Cass. pen., sez. I 28-10-2008 (07-10-2008), n. 40117 Morte – Ragionevole dubbio sull’esistenza in vita dell’imputato – Sentenza di non luogo a procedere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 12 marzo 2008, emessa ai sensi dell’art. 425 c.p.p., il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale Militare della Spezia ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Mi.He.Er.Si.Ha.We. per essere il reato estinto per morte dell’imputato, in ordine al reato di concorso in violenza con omicidio contro privati nemici, pluriaggravata continuata, per avere, quale sergente in servizio delle forze armate tedesche, nemiche dello stato italiano, durante lo stato di guerra fra l’Italia e la Germania, contribuito a cagionare la morte di oltre ottocento privati cittadini italiani, che non prendevano parte alle operazioni militari, con prevalenza di donne, anziani e bambini, senza necessità, nell’ambito di una operazione punitiva contro i partigiani e contro la popolazione civile che era con essi solidale, nella zona di (OMISSIS).
Il GUP, premesso che l’imputato doveva ritenersi ormai compiutamente identificato come Mi.He., nato il (OMISSIS), di cui erano stati acquisiti l’atto di nascita, tutta la documentazione militare, anche concernente il servizio prestato a (OMISSIS) e nelle zone limitrofe nei giorni (OMISSIS) con il grado di sergente ( (OMISSIS)) che gli era stato assegnato il (OMISSIS) e persino la fotografia e che nel contempo non poteva essere prosciolto nel merito con una formula più favorevole, essendo ragionevole ritenere che potesse avere partecipato all’eccidio con funzioni di comando, in relazione al grado rivestito, ha peraltro ritenuto di dovere pronunciare sentenza di non luogo a procedere per estinzione del reato per morte dell’imputato, ai sensi dell’art. 69 c.p.p., essendovi un fondato dubbio sulla sua morte.
Ha all’uopo ritenuto che la permanenza del dubbio dovesse essere equiparata alla certezza della morte, come desumibile dagli artt. 129 e 425 c.p.p. e art. 531 c.p.p., commi 1 e 2, nella fase del procedimento e dall’art. 150 c.p. e art. 411 c.p.p. nella fase delle indagini, considerato anche che la declaratoria di estinzione per morte dell’imputato non precludeva la instaurazione di un nuovo giudizio per lo stesso fatto, a carico della stessa persona, se successivamente fosse stata accertata la sua esistenza in vita, similmente a quanto previsto dall’art. 89 c.p.p.. Ed ha ricavato il dubbio della morte dell’imputato dal fatto che il servizio di ricerche della Croce Rossa tedesca aveva comunicato che risultava disperso, avendo fornito le sue ultime notizie nel mese di (OMISSIS), mentre non appariva attendibile la dicitura apposta in data (OMISSIS) sulla scheda matricolare n. (OMISSIS) "visto vivo in prigionia di guerra, secondo scheda registrazione compilata Mue" poichè discordante con la precedente nota del (OMISSIS) in cui si attestava che le ultime notizie del Mi. risalivano al (OMISSIS) ed anche in contrasto con i successivi aggiornamenti effettuati nelle date del 4.8.2003 e del 7.10.2003 in cui si dava atto della "prigionia di guerra negativo" e della "documentazione USA, francese e inglese negativo"; e comunque era ragionevole ritenere in base ai dati statistici che, se anche fosse stato preso prigioniero, sarebbe deceduto in (OMISSIS) nei dieci anni successivi, come previsto anche dalle norme del codice civile in materia di morte presunta.
Ha proposto ricorso per cassazione la difesa delle parti civili B.R. più 49 lamentando la nullità della sentenza per violazione dell’art. 150 c.p. e art. 425 c.p.p., nonchè contraddittorietà ed illogicità della motivazione sotto vari profili: il percorso attraverso cui la sentenza impugnata era giunta alla declaratoria di improcedibilità per morte dell’imputato era contraddittorio ed illogico, poichè – a fronte della ordinanza con cui il GIP aveva imposto la imputazione coatta ex art. 409 c.p.p., comma 5, sul presupposto che non vi era prova che l’imputato fosse deceduto, essendo stato soltanto registrato come disperso dalla Croce Rossa ed essendovi al contrario la prova che era stato visto vivo in prigionia di guerra – doveva essere proseguita la azione penale, non rilevando che in caso di scoperta successiva dell’errore in ordine alla declaratoria di morte dell’imputato fosse possibile riaprire le indagini in quanto era possibile anche l’inverso e cioè che la tardiva conoscenza dell’evento morte determinasse la correzione dell’errore materiale precedentemente commesso; l’art. 531 c.p.p., comma 2, che prevede la sentenza di non doversi procedere anche in caso di dubbio sulla esistenza di una causa di estinzione del reato, si colloca all’interno della fase dibattimentale e quindi presuppone un diverso processo della formazione della prova, mentre non esiste continuità con il sistema processuale del codice previgente che prevedeva la sospensione del processo in attesa che fosse sciolto il nodo sulla esistenza in vita dell’imputato; esisteva un salto logico nel percorso presuntivo seguito dalla sentenza impugnata poichè la morte non si poteva desumere da un criterio numerico e statistico e neppure dalla mancanza di citazione del nominativo del Mi. nei documenti anglo-americani sulla prigionia si poteva ricavare la genericità della citazione del nome del Mi. nel documento datato (OMISSIS).
Il Procuratore Generale Militare presso questa Corte ha concluso per il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso non è fondato.
E’ preliminare l’esame della questione relativa alla sussistenza o meno del potere del giudice dell’udienza preliminare di pronunciare sentenza di non luogo a procedere, non solo in presenza della prova certa di una causa che estingue il reato, ma anche in caso di ragionevole dubbio in merito alla causa estintiva.
La sentenza impugnata ha ritenuto che il sistema desumibile dagli artt. 129 e 425 c.p.p. e art. 531 c.p.p., commi 1 e 2, imporrebbe la equiparazione del dubbio alla certezza anche per le fasi processuali precedenti al dibattimento, mentre invece la difesa dei ricorrenti ha rilevato che il dubbio in ordine alle cause di estinzione del reato, nell’attuale ordinamento processuale, autorizzerebbe la sentenza di non doversi procedere soltanto per la fase dibattimentale e non anche per le fasi precedenti per cui non esiste una norma analoga all’art. 531 c.p.p., comma 2, che assimila – soltanto limitatamente al giudizio – il dubbio alla certezza, in considerazione della diversa ampiezza del processo di formazione della prova in dibattimento.
Sul punto occorre subito rilevare che la conseguenza della morte dell’imputato, come causa estintiva del reato, è disciplinata espressamente dall’art. 69 c.p.p. vigente nel senso che il giudice, se risulta la morte, in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza a norma dell’art. 129 c.p.p.. Ciò comporta che il richiamo all’art. 531 c.p.p. con riguardo, in via generale, alle cause estintive del reato non è risolutivo, poichè la morte dell’imputato è disciplinata autonomamente e specificamente, al di fuori delle regole di cui all’art. 531 c.p.p., non solo con riferimento all’obbligo per il giudice di declaratoria immediata in ogni stato e grado del processo, ma anche in relazione alla possibilità – non prevista per le altre cause di estinzione del reato – di nuovo esercizio della azione penale per lo stesso fatto nei confronti della stessa persona, qualora si accerti, anche successivamente alla sentenza dibattimentale, che la morte dell’imputato è stata erroneamente dichiarata, in deroga alla disposizione di cui all’art. 649 c.p.p., in virtù del quale "l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuto irrevocabile non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per lo stesso fatto…. salvo quanto disposto dall’art. 69 c.p.p., comma 2, e art. 345 c.p.p." e cioè per i casi in cui si accerti che l’imputato era stato dichiarato erroneamente morto ovvero sopravvenga la condizione di procedibilità in precedenza non esistente o non rilevata.
Neppure ciò ha peraltro risolto definitivamente il problema, poichè l’art. 129 c.p.p., laddove prevede l’obbligo di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, fra cui quelle estintive del reato, non disciplina poi espressamente il caso del dubbio sulla loro esistenza, per cui occorre ritornare alle regole di giudizio delle singole fasi processuali al fine di verificare che cosa abbia previsto il legislatore ed in particolare se sia vero, come sostenuto dalla difesa dei ricorrenti, che solo nel dibattimento il legislatore avrebbe attribuito importanza al dubbio circa la esistenza di una condizione di procedibilità (art. 529 c.p.p., comma 2) o di estinzione del reato (art. 531 c.p.p., comma 2) ovvero che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato, che il reato è stato commesso da persona imputabile (art. 530 c.p.p., comma 2) o in presenza di una causa di giustificazione (art. 530 c.p.p., comma 3), così da imporre che il procedimento, in caso di dubbio, giunga sempre alla fase dibattimentale onde concedere il massimo spazio alle garanzie difensive delle parti e dare rilievo al dubbio soltanto dopo che alle stesse è stato consentito di esperire tutte le facoltà probatorie previste dall’ordinamento.
Orbene, l’impianto del nuovo codice di procedura penale non consente assolutamente di ritenere che il legislatore abbia voluto prevedere il dibattimento come approdo naturale dei casi di dubbio, poichè ha, al contrario, nell’ottica di una economia processuale e della esigenza di contemperare la obbligatorietà della azione penale con l’obiettivo della ragionevole durata del processo, posto degli sbarramenti precisi, fin dalla fase delle indagini, diretti ad impedire che accedano alla fase successiva quei procedimenti per cui è prevedibile che gli elementi raccolti non consentiranno di giungere alla condanna, attraverso la previsione, per le indagini, della richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero quando ritiene che gli elementi raccolti non consentano di sostenere l’accusa in giudizio (art. 125 disp. att. c.p.p.), per la fase della udienza preliminare, di una analoga disposizione per il caso di contraddittorietà o insufficienza degli elementi acquisiti, comunque ritenuti non idonei a sostenere l’accusa in giudizio (art. 425 c.p.p., comma 3) ed infine, per il giudizio, delle disposizioni che prevedono sempre la pronuncia assolutoria o di non doversi procedere in qualunque caso di dubbio.
Il codice di rito vigente attribuisce quindi rilevanza al dubbio addirittura fin dalla fase delle indagini, traducendo in chiave accusatoria il principio di non superfluità del processo ed imponendo la archiviazione nelle indagini e la sentenza di non luogo a procedere in sede di udienza preliminare qualora sulla base degli elementi acquisiti non sia possibile sostenere la accusa (v. Corte Cost. 15.2.1991 n. 88); il che appare del tutto in linea anche con la regola enunciata nella direttiva n. 50 della Legge Delega n. 81 del 1987 (riprodotta sostanzialmente nell’art. 408 c.p.p.) che prevede la archiviazione solo in caso di manifesta infondatezza della notizia di reato, poichè la insostenibilità della accusa in giudizio è del tutto equiparabile, sul piano processuale, alla infondatezza della notizia di reato.
Quanto poi alla fase delle indagini preliminari, il giudice è ancor più legittimato a muoversi nella prospettiva di probabilità di colpevolezza dell’imputato, così da potere stabilire, con rilevante grado di probabilità logica, se la prospettazione accusatoria sia suscettibile di successo e renda quindi effettivamente utile, in termini di economia processuale, il passaggio alla fase dibattimentale (v. Cass. sez. un. 25.1.2005, p.m. in c. De Rosa).
Il legislatore ha cioè inteso evitare che pervengano alla fase del giudizio situazioni nelle quali risulti con ragionevole probabilità che l’imputato sarà prosciolto, non solo in mancanza di elementi a carico, ma anche in caso di inidoneità delle fonti di prova acquisite ad un adeguato sviluppo probatorio, nella dialettica del contraddittorio processuale. Per il rinvio a giudizio occorrono elementi che si prestino, secondo una inevitabile valutazione prognostica, a soluzioni aperte ovvero ad ulteriori chiarimenti in sede dibattimentale, che rendano, in quanto prospettabili, doverosa la verifica dibattimentale (v. Cass. 30.1.1995, Valle; 9.10.1995, La Penna; 8.11.1996, Tani, rv. 206730); quando invece appaia ragionevolmente prevedibile la impossibilità che in sede dibattimentale possano aggiungersi nuovi elementi non appare, non solo necessaria, ma neppure utile, la verifica dibattimentale (v.
Cass. 5.2.1998, Cito, rv. 209901).
Ciò posto, si tratta ora di verificare se il dubbio derivante in particolare dalla insufficienza o contraddittorietà della prova possa essere utilizzato, nella fase della udienza preliminare, soltanto qualora riguardi la sussistenza, l’elemento psicologico o la commissione del fatto, ovvero possa estendersi anche alle condizioni di procedibilità ed alle cause di estinzione del reato ed in particolare alla morte dell’imputato, ovvero se in tali casi si imponga, come sostiene la difesa dei ricorrenti, il passaggio alla fase dibattimentale per l’accertamento con le piene garanzie dibattimentali della esistenza in vita ovvero della morte dell’imputato.
Questo collegio non ritiene che la regola di giudizio discendente dall’art. 425 c.p.p. consenta una tale distinzione che poi, proprio nel caso di morte dell’imputato, sarebbe del tutto ingiustificata, considerato che l’azione penale, qualora sia successivamente accertato che la morte era stata erroneamente ritenuta, può essere riattivata in ogni momento, senza alcuna preclusione, che invece sussiste nel caso di sentenza di non luogo a procedere, ad esempio, perchè il fatto non sussiste ovvero perchè l’imputato non lo ha commesso o non costituisce reato (art. 650 c.p.p., comma 2), pur essendo prevista in tal caso la revoca della sentenza di non luogo a procedere se sopravvengano nuovi fonti di prova che possano determinare il rinvio a giudizio (art. 434 c.p.p.). E’ vero che anche alla condanna dell’imputato, qualora sia successivamente accertato che invece (Ndr: testo originale non comprensibile) esiste rimedio, in quanto la tardiva conoscenza dell’evento morte può essere paragonata all’errore materiale soggetto alla procedura di correzione di cui all’art. 130 c.p.p., posto che la mancanza del soggetto nei cui confronti si esercita l’azione penale determina la inesistenza giuridica della sentenza per essere il reato estinto per morte del reo (v., per tutte, Cass. sez. 5 n. 5210 del 2006, rv. 233636); però se il dubbio da cui deriva la insostenibilità della accusa in giudizio deve "bloccare" il procedimento fin dalla fase delle indagini sarebbe veramente inspiegabile l’obbligo di portare avanti il procedimento in caso di dubbio addirittura sulla esistenza in vita dell’indagato o imputato, quando la possibilità di riaprire il procedimento, ex art. 69 c.p.p., è massima e cioè svincolata dall’art. 434 c.p.p. ed è per questo previsto dall’ordinamento processuale l’obbligo per il giudice di dichiarare immediatamente la estinzione per tale causa.
A tali fini, in effetti, come rilevato dalla difesa dei ricorrenti, non appare utile il richiamo alla disciplina dell’accertamento della morte dell’imputato previsto dal codice di rito previgente (art. 89) per il caso di dubbio sulla morte dell’imputato, poichè il codice Rocco aveva scelto la sospensione del procedimento, mentre, con il passaggio al sistema accusatorio ed alla regola di economia per cui progrediscono soltanto quei processi che prevedibilmente potranno concludersi con la condanna, la sospensione appare ingiustificata;
però tale rilievo non condivisibile, da parte del provvedimento impugnato, non inficia la validità della decisione che è ancorata agli altri argomenti sopra indicati e che consentono di ritenere che anche il ragionevole dubbio sulla morte dell’imputato debba condurre alla sentenza di non luogo a procedere.
Questo non vuole dire che il giudice non abbia l’obbligo permanente di accertare lo stato in vita dell’imputato, quale presupposto essenziale del processo (v. Cass. Sez. 5 n. 5210 del 13.1.2006, v.
233636); tuttavia tale obbligo non può tradursi in una costante attività di indagine, qualora il giudice abbia ritenuto esplorate tutte le fonti informative, come nel caso in esame in cui la difesa dei ricorrenti non ha comunque indicato la possibilità concreta di nuovi sviluppi ovvero una carenza di indagini rimediabile in qualche modo e su cui, se dedotta, avrebbe potuto porre rimedio anche il giudice dell’udienza preliminare.
D’altronde, stante anche il significato che la giurisprudenza è andata ad attribuire alla espressione dubbio ragionevole risultante dalla modifica legislativa dell’art. 533 c.p.p. ad opera della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 5, è evidente che dubbio ragionevole è quello processualmente ragionevole in quanto la morte dell’imputato, pur se ragionevolmente ritenuta, può poi rivelarsi non veritiera, per cui non vi è necessità del cadavere per affermare la morte, non essendovi necessità del cadavere della vittima neppure per affermare, nel nostro ordinamento, l’omicidio, essendo invece sufficienti una serie di elementi, anche semplicemente indiziari, che consentano di ritenere provata la morte dell’imputato sulla base di un giudizio di ragionevolezza.
Ritenuto quindi che anche il dubbio ragionevole sulla esistenza in vita dell’imputato autorizzi la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, resta ora da verificare se il procedimento seguito dal provvedimento impugnato per ritenere processualmente probabile che l’imputato fosse morto sia logicamente corretto ovvero sia illogico e contraddittorio come sostenuto dalla difesa dei ricorrenti.
Si deve subito escludere che la sentenza impugnata abbia operato un travisamento della prova, poichè, come riconosce anche il ricorso, gli elementi fattuali emersi sono stati rigorosamente riportati dalla sentenza impugnata, che ha valorizzato la mancanza di notizie del Ma. dal (OMISSIS), la comunicazione del servizio di ricerche della Croce Rossa che lo indicava come disperso, la negatività della documentazione USA, francese ed inglese anche in ordine ad una eventuale prigionia di guerra, ma anche la dicitura apposta nel (OMISSIS) sulla scheda matricolare dell’imputato circa il suo stato di prigionia in guerra, ritenuta peraltro erronea dal provvedimento impugnato, per desumerne la esistenza concordante di indizi che dovevano fare ritenere l’imputato ormai deceduto.
Si tratta di motivazione che, attraverso la concatenazione logica degli indizi fornisce la rilevante probabilità, assimilabile alla certezza processuale, della morte dell’imputato, a fronte della quale la ipotesi della prigionia in guerra, pur se astrattamente prospettabile, finisce per soccombere poichè incompatibile con tutti gli altri elementi sopra indicati.
Neppure alla stregua della modifica legislativa dell’art. 606 c.p.p., lett. e), introdotta ugualmente con la L. n. 46 del 2006, sopra citata, si può quindi ritenere illogico o contraddittorio il ragionamento del giudice di merito.
E’ già stato ripetutamente affermato da parte di questa Corte che, allorchè si deduca il vizio di motivazione risultante "dagli atti del processo" non è sufficiente che tali atti siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti o valutazioni del giudice di merito o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudice di merito; occorre invece che gli "atti del processo" su cui fa leva il ricorrente per sostenere la sussistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza dimostrativa e persuasiva tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Ed a tal fine il ricorrente non può limitarsi ad addurre l’esistenza di "atti del processo" non presi in esame esplicitamente nella motivazione della sentenza o di "atti processuali" o "probatori" che non sarebbero stati correttamente o adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve invece individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio emergente da tale atto e che risulta incompatibile con la ricostruzione della sentenza impugnata, dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato nonchè della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda ed infine indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (v. per tutte Cass. sez. 6^ n. 14054 del 2006. Strazzanti).
Orbene, alla stregua di tali principi appare evidente che non solo le argomentazioni – eventualmente non condivisibili – di supporto alla sentenza impugnata (quale quella che ha fatto riferimento all’argomento statistico dei morti in prigionia di guerra ovvero ha richiamato i principio civilistici in materia di morte presunta) denunciate dai ricorrenti, ma anche una diversa interpretazione e valutazione dei dati documentali emersi, restano prive di rilievo, per i fini che qui interessano, laddove non si risolvano in vizi di tale importanza da compromettere in modo decisivo la motivazione della sentenza e cioè da disarticolarla irrimediabilmente dimostrando la presenza al suo interno non già di una diversità o di un errore della valutazione del singolo elemento da quello che potrebbe desumere altro soggetto, bensì della incongruità o della radicale contraddittorietà dell’intero ragionamento svolto dal giudicante e quindi, in sostanza, della assenza della motivazione.
Non si può invero trascurare che la selezione e la valutazione delle prove spetta in via esclusiva al giudice di merito, anche perchè non c’è nessuna prova che abbia un significato isolato, slegato o disancorato dal contesto in cui è inserita e solo il giudice di merito può apprezzarne la valenza attraverso la valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio: con la conseguenza che persiste per la Corte di Cassazione, nonostante la novella legislativa, il divieto di accesso agli atti istruttori che non può essere superato neppure attraverso la trascrizione dei verbali di prova nel ricorso (v. Cass. sez. 5^ n. 18992/2006, Brancatelli), quanto meno nel senso che la Corte di legittimità non potrebbe mai esaminare i singoli atti in modo separato ed atomistico, restando pur sempre il giudizio di cassazione un giudizio di sindacato sulla tenuta della motivazione, cui è preclusa la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa (v. Cass. sez. 6^ n. 14054/2006).
Alla stregua di tali principi appare ancor più evidente che non ogni imprecisione fattuale della sentenza si traduce in mancanza o disarticolazione della motivazione, qualora le imprecisioni addotte non abbiano avuto riflesso sulla motivazione complessiva, la quale non può costituire oggetto di censura, come ha fatto la difesa dei ricorrenti, sotto il profilo che il singolo elemento di fatto potrebbe anche essere letto in modo diverso, bensì soltanto sotto il diverso profilo, non dedotto nel caso in esame, della mancanza di una motivazione effettiva ovvero della contraddizione complessiva interna.
Peraltro, anche non volendo condividere le valutazioni in ordine alla utilizzabilità delle suddette prove, l’impianto probatorio non verrebbe in alcun modo scalfito poichè la sentenza impugnata ha già messo in conto la contraddittorietà fra alcune annotazioni, ma ha poi operato la scelta – del tutto ragionevole – fra quelle ritenute coerenti e processualmente certe.
Il ricorso proposto dalle parti civili deve essere pertanto respinto perchè infondato sotto tutti i profili addotti. Seguono per legge (art. 616 c.p.p.) le statuizioni in punto di spese indicate nel dispositivo.
P.Q.M.
LA CORTE SEZIONE PRIMA PENALE Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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