Cass. civ. Sez. I, Sent., 03-10-2011, n. 20171 Danno non patrimoniale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

C.M., con ricorso alla Corte d’appello di Napoli proponeva, ai sensi della L. n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U. a causa della irragionevole durata del giudizio in materia di lavoro pubblico instaurato dinanzi al T.A.R. Campania per risarcimento danni da mancato godimento del riposo settimanale, giudizio iniziato nel novembre 2000.

La Corte d’appello, con decreto depositato il 9 giugno 2008, ritenuta una durata ragionevole di tre anni, liquidava a titolo di danno non patrimoniale per la ulteriore durata irragionevole del giudizio presupposto – tenuto conto della posta in gioco e della condotta del ricorrente, che non aveva presentato alcuna istanza di prelievo – la somma di Euro 3.600,00 oltre interessi legali e spese del procedimento.

Avverso tale decreto C.M. ha proposto ricorso a questa Corte con atto notificato al Ministero Economia e Finanze il 26 marzo 2009, formulando dieci motivi, cui resiste il Ministero con controricorso.
Motivi della decisione

1.- Con i primi otto motivi è denunciata erronea e falsa applicazione di legge ( L. n. 89 del 2001, art. 2, art. 6, par. 1 C.E.D.U.) in relazione al rapporto tra norme nazionali e la C.E.D.U. come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, ed omessa decisione di domande ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; art. 112 c.p.c.). Secondo l’istante, una volta accertata la violazione del termine ragionevole, la liquidazione dell’equo indennizzo dovrebbe effettuarsi, applicando la normativa C.E.D.U. secondo la giurisprudenza della Corte europea e disapplicando la L. n. 89 del 2001, art. 2 che con essa contrasti, in relazione non già al tempo eccedente la ragionevole durata bensì all’intera durata del processo, ed in misura non inferiore a Euro 1000,00 – 1.500,00 per anno (motivi 1, 2,4, 5); nella specie peraltro il decreto non avrebbe motivato in ordine alla mancata osservanza di detti parametri (motivi 3 e 6). Inoltre, ratione materiae doveva essere liquidato un bonus di Euro 2.000,00, concernente la controversia su diritti inerenti a rapporti di lavoro, ed il giudice non si sarebbe pronunciato sulla relativa domanda così violando l’art. 112 c.p.c. e l’obbligo di motivazione su un punto decisivo (motivi 7 e 8).

1.1.- Il nono e decimo motivo denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e della normativa sulle tariffe professionali, nonchè vizio di motivazione: assume il ricorrente che la Corte di merito ha illegittimamente disatteso la nota spese depositata, senza motivare sul punto.

2.- I motivi indicati nel par. 1, da esaminare congiuntamente perchè giuridicamente e logicamente connessi, sono infondati.

2.1- Quanto al rapporto tra le norme nazionali (in particolare, la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3) e la CEDU, deve in primo luogo escludersi che l’eventuale contrasto tra tali normative possa essere risolto semplicemente con la "non applicazione" della norma interna.

Fermo il principio enunciato dalle S.U. (n. 1338 del 2004), in virtù del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretarla in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, va precisato come tale dovere operi entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001:

qualora ciò non fosse possibile, ovvero il giudice dubitasse della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, dovrebbe investire la Corte Costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1, (cfr. Corte Cost. sentenze nn. 348 e n. 349 del 2007). D’altra parte, la compatibilità della normativa nazionale con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica Italiana con la ratifica della CEDU va verificata con riguardo alla complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto ad una ragionevole durata del processo: come la stessa Corte europea ha riconosciuto, la limitazione, prevista dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 dell’equa riparazione al solo periodo di durata irragionevole del processo, di per sè non esclude tale complessiva attitudine della legge stessa (cfr. Cass. n. 16086/2009; n. 10415/2009; n. 3716/2008).

Rettamente dunque la Corte di merito ha seguito la modalità di calcolo dell’indennizzo prevista dall’art. 2 citato, facendo peraltro espresso richiamo ai principii qui esposti.

2.2- Quanto alla liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale, posto il principio già ricordato secondo cui il giudice nazionale deve in linea di principio uniformarsi ai parametri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per i casi simili, salvo il potere di discostarsene in misura ragionevole avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, delle quali deve dar conto (Cass. S.U. n. 1340/2004), va osservato come nel caso in esame la Corte di appello abbia puntualmente evidenziato che l’omessa presentazione di istanza di prelievo faceva presumere uno scarso interesse del ricorrente per la sollecita definizione del procedimento presupposto, in coerenza del resto con la limitatezza della posta in gioco. Ha dunque validamente esercitato la sua discrezionalità, esponendo congruamente criterii senz’altro ammissibili (sui quali peraltro il ricorso non espone alcuna censura specifica), la cui concreta incidenza nel caso specifico costituisce peraltro oggetto di apprezzamento di merito non censurabile in sede di legittimità. D’altra parte, la Corte CEDU in numerosi giudizi di lunga durata davanti alle giurisdizioni amministrative, in cui gli interessati non hanno sollecitato in alcun modo la trattazione e/o definizione del processo mostrando di avervi scarso interesse, ha liquidato un indennizzo forfetario per l’intera durata del giudizio che, suddiviso per il numero di anni, ha oscillato tra gli importi di Euro 350,00 e di Euro 550,00 per anno (cfr. procedimenti 675/03;

688/03 e 691/03; 11965/03), pur se in qualche caso non è mancata una liquidazione superiore. Non confligge dunque con gli orientamenti della giurisprudenza di Strasburgo la liquidazione, per circa cinque anni di irragionevole durata su otto complessivi, di un indennizzo di Euro 3.600,00. 2.3- Quanto al diniego di una somma forfetaria di Euro 2.000,00 (c.d. bonus) in relazione alla circostanza che il giudizio presupposto aveva ad oggetto una controversia di lavoro, deve respingersi la tesi che tale somma ulteriore vada riconosciuta automaticamente in ogni caso di controversia di lavoro o previdenziale. La ragione di tale bonus, che la giurisprudenza europea riconosce laddove la particolare importanza di taluni giudizi induca a ritenere che il pregiudizio per la loro durata irragionevole sia stato maggiore di quello che si verifica nella generalità dei casi, postula l’accertamento e la valutazione nel caso specifico delle particolari circostanze alle quali sia da ricondurre tale eventuale maggior pregiudizio. Sì che, quando il giudice del merito nega tale ulteriore indennizzo forfetario, nella specie peraltro esprimendone le ragioni nella modestia della posta in gioco tale da escludere che quello specifico pregiudizio ulteriore sia stato sopportato dall’istante, la critica del punto della decisione non può essere affidata alla sola contraria postulazione che il bonus spetterebbe ratione materiae ed era stato richiesto -tanto meno, nella specie, che la decisione negativa non sarebbe motivata-, ma deve avere specifico riguardo alle concrete allegazioni -e se del caso alle prove – addotte nel giudizio di merito. Ciò che non è dato riscontrare nel ricorso in esame.

3. Quanto agli ultimi due motivi, premesso che in tema di spese processuali possono essere denunciate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della soccombenza o del principio di inderogabilità della tariffa professionale vigente (cfr. Cass. n. 4347/1999; n. 4818/2000; n. 1485/2001), e che nei giudizi di equa riparazione la liquidazione delle spese processuali della fase davanti alla Corte d’appello deve essere effettuata in base alle tariffe professionali previste dall’ordinamento italiano, senza tener conto degli onorari liquidati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. Cass. n. 23397/2008), si osserva che parte ricorrente non ha specificamente e analiticamente indicato, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, le voci e gli importi richiesti e ad essa spettanti (cfr. Cass. n. 21325/2005;

n. 9082/2006; n. 9098/2010). Tale omissione non consente al giudice di legittimità il controllo -senza bisogno di svolgere ulteriori indagini in fatto e di procedere alla diretta consultazione degli atti – degli error in iudicando solo astrattamente enunciati nella illustrazione dei motivi di ricorso e nella altrettanto astratta formulazione dei quesiti di diritto. Neppure tali motivi possono quindi trovare accoglimento.

4. Il rigetto del ricorso si impone dunque, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in Euro 800,00 per onorari oltre le spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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