Cass. pen., sez. V 21-10-2008 (02-10-2008), n. 39432 Falsificazione di alcune pagine di una memoria redatta dal proprio difensore – Falso innocuo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

RILEVATO IN FATTO
– Che con sentenza in data 26 maggio 2005 il tribunale di Como, per quanto qui ancora all’interesse, giudicando su imputazione di falso in scrittura privata mossa a T.A. e T. G. per avere, secondo l’accusa, in concorso tra loro, falsificato alcune pagine di una memoria di replica redatta dall’avv. V.L., da cui erano assistiti in una causa civile, sostituendole a quelle originali e quindi provvedendo al deposito dell’atto presso la cancelleria del tribunale di Como, sezione distaccata di Erba, dichiarò la penale responsabilità del primo di detti imputati, mandando invece assolto l’altro con la formula "non aver commesso il fatto";
– che, proposto appello dal pubblico ministero, dalla costituita parte civile avv. V. e dagl’imputati, la Corte d’appello, con la sentenza di cui in epigrafe, in accoglimento del gravame della parte pubblica, dichiarò la penale responsabilità anche di T.G., confermando nel resto la sentenza di primo grado;
– che avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per Cassazione, con atto a propria firma, entrambi gl’imputati, lamentando, in sintesi e, in linea di massima, nell’ordine che segue:
– – il mancato riconoscimento dell’inammissibilità dell’appello proposto dal pubblico ministero e, conseguentemente, anche di quello proposto dalla parte civile, a seguito della nuova formulazione dell’art. 593 c.p.p. introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46 ed anche in considerazione, con specifico riferimento all’appello del pubblico ministero, di quelle che sarebbero state le "difformità delle modalità di presentazione rispetto ai requisiti di cui all’art. 582 c.p.p., comma 1";
– il mancato riconoscimento dell’improcedibilità dell’azione penale:
– 2/a) per difetto dell’attestazione della data di presentazione della querela, quale prevista dall’art. 337 c.p.p., comma 4; – 2/b) per intervenuta rinuncia all’esercizio del diritto di querela, quale sarebbe stata desumibile dal fatto che l’avv. V., secondo quanto da lui stesso dichiarato, pur avendo avuto notizia della pretesa, parziale falsificazione della memoria da lui redatta nel pomeriggio dello stesso giorno in cui la stessa era stata depositata in cancelleria, ed avendone poi avuto conferma il giorno successivo, mediante diretto esame del fascicolo processuale, aveva lasciato che la memoria anzidetta producesse gli effetti che poteva produrre, decidendosi a presentare la querela solo dopo l’avvenuta pubblicazione della sentenza che decideva la causa civile;
– il mancato ed ingiustificato accoglimento, all’udienza del 21 gennaio 2008, in cui era stato celebrato il giudizio d’appello, della richiesta di rinvio fatta pervenire dal difensore di fiducia, avv. Macchi Alessandro, per impossibilità assoluta di quest’ultimo a comparire, in conseguenza di iperpiressia da faringite acuta, documentata da apposito certificato medico;
– la nomina, nella predetta occasione, di un difensore d’ufficio in persona dell’avv. Marco Sommaria, di Pavia, casualmente presente, senza l’osservanza delle condizioni e delle procedure di cui all’art. 97 c.p.p. e senza la concessione di un adeguato termine a difesa;
– il mancato ed ingiustificato accoglimento, nel corso del giudizio di primo grado, all’udienza del 24 gennaio 2004, della richiesta di rinvio per precedente, documentato impegno professionale, inviata via fax dall’avv. Marco Rigamonti, nominato d’ufficio a seguito della rinuncia al mandato, in quella stessa udienza, dell’allora difensore di fiducia, avv. Pierluigi Cazzetta;
– – l’ingiustificato intervento del presidente della Corte d’appello che, avendo gl’imputati chiesto ed ottenuto di rendere dichiarazioni ai sensi dell’art. 494 c.p.p., aveva quasi subito, su richiesta della difesa di parte civile, tolto loro la parola;
– – l’ingiustificato diniego opposto dal tribunale, nel corso del giudizio di primo grado, all’udienza del 25 gennaio 2005, alla richiesta degl’imputati di esaminare direttamente il perito ed i testi, come consentito – si sostiene – in base all’art. 111 Cost. ed all’art. 526 c.p.p., comma 1 bis;
– la mancata ammissione o la revoca dell’ammissione dei testimoni indicati dalla difesa a sostegno dell’alibi addotto dagl’imputati, come pure dell’ammissione, quale teste indicato dal pubblico ministero, del cancelliere che avrebbe dovuto riferire "circa l’identità di chi avesse effettivamente depositato l’atto incriminato e circa la reale consistenza dell’atto originariamente depositato", avendo i giudici ritenuto sufficienti, ai fini dell’affermazione di colpevolezza, le sole dichiarazioni della persona asseritamente offesa, avv. V., e della sua segretaria, sig.ra M., unitamente alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, affidata a persona rivelatasi, però – si afferma ~ del tutto priva delle più elementari cognizioni in materia grafologica; consulenza che, peraltro, secondo la Corte d’appello, sarebbe stata addirittura pleonastica, a fronte degli altri elementi sopraindicati; e ciò in presenza – si aggiunge – di plurimi elementi dimostrativi invece dell’inaffidabilità dell’avv. V., quali costituiti, ad esempio, dall’evidente mendacio in cui questi sarebbe caduto, sostenendo che sarebbe esistito un solo ed unico originale della memoria in questione, consegnato in sua assenza dalla segretaria di studio ai T. perchè provvedessero al deposito, nonostante che un tale assunto trovasse smentita nella riscontrata esistenza di differenze, quanto al numero delle pagine ed ai contenuti, fra le varie copie di detta memoria prodotte in atti, in tempi diversi, dallo stesso avv. V.;
– l’indebita revoca del disposto esame del consulente grafologico di parte nominato dalla difesa, motivata dal giudice di prime cure con la mancata formulazione di osservazioni scritte nel temine assegnato dal perito d’ufficio, non considerando però che quest’ultimo – si afferma – non aveva "fornito al consulente di parte la documentazione utilizzata per le operazioni peritali" ed aveva poi, peraltro, chiesto ed ottenuto una proroga, per cui si era realizzata – si afferma ancora – "una profonda disparità di trattamento" ai danni del consulente di parte; al che – si aggiunge -avrebbe fatto seguito anche una violazione del diritto di difesa per la mancata comunicazione, da parte del perito, della data della seconda sessione peritale ai difensori degl’imputati;
– l’avvenuto affidamento dell’incarico peritale a persona non munita di specifico titolo di studio abilitante e non iscritta, con il cognome da essa declinato (dott.ssa C.S.), all’albo dei consulenti grafologici del tribunale, ma iscritta al medesimo albo, secondo l’apodittica e incontrollabile affermazione del giudice di prime cure, con un cognome diverso;
– la ritenuta affidabilità delle conclusioni peritali, nonostante che, in contrasto con una regola basilare richiamata dallo stesso perito, l’esame grafologico fosse stato condotto non su una scrittura originaria ma su di una copia fotostatica trasmessa via fax;
– il mancato sequestro dell’originale della memoria asseritamente falsificata, con conseguente indebita instaurazione del procedimento penale sulla base di una copia neppure autenticata;
– il mancato riconoscimento della prospettata innocuità del preteso falso, non avendo esso prodotto danno alcuno all’avv. V. ed avendo ad oggetto un atto che, per sua natura, non ha valenza probatoria;
– la ritenuta responsabilità concorsuale del T.G. sulla sola base – si sostiene – del rapporto di fratellanza con il T.A., indipendentemente dall’accertamento di chi avesse materialmente provveduto al deposito dell’atto;
– il difetto di correlazione tra accusa e sentenza, essendo stata affermata la responsabilità degl’imputati anche con riguardo alla pretesa falsificazione dell’esemplare della memoria in questione rimasto per anni in possesso di certo avv. C. e poi acquisito solo a dibattimento iniziato; acquisizione da riguardarsi peraltro come illegittima, in quanto effettuata in violazione dell’art. 430 c.p.p. e dell’art. 18 reg. att. c.p.p. per non essere stato il documento messo immediatamente a disposizione della difesa;
– – la mancata rilevazione dell’inutilizzabilità delle deposizioni dei testi del pubblico ministero in quanto – si afferma – "ammessi ed escussi sulla scorta di citazione testi del P.M. per la quale è stata eccepita tempestivamente la insanabile falsità materiale ed ideologica alla prima udienza 27/10/2003 del giudizio di primo grado"; falsità alla quale il giudice di prime cure avrebbe inteso porre rimedio mediante "ordinanza di sanatoria "ora per allora";
– – la mancata rilevazione della nullità dell’ordinanza 24 maggio 2004 di ammissione del fascicolo per il dibattimento atteso che questo – si afferma – "non risulta formato dal P.M.";
– – l’indebita utilizzazione, ai fini dell’affermazione, in secondo grado, della penale responsabilità di T.G., dei risultati dell’istruttoria relativa ad altro episodio di falso, originariamente contestato al capo b) dell’imputazione, per il quale vi era stata declaratoria di improcedibilità per tardività della querela;
– la violazione del diritto di difesa derivata dal non avere – si afferma – "il giudice di primo grado disposto la trascrizione della discussione ma avere limitato l’attività stenotipia, pur disposta, solo alla registrazione della cassetta audio con ordinanza all’ud. 09- 05-2005";
– la violazione dell’art. 533 c.p.p. costituita dal non essere stata osservata, nella decisione adottata, la condizione che la colpevolezza risulti provata "al di là di ogni ragionevole dubbio";
– – l’ingiustificato diniego della conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, in relazione a quello che sarebbe stato indebitamente qualificato come "accanimento difensivo" degl’imputati;
– che i ricorrenti hanno successivamente depositato, in data 1 ottobre 2008, un’ampia memoria, corredata di allegati, contenente ulteriore illustrazione delle già rassegnate ragioni di doglianza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
– che il ricorso (tenendo conto anche della successiva memoria) non appare meritevole di accoglimento e presenta, anzi, in diverse delle sue articolazioni, profili di inammissibilità; e ciò in quanto:
a) la pretesa inammissibilità dell’appello del pubblico ministero in conseguenza della nuova formulazione dell’art. 593 c.p.p. introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 1 e della disciplina transitoria detta dalla citata legge, art. 10 è chiaramente insussistente, atteso che, alla data di pronuncia della sentenza d’appello, era già intervenuta (elemento che risulta del tutto ignorato nel ricorso) la sentenza n. 26/2007 della Corte costituzionale, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale della L. n. 46 del 2006, art. 1, nella parte in cui, dettando la nuova formulazione dell’art. 593 c.p.p., aveva escluso la possibilità di appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento, nonchè della L. n. 46 del 2006, art. 10, nella parte in cui prevedeva che gli appelli proposti prima della sua entrata in vigore dal Pubblico Ministero avverso sentenze di proscioglimento fossero dichiarati inammissibili;
b) l’assunto secondo cui l’appello del Pubblico Ministero sarebbe stato da dichiarare comunque inammissibile per le non meglio precisate "difformità delle modalità di presentazione rispetto ai requisiti di cui all’art. 582 c.p.p., comma 1", appare del tutto apodittico e generico, con conseguente inammissibilità della relativa doglianza;
c) l’appello della parte civile (peraltro rivelatosi del tutto privo di effetti, atteso il rigetto, in primo ed in secondo grado, delle richieste risarcitorie avanzate nei confronti degl’imputati), sarebbe stato comunque ammissibile, ai sensi dell’art. 576 c.p.p., sia prima dell’entrata in vigore della L. n. 46 del 2006 (allorchè la parte civile poteva avvalersi del "mezzo previsto per il pubblico ministero"), sia dopo l’entrata in vigore di detta legge, la quale, nel modificare, alla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 6, il citato art. 576 c.p.p., ha lasciato intatta la facoltà di impugnazione della parte civile, limitandosi ad escludere che questa potesse avvalersi solo del mezzo previsto per il Pubblico Ministero; e, a conferma di ciò, giova ricordare quanto affermato da Cass. S.U. 29 marzo – 12 luglio 2007 n. 27614, PC in proc. Lista, RV 236539, secondo cui: "Anche dopo le modificazioni introdotte dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 6 all’art. 576 c.p.p., la parte civile ha facoltà di proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado. V. Corte cost., 6 febbraio 2007 n. 32";
d) la doglianza circa la mancata attestazione della data di presentazione della querela aveva già avuto adeguata risposta nella sentenza di primo grado, in cui risulta posto in luce (pag. 33) come, trattandosi di fatto avvenuto il (OMISSIS), del quale l’avv. V. aveva avuto presumibilmente contezza il giorno successivo, allorchè si era recato presso la cancelleria della sezione distaccata di Erba per visionare, anche ad altri fini, il fascicolo, la tempestività della querela rispetto al termine di cui all’art. 124 c.p. (alla cui verificabilità è da ritenersi esclusivamente finalizzato, in parte qua, il disposto di cui all’art. 337 c.p.p., comma 4) risultava comunque dimostrata dal fatto che prima del decorso di detto termine, e precisamente in data 14 dicembre 2001, erano state emesse le informazioni di garanzia nei confronti dei querelati; argomentazione, questa che, nei motivi d’appello (come, del resto, in quelli di ricorso) risulta del tutto ignorata, risultando, in particolare, dall’atto d’appello (pag. 16, punti 171-173) che l’appellante si era limitato ad affermare, con riguardo alla querela che "la stessa è stata redatta in data 4 dicembre 2001 ma non si sa quando è stata depositata; il verbale di asseverazione è infatti privo di data; consegue a quanto sopra, in forza del principio in dubio pro reo, l’improcedibilità per tardività della querela"; e, a fronte di una doglianza così manifestamente priva del necessario carattere di specificità, quale previsto dall’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), (la cui mancanza è riscontrabile, come affermato, fra le altre, da Cass. 3, 6 luglio – 25 settembre 2007 n. 35492, Tasca, RV 237596, secondo cui, "anche nel caso di mancata correlazione tra i motivi posti alla base del gravame e quelli posti dal giudice censurato alla base della propria motivazione"), veniva ovviamente meno anche il dovere del giudice d’appello di fornire specifica motivazione a sostegno del suo mancato accoglimento;
e) l’assunto secondo il quale l’avv. V., avendo lasciato che l’atto parzialmente falsificato producesse gli effetti che poteva produrre, astenendosi dal presentare querela immediatamente dopo l’asserita scoperta della falsificazione, avrebbe per ciò stesso tacitamente rinunciato ad esercitare il diritto di querelarsi, appare del tutto privo di giuridico fondamento, non potendosi in alcun modo sostenere che la suddetta condotta equivalesse al compimento di "fatti incompatibili con la volontà di querelarsi", quali previsti dall’art. 124 c.p., comma 3, atteso che la manifestazione o meno di una tale volontà risponde a valutazioni di interesse e di opportunità rimesse esclusivamente alla discrezionalità della persona offesa, la quale ben può, quindi, sul momento, ritenere non conveniente la presentazione della querela, pur nella consapevolezza che il reato commesso in suo danno possa produrre ulteriori conseguenze, e successivamente, a suo insindacabile giudizio, maturare la decisione di chiedere la punizione del colpevole, alla sola condizione che non sia decorso il termine fissato dalla legge;
f) il mancato accoglimento della richiesta di rinvio avanzata all’udienza d’appello del 21 gennaio 2008 per allegato impedimento, dovuto a malattia, del difensore avv. Macchi (la cui nomina era stata formalizzata in apertura della stessa udienza) appare più che giustificato (come si evince dalla lettura del verbale, cui la Corte ha ritenuto di dover accedere, atteso che quello denunciato sarebbe, se sussistente, un vizio "in procedendo"), avuto riguardo al fatto che la suddetta richiesta (sottoscritta dal difensore e prodotta dagl’imputati) era sostenuta dalla produzione di certificazione medica attestante soltanto la presenza di "faringite acuta" e l’avvenuta prescrizione di alcuni farmaci, senza indicazione nè della eventuale presenza di alterazione febbrile (di cui era menzione soltanto nel testo della richiesta medesima) nè della necessità assoluta di riposo e cura per un qualsivoglia periodo di tempo, di tal che ben a ragione poteva ritenersi, così come ha in effetti ritenuto la Corte d’appello, che non si fosse in presenza di un impedimento assoluto a comparire;
g) dal suddetto verbale di udienza risulta che l’avv. Sommariva si era egli stesso proposto, a seguito della mancata comparizione dell’avv. Macchi, come difensore d’ufficio, facendo presente di essere iscritto all’apposito albo dei difensori d’ufficio (circostanza che non risulta in alcun modo smentita o posta in dubbio), di tal che non si vede quale fondamento possa avere la dedotta eccezione di nullità, nulla rilevando, in particolare, che il suddetto legale fosse iscritto all’ordine degli avvocati di Pavia, posto che l’elenco di cui all’art. 97 c.p.p., comma 2, è strutturato su base corrispondente a quella del distretto di Corte d’appello, e il circondario di Pavia fa parte del distretto della Corte d’appello di Milano; e ciò a prescindere dal rilievo che, secondo il costante orientamento di questa Corte, anche la designazione, quale difensore d’ufficio in luogo del difensore di fiducia regolarmente avvisato e non comparso, di un legale non iscritto nell’apposito elenco di cui all’art. 97 c.p.p., comma 2, non da luogo ad alcuna nullità (in tal senso: Cass. 1, 9 maggio – 4 luglio 2006 n. 22934, Contorno, RV 235235; Cass. 5, 20-30 settembre 2005 n. 35178, Randis, RV 232569;
Cass. 3, 18 febbraio – 25 marzo 2004 n. 14742, Maiorana, RV 228528), così come non da luogo ad alcuna nullità la nomina di un difensore di fiducia in persona di legale iscritto nell’elenco di un distretto di Corte d’appello diverso da quello cui appartiene l’autorità giudiziaria procedente (così Cass. 6, 15 dicembre 2003 – 16 febbraio 2004 n. 6089, Amirante, RV 227649);
h) sempre dal verbale di udienza del 21 gennaio 2008, in cui è indicato come orario di apertura quello delle ore 9.40, risulta che all’avv. Sommaria venne concesso, su sua richiesta, un termine a difesa fino alla fine dell’udienza, e che il processo venne richiamato alle ore 13.37, dopodichè avendo il suddetto difensore chiesto un ulteriore termine, reputando insufficiente quello di cui aveva finito, detta richiesta venne respinta dalla Corte, sul rilievo che ad un tale ulteriore termine la difesa non avrebbe avuto diritto;
il che, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, non presta il fianco a censura alcuna, avuto riguardo, anche in questo caso, al costante orientamento di questa Corte, secondo cui è addirittura da escludere che abbia diritto alla concessione di un termine a difesa, quale che esso sia, il difensore nominato come sostituto del titolare, non reperito o non comparso, spettando un tale diritto solo al difensore nominato a seguito della cessazione definitiva dall’ufficio del precedente difensore, per rinuncia, revoca, incompatibilità o abbandono (così, in particolare, Cass. 2, 5 giugno – 6 luglio 2007 n. 26298, Palmiero ed altro, RV 137152; nello stesso senso, fra le altre, Cass. 2, 10 gennaio – 8 febbraio 2007 n. 5605, Commisso, RV 236123);
i) la pretesa nullità incorsa nel giudizio di primo grado, all’udienza del 24 gennaio 2004, oltre che non più deducibile in questa sede, trattandosi (in ipotesi) di nullità a regime intermedio e non risultando essa riproposta nei motivi d’appello, appare comunque del tutto inconsistente, alla luce di quanto risulta rappresentato nello stesso atto di ricorso, secondo cui, essendo in detta udienza intervenuta la rinuncia al mandato difensivo del T.G. da parte dell’avv. Pierluigi Cazzetta ed essendo stato, nel contesto, nominato difensore di fiducia, l’avv. Rigamonti Marco, al momento assente, il quale aveva comunicato, via fax, il proprio impedimento a comparire a cagione di un precedente impegno professionale, il tribunale aveva escluso l’idoneità di detto impedimento a giustificare il rinvio del processo, nominando quindi un difensore d’ufficio al quale aveva concesso termine a difesa, con avvertenza che la rinuncia al mandato da parte dell’avv. Cazzetta avrebbe avuto effetto soltanto una volta decorso il suddetto termine;
procedimento, questo, del quale invano si rappresenta la pretesa contrarietà all’art. 420 ter c.p.p. (oltre che, incomprensibilmente, all’art. 549 c.p.p., pur trattandosi, a dire dello stesso ricorrente, di fatti incorsi nel giudizio di primo grado), dal momento che la rappresentata esistenza, da parte di un difensore, all’atto della nomina intervenuta in udienza) di un impedimento costituito da un precedente impegno professionale non può, per sua stessa natura, giustificare il rinvio del procedimento, trattandosi di impedimento che lo stesso difensore era, ovviamente, ben in grado di conoscere all’atto in cui accettava la nomina;
j) l’art. 494 c.p.p., comma 1, nella sua ultima parte, facoltizza espressamente il presidente a togliere la parola, dopo averlo ammonito, all’imputato che, nel corso delle sue dichiarazioni, non si attenga all’oggetto dell’imputazione, di tal che l’avvenuto esercizio di detta facoltà non può certo costituire valido motivo di ricorso per Cassazione, in assenza (come di verifica nella specie) di qualsivoglia elemento dimostrativo della pretesa ingiustificatezza dell’intervento presidenziale;
k) il mancato accoglimento, nel corso del giudizio di primo grado, secondo quanto rappresentato nel ricorso, della richiesta degl’imputati di formulare direttamente e personalmente domande ai testimoni ed al perito trova piena giustificazione nell’attuale assetto normativo che, tanto per l’esame dei testimoni, disciplinato dall’art. 498 c.p.p., quanto per quello dei periti, disciplinato dall’art. 501 c.p.p. (che richiama le disposizioni sull’esame dei testimoni), prevede che le domande siano rivolte soltanto dal pubblico ministero e dai difensori; il che, manifestamente, non si pone in contrasto con l’art. 111 Cost. (evocato nel ricorso a sostegno della doglianza in questione) dal momento che detto articolo, al terzo comma, prevede in via alternativa che all’imputato sia assicurata la facoltà di "interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico", di tal che la scelta, da parte del legislatore ordinario, di privilegiare la seconda di tali alternative, escludendo la prima (come si verifica appunto riservando la facoltà in discorso al solo difensore dell’imputato, la cui attività deve presumersi svolta in sintonia con la volontà dell’imputato medesimo), in nessun modo può dirsi contraria alla norma costituzionale;
l) le censure attinenti alla mancata ammissione o alla revoca dell’ammissione di testi addotti dalla difesa o, per quanto riguarda il cancelliere che aveva ricevuto il deposito della memoria incriminata, anche dal pubblico ministero, oltre a presentarsi con carattere di novità rispetto al contenuto dell’atto d’appello, in cui non se trova cenno (il che già basterebbe a renderle inammissibili, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3, ultima parte), appaiono altresì caratterizzate da evidente genericità, facendosi soltanto, nel ricorso, un vago riferimento ad un non meglio precisato "alibi" offerto dagl’imputati del quale i testi a difesa, presumibilmente, avrebbero dovuto dare conferma, nonchè, con riguardo al cancelliere, alla mera eventualità di "problemi" che a lui sarebbero potuti derivare se "chiamato a testimoniare circa l’identità di chi avesse effettivamente depositato l’atto incriminato e circa la reale consistenza dell’atto originariamente depositato"; il tatto nella più totale assenza, nel ricorso, di alcuna specifica indicazione circa la linea difensiva assunta dagl’imputati (in relazione alla quale soltanto potrebbe teoricamente apprezzarsi la rilevanza o meno, quanto meno in astratto, dei mezzi di prova in discorso), non essendo dato desumere, dall’atto di gravame (il quale, com’è noto, anche in materia penale, dev’essere caratterizzato dal requisito della c.d. "autosufficienza"), se essi imputati avessero negato l’oggettiva esistenza del preteso falso, ovvero avessero solo negato di esserne stati gli autori, ovvero ancora avessero inteso sostenere di aver operato con il consenso del querelante;
m) le ulteriori censure in punto di ritenuta validità e sufficienza, ai fini del giudizio di penale responsabilità, delle dichiarazioni della persona offesa e della teste M., nonchè delle risultanze dell’espletata perizia grafologica, si appalesano all’evidenza come volte soltanto a prospettare una rivisitazione del fatto del tutto inammissibile in questa sede di legittimità, tanto più in quanto esse, neh" insistere sull’elemento costituito dalle riscontrate differenze tra le varie copie dell’asseritamente unico originale della memoria redatta dall’avv. V. (differenze che risultano, peraltro, plausibilmente spiegate, a pag. 39 della sentenza di primo grado, cui si è richiamata la sentenza d’appello), passano del tutto sotto silenzio quello che, in realtà, dalla motivazione della sentenza di primo grado (pagg. 38-39), anche su questo punto richiamata dalla sentenza d’appello, appare essere stato giustamente considerato come il decisivo dato documentale di conferma, per quanto di penalmente rilevante, della versione dei fatti fornita dall’avv. V. e dalla teste M., e cioè la riscontrata, piena rispondenza tra il contenuto delle pagine della memoria che, stando alla suddetta versione, sarebbero state arbitrariamente interpolate, e quello di una proposta di modifica che all’indirizzo di posta elettronica dello studio Vismara era stata fatta pervenire dall’indirizzo di posta elettronica di T. A.; proposta che l’avv. V., secondo quanto da lui riferito e confermato dalla teste M., aveva rifiutato di recepire nonostante le successive insistenze del T.;
n) con riguardo alle varie censure concernenti l’espletata perizia grafologica, premesso che la loro rilevanza appare pressochè nulla, atteso quanto espressamente affermato nella sentenza circa la sostanziale superfluità, ai fini del giudizio di colpevolezza, delle risultanze di detta perizia, a fronte della ragionevolmente dimostrata sufficienza degli altri elementi di prova a carico degl’imputati, può comunque osservarsi, per puro scrupolo di completezza, che: – p/1) la non contestata inosservanza, da parte del consulente della difesa, del termine fissato da giudice per la formulazione di eventuali osservazioni scritte (termine di cui non risulta in alcun modo dimostrata la oggettiva ed indiscutibile inadeguatezza), ben poteva, di per sè, giustificare la revoca della già disposta ammissione dell’audizione di detto consulente; – p/2) del tutto assertivo e generico appare l’assunto secondo il quale non sarebbe stata posta a disposizione del consulente di parte la "documentazione utilizzata per le operazioni peritali", a fronte di quanto puntualizzato nella sentenza di primo grado (pag. 47) e del tutto ignorato nei motivi d’appello, come pure in quelli di ricorso per Cassazione, secondo cui il consulente di parte aveva avuto a disposizione tutto il materiale utilizzato dal perito, con la sola eccezione di un foglio contenente appunti redatti dall’avv. V. durante lo svolgimento delle operazioni peritali; appunti che però non erano poi stati oggetto di valutazione da parte del perito e che, comunque, erano stati rammostrati al consulente di parte, il quale non ne aveva tuttavia chiesto copia; – p/3) del tutto pretestuosa appare la denuncia della pretesa disparità di trattamento tra il perito e il consulente di parte, sol perchè al primo sarebbe stata concessa una proroga del termine fissato per l’espletamento dell’incarico, posto che dallo stesso ricorso non emerge affatto notizia che analoga proroga del termine fissato per la formulazione delle proprie osservazioni fosse stata richiesta dal consulente di parte; – p/4) non contestandosi, nel ricorso, l’avvenuta osservanza delle garanzie difensive nel conferimento dell’incarico peritale, la denuncia circa il preteso, mancato avviso, da parte del perito d’ufficio, della "seconda sessione peritale" ai difensori degl’imputati si appalesa del tutto priva di consistenza, basandosi essa soltanto sulla generica affermazione che detta mancanza risultava "dagli atti" e non considerandosi, inoltre, da parte dei ricorrenti, che, ai sensi dell’art. 229 c.p.p., comma 2, dell’eventuale continuazione delle operazioni peritali il perito è tenuto dare comunicazione soltanto "alle parti presenti" e "senza formalità"; – p/5) parimenti inconsistenti si appalesano le doglianze attinenti al titolo professionale del perito ed al requisito della sua iscrizione all’albo di cui all’art. 67 disp. att. c.p.p., atteso che non risulta (nè viene indicata nel ricorso) l’esistenza di alcun titolo professionale ufficialmente abilitante alla professione di grafologo e, quanto all’iscrizione all’albo, si legge a pag. 40 della sentenza di primo grado che la dott.ssa C.S. era regolarmente iscritta al detto albo con il cognome da nubile, che era S.; elemento di fatto, questo, che non risulta in alcun modo contestato, essendosi limitati i ricorrenti a sostenerne, del tutto pretestuosamente, l’irrilevanza; e tutto ciò a prescindere dal pur decisivo rilievo che, secondo il principio già affermato da questa Corte (Cass. 3, 23 novembre 2005 – 19 gennaio 2006 n. 2211, Pellegri, RV 233192) e condiviso dal Collegio, "in tema di perizia e consulenza tecnica, la scelta dell’esperto tra soggetti non iscritti nell’Albo dei consulenti del giudice non produce alcuna nullità della nomina, nè tantomeno incide sulla relazione da questi prodotta, o sulla attendibilità della stessa"; – p/6) puramente di merito e pertanto inammissibili in questa sede vanno ritenute le pur diffuse e analitiche censure espresse nel ricorso a proposito della ritenuta attendibilità (secondo la sentenza di primo grado) delle conclusioni della perizia grafologica; censure basate, peraltro, pressochè esclusivamente sull’assunto, apoditticamente proposto come indiscutibile, secondo il quale non sarebbe possibile, scientificamente, periziare scritti figuranti su fotocopie, laddove la sentenza di primo grado (pag. 45) fornisce ampia e specifica motivazione (quasi del tutto ignorata, ancora una volta, nei motivi d’appello ed in quelli di Cassazione) circa la utilizzabilità, a determinate condizioni ed entro determinati limiti, anche di scritti disponibili soltanto in fotocopia;
o) il mancato sequestro dell’originale della memoria che sarebbe stato oggetto di falsificazione, prima che la stessa tornasse, a seguito del ritiro del fascicolo di parte, in disponibilità dell’avv. V., non poteva costituire, di per sè, elemento ostativo alla ritenuta fondatezza della ricostruzione accusatoria, non essendo esso, ovviamente, addebitabile alla persona offesa ma soltanto ad (ipotetica) negligenza da parte del pubblico ministero che avrebbe dovuto provvedervi e ben potendo, d’altra parte, la suddetta ricostruzione accusatoria, secondo le regole generali, basarsi soltanto su altri elementi di prova, quali, in particolare, le dichiarazioni della stessa persona offesa;
p) la pretesa innocuità del falso appare giustamente esclusa dai giudici di merito, alla luce del costante (ancorchè risalente) orientamento di questa Corte, richiamato anche nella sentenza di primo grado, secondo cui il "vantaggio" previsto dall’art. 485 c.p., come finalità in vista della quale l’agente deve aver operato perchè possa configurarsi a suo carico il reato di falso in scrittura privata può anche avere natura esclusivamente morale (in tal senso, fra le altre: Cass. 5, 15 luglio – 23 novembre 1981 n. 10508, Baietti, RV 151073; Cass. 5, 4 febbraio – 22 maggio 1981 n. 4727, Ciofalo, RV 148920; Cass. 5, 28 gennaio – 5 maggio 1981 n. 4067, Porro, RV 148669); e la suddetta natura ben può riconoscersi, nel caso di specie, al vantaggio costituito, secondo la testuale formulazione del capo d’imputazione, dal deposito della memoria in questione nel testo voluto dagl’imputati anzicchè in quello voluto dal loro difensore, nulla rilevando che (come si fa notare nel ricorso) la memoria non avesse alcuna valenza probatoria e non fosse, di per sè, idonea a determinare in un senso o nell’altro l’esito del giudizio;
q) con riguardo alla ritenuta responsabilità concorsuale del T.G., non può certo convenirsi con quanto affermato nel ricorso circa la pretesa, indebita assunzione, da parte della Corte di merito, come unico e determinante elemento di prova a carico del predetto, del fatto egli era fratello del T.A., avendo in realtà la Corte d’appello, come chiaramente emerge dalla lettura della sentenza impugnata, basato la propria decisione su di una ben più ampia piattaforma probatoria, mettendo in luce, in particolare, come i due fratelli avessero, in tutto il corso della vicenda "de qua", operato in stretta e chiaramente riconoscibile simbiosi, recandosi insieme presso lo studio dell’avv. V. e prospettando insieme le modifiche che avrebbero voluto fossero inserite nella memoria che loro veniva consegnata per il deposito, e come fosse stato proprio il T.G. a manifestare la sua opposizione all’intenzione dell’avv. V. di ritirare, in epoca successiva, il fascicolo di parte, con ciò mostrando – si afferma nella citata sentenza -"di agire in piena concordanza con il fratello"; ragion per cui ben si giustifica, sul piano logico – contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso – la ritenuta irrilevanza della circostanza che fosse stato l’uno o l’altro dei due fratelli ad aver provveduto materialmente al deposito della memoria in cancelleria;
r) del tutto insussistente appare la denunciata violazione dell’art. 521 c.p.p. in relazione alla ritenuta falsificazione anche dell’esemplare della memoria a suo tempo finita nelle mani dell’avv. C. e quindi acquisita nel corso del procedimento, atteso che detto esemplare è stato valutato soltanto come ulteriore elemento di prova documentale a carico degl’imputati in relazione al reato di falso loro addebito, in cui oggetto era e rimaneva soltanto quello costituito dall’originale della memoria in questione, sul quale sarebbe stata operata la indebita manipolazione poi figurante, ovviamente, anche sulle eventuali copie;
s) la pretesa violazione, in relazione all’acquisizione del suddetto documento, dell’art. 430 c.p.p. non risulta denunciata nei motivi d’appello e non può, quindi, essere presa in esame in questa sede, trattandosi di violazione che, ove sussistente, sarebbe stato solo suscettibile di dar luogo a nullità a regime c.d. "intermedio", la cui deduzione, quindi, sarebbe stata soggetta ai termini di cui agli artt. 180 e 182 c.p.p.;
t) non è dato comprendere, dalla lettura del ricorso, in che cosa sarebbe consistita la pretesa e non meglio precisata "insanabile falsità materiale ed ideologica" della "citazione testi del P.M." che avrebbe conseguentemente dovuto dar luogo all’inutilizzabilità delle dichiarazioni dei suddetti testi, salvo a ritenere che i ricorrenti abbiano inteso far riferimento a quanto si riferisce a pag. 4 della sentenza di primo grado, secondo cui, avendo il difensore chiesto che si desse atto della "mancanza di provvedimento di autorizzazione dei testi del Pubblico Ministero", il giudice aveva accertato la "tempestività del deposito della lista di cui all’art. 468 c.p.p." ed aveva quindi autorizzato "ora per allora, la citazione dei testi del Pubblico Ministero"; svolgimento dei fatti, questo, che non risulta in alcun modo contestato nel ricorso e dal quale, all’evidenza, esula ogni e qualsiasi ipotesi di pretesa "falsità";
u) parimenti criptica, oltre che meramente assertiva ed altresì del tutto inedita rispetto al contenuto dell’atto d’appello, appare poi l’affermazione secondo cui il fascicolo per il dibattimento non sarebbe stato "formato dal P.M.";
w) la pretesa inutilizzabilità, ai fini dell’affermazione della penale responsabilità del T.G., dei risultati dell’istruttoria dibattimentale relativa all’episodio di falso per il quale è intervenuta declaratoria di improcedibilità per tardività della querela non appare ancorata nè ancorabile al benchè minimo riferimento normativo o fattuale, trattandosi di istruttoria di cui non si contesta, comunque, l’avvenuto espletamento nell’ambito del procedimento in cui anche il T.G. era imputato tanto di quell’episodio di falso quanto di quello per il quale ha subito condanna in appello, per cui era stato pienamente in grado di esercitare ogni possibile facoltà di difesa;
x) del tutto assertiva e generica, oltre che priva, anch’essa, di ogni valido aggancio normativo, appare pure la dedotta violazione del diritto di difesa per la mancata "trascrizione della discussione";
y) la pretesa violazione dell’art. 533 c.p.p., anch’essa denunciata in termini di assoluta genericità, altro non esprime se non il legittimo, ma del tutto soggettivo convincimento dei ricorrenti che, nella specie, sia mancata quella prova di colpevolezza "al di là di ogni ragionevole dubbio" che, secondo il motivato convincimento dei giudici di merito, era invece stata acquisita;
z) il diniego della conversione della pena detentiva in quella pecuniaria non risulta affatto giustificato, nell’impugnata sentenza, con il riferimento ad un asserito "accanimento difensivo" degl’imputati, avendo la Corte d’appello fatto soltanto legittimo riferimento, nell’ambito dell’ampia discrezionalità che in materia è riconosciuta al giudice di merito, alla ritenuta opportunità, nella specie, del mantenimento della pena detentiva in considerazione della sua maggiore efficacia deterrente rispetto a quella pecuniaria;
aa) con riguardo alle ulteriori argomentazioni difensive contenute nella memoria depositata alla vigilia della presente decisione, le stesse, ad onta della mole cartacea occupata, non aggiungono sostanziali elementi di novità a quelle già contenute nel ricorso, semmai caratterizzandosi per un ancora maggiore propensione alle ricostruzioni ed alle valutazioni di puro fatto, inammissibili in questa sede, per cui non può che rimandarsi alle già illustrate ragioni di inaccoglibilità del gravame, solo aggiungendo (anche in questo caso per puro scrupolo di completezza), che nessun decisivo rilievo sembra potersi attribuire al fatto, sottolineato nella memoria in discorso con particolare insistenza, che il V., ad un certo punto del suo esame testimoniale, avrebbe affermato: "avevo depositato la comparsa conclusionale senza nessun tipo di problema ed anche la memoria di replica"; affermazione, questa, dalla quale, secondo i ricorrenti, si sarebbe dovuto desumere che, in contrasto con la ricostruzione dei fatti basata sulle precedenti dichiarazioni dello stesso V., questi avrebbe ammesso di aver provveduto personalmente, e non per il tramite dei T., al deposito anche della memoria di replica; il che però, oltre a basarsi su di una "lettura" che non è certo l’unica possibile della suddetta espressione (ben potendo il V., interessato soprattutto a chiarire che il deposito era avvenuto "senza problemi", aver inteso rivendicare a sè stesso l’iniziativa e non anche la materiale effettuazione del deposito stesso), appare anche del tutto insostenibile sul piano logico, ove si consideri che, secondo quanto costantemente affermato dai ricorrenti, il V., durante tutta la vicenda in esame, avrebbe callidamente fatto ricorso, senza mai dare segno alcuno di resipiscenza, al sistematico mendacio, finalizzato al solo obiettivo di avvantaggiare sè stesso e di nuocere agl’imputati mediante la costruzione di una falsa accusa a carico di costoro; ragion per cui risulterebbe davvero inspiegabile che, ad un certo punto, soltanto perchè preso – secondo quanto si afferma dai ricorrenti a pag. 16 della memoria in esame – da "un impeto di stizza" a fronte dell’incalzare delle domande della difesa, un tale mentitore avesse, con una sola parola, fatto cadere l’intero castello delle sue accuse, per giunta mostrandosene addirittura "compiaciuto" (come pure si annota nello stesso passaggio della memoria); così come risulterebbe inspiegabile che, a fronte di un subitaneo e radicale abbandono, da parte della principale fonte dell’accusa, di un fondamentale elemento della ricostruzione dei fatti da essa fornita, nè il pubblico ministero nè il giudice avessero mostrato di rendersene conto e avessero quindi cercato, come sarebbe stato naturale e addirittura istintivo, di chiarirne le ragioni.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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