacanza tanto da avere, egli stesso, nutrito dubbi a proposito della credibilità della moglie. E che dire, poi, dell’emblematico accaduto riportato dalla madre della defunta p.o. (circa il fatto che la figlia, nel raccontarle quanto le sarebbe stato fatto dal B., si comportò con lei come se la ritenesse responsabile puntandole contro un coltello)? Infine, anche la sorella ha avuto occasione di sottolineare la "stranezza" della propria congiunta.

A fronte di tutto ciò, invece, nessun dubbio da parte dei giudici di secondo grado che, per contro, proseguono nel loro percorso argomentativi attraverso veri e propri "salti" logici grazie ad una ricostruzione – astrattamente possibile – ma del tutto fantasiosa ed ipotetica sfornita, cioè, dei necessari riscontri.

Ed infatti – richiamando quanto osservato in precedenza a proposito della necessità che le testimonianze indirette ricevano un riscontro rigoroso intrinseco ed estrinseco – pur senza nulla obiettare (ed infatti neppure i ricorrenti lo fanno) a proposito della intrinseca attendibilità dei singoli testi, è innegabile che le loro dichiarazioni non sono sempre tra loro "sovrapponibili" (come ebbe a riconoscere anche il giudice di primo grado) ed, anzi, Spesso concorrono – come appena sottolineato – a formare un convincimento opposto a quello sostenuto dai giudici di merito.

Nè il problema trova migliore soluzione una volta che si vadano a ricercare riscontri al fatto che la donna fosse effettivamente incapace nella (per cosi dire) "prima fase" quando, cioè, prima dell’estate, ella si rivolse al B..

A riguardo, le dichiarazioni del sacerdote non sono di valido ausilio e la stessa deposizione del marito, che la accompagnò dal B., non risulta univoca ed, anzi, indebolisce la tesi abbracciata dalla Corte di merito in modo alquanto categorico ("è pacifico per unanime asserzione dei testi" – f. 4) secondo cui la donna si sarebbe trovata in uno stato di ridotta capacità di intendere e di volere in conseguenza della morte del padre e della perdita del bambino. In realtà, come si fa osservare da parte dei difensori ricorrenti (sub motivo 1), lo stesso marito avrebbe escluso l’esistenza di uno stato depressivo e, soprattutto, negato l’incidenza della perdita del padre, in quanto risalente nel tempo, e si era limitato ad asserire che la doglianza più ricorrente della vittima all’epoca dell’incontro con l’imputato era stata quella di "sentirsi brutta".

La qual cosa non va disgiunta con l’obiettiva e successiva affermazione – che sarebbe stata fatta dalla donna – che l’incontro con il B. l’aveva fatta "sentire donna".

Il punto è che qui non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se determinati elementi sussistano.

In particolare, cioè, se sia stata riscontrata – o sia altrimenti riscontrabile – la condizione di inferiorità psichica della donna di cui il B. avrebbe approfittato.

La risposta della Corte sul punto è nuovamente solo il risultato di una elaborazione alquanto fantasiosa di ciò che astrattamente può essere accaduto tra B. e la donna senza che di ciò sia fornito alcun riscontro obiettivo visto che le stesse versioni de relato di coloro che ricevettero le confidenze della donna non depongono affatto in modo univoco circa il fatto che la presunta vittima versasse in una condizione di inferiorità psichica tale da minarne la capacità di determinazione della volontà.

E comunque, anche ammesso e non concesso che ciò fosse stato, appare abbastanza indubitabile che non si trattava di uno stato percepibile ictu oculi non potendosi, a riguardo, fondare il giudizio a riguardo esclusivamente sulle impressioni della Corte a proposito delle capacità di "porgersi" (1. 6) dell’imputato.

Del resto, poi, anche proseguendo il ragionamento su questa linea, esso si arresta ineluttabilmente di fronte alla ulteriore – e giusta – obiezione difensiva (sub motivo 3) che per la ricorrenza del reato ipotizzato, non è sufficiente dimostrare il divario psicologico tra il soggetto agente e la vittima. Ed infatti, il legislatore ha introdotto due requisiti della condotta di cui all’art. 609 bis c.p., comma 2, n. 1: quello dell’induzione e quello dell’abuso. Perchè Si abbia induzione – non essendo sufficiente la semplice conoscenza dello stato di inferiorità – occorre un comportamento positivo che si deve realizzare attraverso un abuso che va verificato volta per volta tenendo presente che l’indagine deve essere maggiormente penetrante quanto più vicina alla normalità è la condizione di inferiorità della vittima.

E’, pertanto, dovere del giudice espletare un’indagine adeguata per verificare se l’agente abbia avuto la consapevolezza non soltanto delle minorate condizioni del soggetto passivo ma anche di abusarne per fini sessuali.

Di certo, la Corte, con il proprio argomentare ha, al massimo, dimostrato che il B. potè rendersi conto di avere di fronte una persona psicolabile; nessuna prova, però, è intervenuta circa l’induzione agli atti sessuali, da parte sua, mediante abuso di quelle condizioni.

Di certo, volendo, essa (come dimostra la stessa sentenza impugnata) è immaginabile ma non dimostrata nè più dimostrabile (stante il decesso dell’unica persona che potrebbe fornire chiarimenti a riguardo) e, quindi, non giustifica la pronunzia di responsabilità qui censurata.

Come è stato già affermato da questa S.C. in epoca anche non recente (sez. 1^, 6.7.92, Russo, Rv. Rv. 191509) la decisione finale del giudice sulla colpevolezza dell’imputato contro il quale militino esclusivamente prove indirette deve essere raggiunta (e dei vari passaggi dovrà fornire correttamente conto la sentenza) attraverso una serie di sillogismi che consenta la ricostruzione del fatto da provare, seguendosi il criterio detto della "congruenza narrativa" che abbia superato le due verifiche della "giustificazione esterna" e della "giustificazione interna".

E’ innegabile, invece, che la motivazione in esame non resiste validamente al controllo della sua razionalità formale e sostanziale.

Il vero è, infatti, che di quanto accaduto realmente tra B. e la defunta vittima, nel caso in esame, non esiste alcun riscontro diretto per totale assenza di una qualsivoglia denuncia e/o dichiarazione personale della donna diversa dalle mere confidenze fatte a parenti ed amici i quali, a propria volta, le hanno riportate in termini tali da impedire una ricostruzione men che frammentaria e composta da elementi non sempre raccordati tra loro. Il quadro finale che si determina è, pertanto, impreciso, incompleto ed ambiguo e certamente impedisce di affermare che la pronuncia di condanna emessa a carico del B. vada oltre il ragionevole dubbio.

A tale stregua, l’accoglimento dei principali motivi di ricorso, concernenti i vizi della motivazione, assorbe gli altri motivi ed impone un annullamento senza rinvio delle sentenza impugnata per mancato raggiungimento della prova della sussistenza del fatto.
P.Q.M.

Visti gli artt. 637 e ss. c.p.p.; annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *