Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 17-02-2011) 01-06-2011, n. 21837 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 23 aprile 2010 la Corte di Appello di Firenze in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Milano in data 6 ottobre 2005 con la quale J.K., imputato del reato di violenza sessuale (art. 609 bis c.p. – Fatto commesso in (OMISSIS)) in pregiudizio di B.M., era stato ritenuto colpevole del detto reato e condannato alla pena di anni cinque di reclusione oltre le pene accessorie di legge, riduceva la pena inflitta dal primo Giudice – previa concessione delle circostanze attenuanti generiche – ad anni quattro di reclusione e modificava in temporanea la originaria interdizione perpetua dai pp.uu..

In risposta ai quattro motivi specifici di gravame, la Corte territoriale rilevava – con espresso riferimento alla richiesta assolutoria per non avere commesso il fatto – che l’attendibilità intrinseca della persona offesa, ritenuta particolarmente elevata anche, non poteva ritenersi scalfita dalla opposta versione difensiva (definita priva di riscontri ed oltretutto irragionevole), sicchè nessun dubbio poteva profilarsi nè in ordine alla diretta attribuibilità del fatto all’imputato nè in ordine alla effettiva commissione di quel fatto; con riferimento all’invocata circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., u.c., l’inconsistenza delle tesi difensiva a fronte di un fatto oggettivamente grave specie in relazione alle modalità di commissione; con riguardo alla errata applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione, la correttezza delle decisione del primo giudice in stretta correlazione con la ritenuta pericolosità sociale dell’imputato ricavabile da più indici che indicava specificamente.

La Corte territoriale rigettava, infine, in quanto palesemente infondata, la questione di nullità del decreto di citazione a giudizio per mancata notifica dello stesso, sollevata dalla difesa in sede di discussione.

Accoglieva, invece, le doglianze difensive rivolte alla eccessiva severità della pena inflitta che riduceva con coeva modifica della pena accessoria dell’interdizione in perpetuo dai pp.uu. nella interdizione temporanea.

Avverso la detta sentenza ricorre personalmente l’imputato deducendo, in primo luogo, vizio di motivazione – ritenuta illogica, carente e contraddittoria – in punto di valutazione dell’attendibilità della persona offesa e del suo "accompagnatore" (evidenziando a tale proposito che la donna, nell’immediatezza, aveva a costui rivelato l’abuso subito e che questi aveva provveduto ad accompagnare la donna al Commissariato di zona per sporgere querela), lamentando come la Corte avesse erroneamente valutato l’attendibilità della vittima e del suo "accompagnatore".

Lamentava poi, con un secondo motivo, la violazione della legge processuale penale ( art. 603 c.p.p.) per avere la Corte omesso irragionevolmente la invocata rinnovazione parziale del dibattimento al fine di sentire un teste decisivo e per il mancato espletamento di indagine genetica sul DNA: ciò, anche tenuto conto della particolare attività della donna (prostituta) che implicava rapporti con più uomini ed anche in relazione al tempo intercorso tra la data del presunto fatto delittuoso (ore 22 del 26 aprile 1997) e l’ora di proposizione della querela (ore 11 del 27 aprile successivo).

Deduceva, con un terzo motivo, violazione della legge processuale (artt. 526 bis e 512 c.p.p.) in quanto la vittima, presentata la querela, si era poi sottratta al contraddittorio rendendosi irreperibile, sicchè trattandosi di irreperibilità prevedibile (anche perchè il permesso di soggiorno del quale la donna godeva sarebbe venuto in scadenza nel gennaio 1998) ed essendosi per sua libera scelta la donna sottratta al contraddittorio, la querela e le dichiarazioni rese dalla donna nella fase delle indagini preliminari, dovevano ritenersi inutilizzabili.

In ultimo, con altro separato motivo denunciava violazione di legge in relazione alla avvenuta reiezione della questione di nullità legata alla notifica del decreto di citazione a giudizio, rilevando come la Corte non avesse tenuto conto nè della circostanza che il decreto di citazione a giudizio non era stato notificato al domicilio eletto di esso imputato ma anche della circostanza che la notifica era stata effettuata non già presso lo studio del difensore, ma presso un vicino dello stesso.

Il ricorso è infondato.

Ritiene la Corte di dover preliminarmente affrontare – come già avvenuto nel corso del giudizio di appello – la questione attinente alla denunciata nullità della notifica del decreto di citazione a giudizio.

Trattasi di eccezione – come già esaustivamente argomentato dalla Corte milanese – palesemente infondata, non solo per quanto già puntualmente osservato dal detto giudice territoriale ma anche perchè l’atto è stato notificato a soggetto incaricato della ricezione presso lo studio del difensore in quanto collaboratore dello studio, e non a soggetto vicino (e dunque non legittimato), come asseritamente sostenuto dal ricorrente.

Altra questione prospettata dal ricorrente afferisce alla presunta violazione delle norme processuali riguardanti l’utilizzabilità di atti a contenuto dichiarativo provenienti da soggetto divenuto irreperibile e non sottopostosi ad esame.

Prescindendo dalla questione in ordine alla sollevabilità, o meno, in sede di legittimità di una eccezione di tal fatta laddove non rilevata con i motivi di appello, osserva la Corte che nel caso di specie – come meglio si rileverà in prosieguo – gli elementi presi a base dalla Corte per la conferma del giudizio di colpevolezza sono molteplici e non di certo costituiti unicamente dalle dichiarazioni della persona offesa come acquisite in atti. Ed invero, esaminando i motivi di ricorso riguardanti la valutazione delle prove a carico dello J. come effettuata dalla Corte, gli stessi non sono meritevoli di accoglimento. Va premesso che nel caso di specie le parti – come risulta dalla sentenza oggi impugnata – avevano concordato l’acquisizione agli atti dell’intero fascicolo delle indagini preliminari, comprensivo, quindi, non solo della querela sporta dalla vittima (che costituisce condizione di procedibilità sulla cui esistenza non sono state mosse obiezioni di alcun genere), ma anche di altri atti costituenti riscontro estrinseco alle accuse contenute nella querela (circostanza che, di per sè, scolorisce, fin quasi ad eliminarla, la portata della tesi riguardante l’inutilizzabilità processuale delle dichiarazioni della persona offesa sostenuta oggi dal ricorrente): riscontri che consentono di affermare con sicurezza la correttezza e completezza della decisione assunta dalla Corte territoriale.

Invero la stessa ha dato atto dell’esistenza di un riscontro documentale (certificato del presidio ospedaliero) dal significato univoco e tale da corroborare pienamente la denuncia-querela di violenza sessuale presentata alle ore 11,10 del 27 ottobre 1997: è stato infatti evidenziato correttamente come la contestuale sottoposizione della donna a visita medica generale e ginecologica a distanza di alcune ore dal fatto avesse rimarcato la presenza di lesioni che, per natura e localizzazione, erano direttamente riconducibili alla violenza subita. Di tutto ciò la sentenza impugnata, nella misura in cui poi richiama ed amplia i dati probatori già esaurientemente presi in esame dal Tribunale, da atto, con la significativa aggiunta che, tenuto conto dell’attività di meretrice svolta dalla vittima, solitamente i rapporti sessuali intrattenuti con i singoli clienti vengono filtrati attraverso adeguati strumenti di protezione (profilattici): tanto è valso – secondo un ragionamento che, sul piano logico, appare assolutamente appagante – per escludere che la riscontrata presenza di liquido seminale nella vagina fosse attribuibile a soggetti diversi dall’imputato e non, piuttosto, a quest’ultimo individuato quale autore della violenza: il che basta a ritenere corretta ed esaustiva la conclusione cui è razionalmente pervenuta la Corte secondo la quale non appariva nè logico, nè ancor meno provato, che tra il fatto denunciato e le lesioni patite dalla donna vi fosse una interruzione del processo di continuità causale.

Ma le prove prese in esame dalla Corte quali riscontri esterni non sono rappresentate solo dalla certificazione medica che pure è stata ritenuta, ben a ragione, di valenza decisiva, ma anche dalle dichiarazioni rese da tale E.A., l’accompagnatore della donna all’atto in cui la stessa si recò presso gli uffici della Questura di Milano per sporgere denuncia: dichiarazioni dalle quali la Corte ha tratto in modo coerente il convincimento ulteriore della colpevolezza dello J., avendo il teste riferito di essere stato il primo (ed unico) depositario, nella immediatezza del fatto, delle confidenze della donna che gli raccontò della violenza appena subita e della identità dell’aggressore.

Altrettanto corretta appare l’argomentazione della Corte in merito alle inverosimiglianze contenute nelle dichiarazioni difensive dell’imputato in stretta correlazione con il fatto che la tesi difensiva – al di là delle mere asserzioni verbali di alcune circostanze e dei riferimenti a nomi di soggetti a conoscenza dei fatti – era rimasta del tutto priva di riscontri. La censura mossa dal ricorrente in merito alla enfatizzazione degli esiti della certificazione medica non ha ragion d’essere avendo sul punto la Corte convincentemente dato spiegazione delle ragioni per le quali non solo a quelle lesioni corrispondeva una violenza subita, ma soprattutto perchè questa fosse ascrivibile al J. e non ad altri.

Quanto alla censura riguardante la violazione dell’art. 603 c.p.p. per avere la Corte omesso di assumere un testimone fondamentale (tale N.F.) e di espletare indagini sul DNA, a prescindere dal rilevo che – anche in questo caso – si tratta di denuncia di violazione di legge non sollevata con i motivi di appello (essendosi in tale sede la difesa limitata ad evidenziare alcune incertezze probatorie ma senza alcuna sollecitazione rivolta alla Corte affinchè venissero assunte tali prove) – in ogni caso la Corte ha dato risposta a tali quesiti superandoli agevolmente: ed invero, quanto alla necessità di escutere il testimone, la Corte ne ha valutato ben a ragione l’irrilevanza desumendola dalla circostanza sulla quale il teste avrebbe dovuto riferire, di nessuna portata dirimente; e quanto all’esame del DNA lo ha, a ragione, ritenuto implicitamente superfluo, conferendo rilievo a quegli elementi di cui si è detto in precedenza e che sono stati ritenuti troncanti su qualsiasi dubbio relativo alla attribuibilità del fatto allo J..

Prive di fondamento risultano poi le censure espresse in merito alla omessa o illogica o contraddittoria motivazione in merito alla credibilità delle accuse promananti dalla persona offesa, avendo, anche in questo caso, la Corte di Appello espresso in modo convincente, se non addirittura più intenso di quanto già esposto nella sentenza del Tribunale, il giudizio di piena attendibilità della vittima, rispettando i canoni giurisprudenziali riguardanti l’intrinseca credibilità della vittima di abusi sessuali (coerenza, precisione, costanza e genuinità del racconto).

Ed anzi, mostrando di voler dare un peso non esclusivo alle dichiarazioni della vittima, la Corte territoriale ha passato in rassegna anche elementi di riscontro esterno – pur non essendovene una necessità assoluta – che nell’economia del giudizio hanno finito con l’assumere una incidenza tutt’altro che trascurabile.

Peraltro, nei termini in cui i rilievi difensivi risultano esposti con riguardo al motivo della illogicità e carenza motivazionale in punto di ascrivibilità del fatto all’imputato e di ritenuta inattendibilità dell’alibi da costui offerto, essi implicano, in realtà, una sostanziale rilettura in chiave alternativa degli atti processuali preclusa nel giudizio di legittimità, che non consente di esaminare il c.d. "travisamento del fatto" (Cass. Sez. 4A 17.5.2006 n. 4675, P.G. in proc. c. Bartalini ed altri; Rv. 235656).

Come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, il denunciato vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi – come preteso dalla difesa del ricorrente – alla indicazione di atti del processo non correttamente o adeguatamente interpretati dal giudicante, essendo preciso onere del ricorrente – pena l’inammissibilità della impugnazione – quello di individuare quegli elementi o dati probatori che risultano inconciliabili con la ricostruzione svolta nella sentenza e soprattutto, quello di indicare le ragioni per le quali l’atto asseritamente non esaminato comprometta la coerenza logica della motivazione (v. da ultimo, Cass. Sez. 6A 2.12.2010 n. 45036, Damiano, Rv. 249035).

Tenuto conto dei principi sopra enunciati, è palese che nel caso in esame la Corte di Appello si è scrupolosamente attenuta a tali regole interpretative.

Alla stregua di tali considerazioni il ricorso va rigettato. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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