Cass. civ. Sez. III, Sent., 04-10-2011, n. 20287 Responsabilità civile per ingiurie e diffamazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza 16 gennaio-25 febbraio 2008 la Corte di appello di Milano riformava la decisione del locale Tribunale del 7-15 aprile 2003, condannando il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti di Milano, il Presidente dello stesso ed i Consiglieri, A.F., S.V., S.A., F.G.L. e M.G., al pagamento della somma di Euro 40.000,00 in favore del giornalista R.G., a titolo di risarcimento danni per diffamazione, per avere con Delib. Consiglio dell’Ordine 22 novembre 1993, dichiarato di volersi riservare "di valutare in un secondo tempo i giudizi espressi da R.G. per iscritto su Z.R. al fine di minarne la credibilità come testimone".

Il R., nella qualità di caposervizio di Finanza e Mercati presso la redazione del quotidiano "Il sole 24 ore" era stato indicato come teste dalla difesa del giornalista D.P. O., sottoposto con altri giornalisti a procedimento disciplinare su richiesta della Procura generale della Repubblica di (OMISSIS).

Lo stesso R. aveva fatto pervenire al Consiglio dell’Ordine in data 4 ottobre 1993 una memoria scritta, relativa ai fatti dibattuti.

A seguito del procedimento disciplinare, il D.P. – accusato di comportamento deontologicamente scorretto tenuto nei confronti di alcuni colleghi, in particolare verso B.R. – era stato radiato dall’albo professionale.

Il Consiglio dell’Ordine si era riservato di esaminare in un secondo tempo i giudizi espressi da R. per iscritto sulla Z., al fine di minarne la credibilità come testimone.

R. era prima stato sottoposto a censura dal Consiglio Regionale e quindi completamente scagionato da ogni addebito dal Consiglio Nazionale dei giornalisti.

Del preannuncio dell’instaurando procedimento disciplinare a carico del R., comunque, era stata data ampia notizia sui giornali di categoria.

Tanto premesso in punto di fatto, i giudici di appello osservavano che il Consiglio dell’ordine era del tutto libero di valutare a sua discrezione la memoria presentata dal R., eventualmente anche ravvisando nelle espressioni usate gli estremi di aggressioni verbali, gratuite ed immotivate, nei confronti della Z..

Tuttavia, ad avviso della Corte territoriale, lo stesso Organo non poteva anticipare un giudizio evidentemente denigratorio nei confronti del R., dando per scontato ciò che avrebbe dovuto – semmai – costituire oggetto della indagine da svolgersi in sede disciplinare e nel contraddittorio tra le parti (vale a dire "se ed eventualmente in qual misura, i giudizi espressi da quest’ultimo ( R.) fossero o meno volti a ledere la dignità professionale della collega Z.").

La formulazione di una espressa riserva di azione disciplinare contro il R. in relazione ai giudizi da questi espressi in merito alla credibilità della teste, B. aveva fatto si che le garanzie minime indispensabili per la irrogazione delle sanzioni all’esito dei procedimenti disciplinari non fossero state minimamente rispettate.

Con la conseguenza che al R. doveva essere riconosciuta la somma sopra indicata a titolo di risarcimento del danno all’immagine, a carico di tutti gli originar convenuti.

I ricorrenti A.F., S.V., S.A., F.G.L. e M.G. hanno proposto ricorso per cassazione sorretto a cinque motivi, cui resiste il R. con controricorso, illustrato da memoria. Gli altri intimati non hanno svolto difese.
Motivi della decisione

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano vizi di motivazione (violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) sottolineando il parallelismo tra giudizio ordinario e procedimento disciplinare risultante anche da alcune pronunce della Corte Costituzionale.

Gli stessi ricorrenti rilevano che il provvedimento del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia "si riserva di valutare in un secondo tempo i giudizi espressi da R.G. per iscritto su Z.R. al fine di minarne la credibilità come testimone" costituiva niente più che un atto dovuto, espressione di una potestà di diritto pubblico di cui è titolare il magistrato ordinario nella ipotesi in cui vengano in evidenza fatti di rilievo penale e il giudice disciplinare nella ipotesi in cui dal giudizio disciplinare dovessero emergere fatti meritevoli di esame.

Il secondo motivo denuncia sotto altro profilo vizi della motivazione (con violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Il provvedimento del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti sopra indicato doveva considerarsi valido, legittimo e incensurabile, anche perchè funzionale, pertinente e non trasbordante dai limiti della doverosa motivazione.

Il provvedimento contestato costituiva semplicemente espressione dell’esercizio del potere disciplinare, attribuito dalla L. 3 febbraio 1963, n. 69, art. 11, al Consiglio dell’ordine dei giornalisti. Il terzo motivo, infine, pone in evidenza che il provvedimento contestato costituiva adempimento di uno specifico dovere imposto da una norma di legge ( art. 51 c.p.) con la conseguenza che doveva escludersi qualsiasi carattere di antigiuridicità dello stesso.

Osserva il Collegio: i primi tre motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, sono fondati nei limiti di seguito indicati.

La Corte territoriale, infatti, ha ritenuto gravemente diffamatorio un comportamento tenuto dal Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti per avere nel provvedimento di adozione del provvedimento a carico del giornalista D.P., espresso riserva di esaminare in un secondo tempo i giudizi che erano stati espressi da R.G. su altra giornalista Z.R., la quale aveva reso la sua testimonianza, "al fine di minarne la credibilità come testimone".

Ad avviso del Collegio, i giudici di appello non hanno esaminato la vicenda sottoposta al loro esame sotto il profilo dell’eventuale scriminante di cui all’art. 51 c.p. (quella dell’esercizio di un diritto o adempimento di un doverè).

I ricorrente hanno precisato che tale riserva costituiva semplicemente atto prodromico alla eventuale apertura di un procedimento disciplinare a carico del R.. E che dunque la stessa doveva ritenersi necessitata, in conseguenza dei poteri disciplinati affidati al Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti.

Tale profilo della questione non è stato minimamente affrontato dalla Corte territoriale, la quale invece ha preferito soffermarsi su altri aspetti, del tutto marginali se non addirittura irrilevanti ai fini della decisione.

1) Ad avviso del Collegio costituisce circostanza del tutto ininfluente, sotto tale aspetto, l’esito del procedimento disciplinare svoltosi a carico del R., il quale (come ricorda lo stesso controricorrente, dapprima sanzionato dal Consiglio dell’Ordine della Liguria con la censura, era stato definitivamente scagionato da ogni addebito in sede di Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (il riferimento al Consiglio Forense, contenuto a pag. 3 della sentenza impugnata deve ritenersi evidente refuso dell’estensore).

2) Le osservazioni formulate dalla stessa Corte in ordine alla inutilità della formulazione – in via preventiva – di un capo di incolpazione in relazione al comportamento addebitato al R. ("i giudizi espressi da R.G. per iscritto su Z. R., al fine di minarne la credibilità come testimone") non colgono nel segno, poichè le stesse non colgono la portata e il contenuto dell’esercizio del potere disciplinare da parte del Consiglio dell’Ordine.

3) Analogamente deve dirsi per la qualificazione di "non indispensabilità" della riserva espressa dal Consiglio dell’Ordine di valutare in un secondo momento i giudizi espressi per iscritto dal R. nei confronti della giornalista Z..

Si tratta, sempre ad avviso del Collegio, di aspetti del tutto marginali se non addirittura fuorvianti rispetto al nocciolo della questione, rimasto irrisolto anche a seguito della decisione di appello.

Sarebbe stato preciso onere dei giudici di merito stabilire se la riserva espressa dal Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti potesse trovare giustificazione nel procedimento adottato nei confronti del D.P. e nella apertura di nuovo procedimento disciplinare a carico del R..

A tale interrogativo non è data risposta alcuna nella sentenza impugnata, che si è limitata ad equiparare peraltro senza motivazione alcuna – la riserva espressa dal Consiglio dell’Ordine di procedere eventualmente a carico del giornalista R. ad una definitiva sua condanna, senza contraddittorio.

Tale argomentazione prova troppo ed ha, soprattutto, il difetto di equiparare una condanna all’avvio di un atto (dovuto) di contestazione di addebito in sede disciplinare.

In realtà, l’addebito rilevato dai giudici di appello al provvedimento del Consiglio dell’Ordine consiste nell’aver formulato sia pure genericamente – il "capo di imputazione" del quale il R. avrebbe potuto essere chiamato a rispondere in sede disciplinare, nel caso in cui la istruttoria del procedimento disciplinare avesse portato ad un risultato passibile di sanzione. In buona sostanza, l’unico addebito rivolto al Consiglio del’Ordine consiste nel fatto di avere "formalizzato" l’eventuale "capo di imputazione" che avrebbe potuto essere mosso al giornalista R., e di avere dato pubblicità a tale notizia, nel provvedimento disciplinare adottato a carico del giornalista D. P..

Tuttavia, e anche sotto tale profilo si ravvisa il denunciato vizio di motivazione, i giudici di appello non hanno spiegato per quale ragione tale comportamento potesse costituire quasi una anticipazione del futuro giudizio e non hanno tenuto conto del fatto che il Consiglio dell’Ordine è tenuto per legge (n. 69 del 1963) ad esercitare il potere disciplinare nei confronti di tutti gli iscritti.

Seguendo il ragionamento svolto dalla Corte territoriale e fatte gli opportuni adattamenti a quanto accade nell’ambito del giudizio penale, dovrebbe concludersi che la richiesta dell’invio degli atti formulata in udienza dal Pubblico Ministero per l’eventuale esercizio dell’azione penale a carico di un imputato del dibattimento (per fatti non contestati) ovvero per procedere a carico di altro soggetto, non coinvolto in quel giudizio, costituirebbe sempre indebita anticipazione del giudizio, in quanto contenente una, sia pur implicita, affermazione della responsabilità penale annunciata ancor prima di qualsiasi accertamento, necessariamente da svolgersi nel contraddittorio tra le parti.

La argomentazione – del tutto infondata – non necessita di espressa confutazione.

In sostanza, può concludersi che, nel caso di specie, è mancata qualsiasi indagine, da parte della Corte territoriale, in ordine all’applicabilità dell’art. 51 c.p., all’esercizio del potere disciplinare da parte del competente Consiglio dell’Ordine. In altre parole i giudici non hanno affrontato il tema della possibile ricorrenza di una esimente applicabile anche in sede civile nel giudizio di risarcimento danni per diffamazione (Cass. 8 aprile 2003 n. 5505).

L’accoglimento dei primi tre motivi di ricorso comporta la cassazione della sentenza impugnata, con assorbimento degli altri motivi che riguardano la pubblicità data alla decisione del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti del 22 novembre 1993 – contenente la "riserva" di trasmissione degli atti per gli accertamenti sulla correttezza della memoria inviata dal R. in data 15 ottobre 1993 – ed il procedimento seguito dai giudici di appello per la quantificazione del danno.

Conclusivamente il ricorso deve essere accolto, con rinvio ad altro giudice che procederà a nuovo esame, alla luce dei principi sopra indicati, provvedendo anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, secondo e terzo motivo di ricorso (assorbiti il quarto e quinto motivo).

Cassa in relazione alle censure accolte e rinvia anche per le spese dinanzi alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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