Cass. civ. Sez. I, Sent., 06-10-2011, n. 20515 Danno non patrimoniale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.A., con ricorso alla Corte d’appello di Napoli proponeva, ai sensi della L. n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U. a causa della irragionevole durata del giudizio in materia di lavoro pubblico instaurato dinanzi al T.A.R. Campania nel novembre 2000.

La Corte d’appello, con decreto depositato il 29 dicembre 2008, ritenuta una durata ragionevole di tre anni, liquidava a titolo di danno non patrimoniale per la ulteriore durata irragionevole di 5 anni circa del giudizio presupposto la somma di Euro 5.000,00 oltre le spese del procedimento.

Avverso tale decreto P.A. ha proposto ricorso a questa Corte con atto notificato al Ministero Economia e Finanze il 17 agosto 2009, formulando cinque motivi. Il Ministero non ha svolto difese.
Motivi della decisione

1.- Con i motivi di ricorso è denunciata erronea e falsa applicazione di legge ( L. n. 89 del 2001, art. 2, art. 6, p. 1 C.E.D.U.) in relazione al rapporto tra norme nazionali e la C.E.D.U. come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, ed omessa decisione di domande ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; art. 112 c.p.c.). Secondo l’istante, una volta accertata la violazione del termine ragionevole, la liquidazione dell’equo indennizzo dovrebbe effettuarsi, applicando la normativa C.E.D.U. secondo la giurisprudenza della Corte europea e disapplicando la L. n. 89 del 2001, art. 2, che con essa contrasti, in relazione non già al tempo eccedente la ragionevole durata bensì all’intera durata del processo, ed in misura non inferiore a Euro 1000,00-1.500,00 per anno. Nella specie peraltro il decreto non avrebbe sufficientemente motivato in ordine alla mancata osservanza di detti parametri, ed inoltre non ha liquidato un bonus di Euro 2.000,00 ratione materiae, trattandosi di controversia su diritti inerenti a rapporti di lavoro, ed il giudice non si sarebbe pronunciato sulla relativa domanda così violando l’art. 112 c.p.c., e l’obbligo di motivazione su un punto decisivo.

2. – I motivi, da esaminare congiuntamente perchè giuridicamente e logicamente connessi oltre che spesso ripetitivi, sono infondati.

2.1- Quanto al rapporto tra le norme nazionali (in particolare, la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3) e la CEDU, deve in primo luogo escludersi che l’eventuale contrasto tra tali normative possa essere risolto semplicemente con la "non applicazione" della norma interna.

Fermo il principio enunciato dalle S.U. (n. 1338 del 2004), in virtù del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretarla in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, va precisato come tale dovere operi entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della cit. L. n. 89 del 2001:

qualora ciò non fosse possibile, ovvero il giudice dubitasse della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale "interposta", dovrebbe investire la Corte Costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1 (cfr. Corte Cost. sentenze nn. 348 e n. 349 del 2007). D’altra parte, la compatibilità della normativa nazionale con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica Italiana con la ratifica della CEDU va verificata con riguardo alla complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto ad una ragionevole durata del processo: come la stessa Corte europea ha riconosciuto, la limitazione, prevista dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’equa riparazione al solo periodo di durata irragionevole del processo, di per sè non esclude tale complessiva attitudine della legge stessa (cfr. Cass. n. 16086/2009; n. 10415/2009; n. 3716/2008). Rettamente dunque la Corte di merito ha seguito la modalità di calcolo dell’indennizzo prevista dall’art. 2 citato, facendo peraltro espresso richiamo ai principii qui esposti.

2.2- Quanto alla liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale, va osservato che la Corte di merito, riconoscendo al ricorrente a tale titolo la somma di Euro 5.000,00 per cinque anni circa di durata irragionevole, non si è discostato dal parametro base europeo di Euro 1.000,00 per anno, facendo riferimento alle obiettive connotazioni del caso in esame (tra cui la limitata rilevanza della posta in gioco) sulle quali ha fondato la sua valutazione. Ha dunque, nel rispetto dello standard della CEDU ed esponendo congrua motivazione, validamente esercitato la sua discrezionalità nella determinazione dell’indennizzo, che nessun argomento del ricorso impone e consente di derogare in melius.

2.3- Quanto al diniego di una somma forfetaria di Euro 2.000,00 (c.d. bonus) in relazione alla circostanza che il giudizio presupposto aveva ad oggetto una controversia di lavoro, deve respingersi la tesi che tale somma ulteriore vada riconosciuta automaticamente in ogni caso di controversia di lavoro o previdenziale. La ragione di tale bonus, che la giurisprudenza europea riconosce laddove la particolare importanza di taluni giudizi induca a ritenere che il pregiudizio per la loro durata irragionevole sia stato maggiore di quello che si verifica nella generalità dei casi, postula l’accertamento e la valutazione nel caso specifico delle particolari circostanze alle quali sia da ricondurre tale eventuale maggior pregiudizio. Sì che, quando il giudice del merito nega tale ulteriore indennizzo forfetario, nella specie peraltro esprimendone le ragioni nella modestia della posta in gioco tale da escludere che quello specifico pregiudizio ulteriore sia stato sopportato dall’istante, la critica del punto della decisione non può essere affidata alla sola contraria postulazione che il bonus spetterebbe ratione materiae ed era stato richiesto e che la decisione negativa non sarebbe motivata (ciò che peraltro nella specie deve escludersi), ma deve avere specifico riguardo alle concrete allegazioni – e se del caso alle prove-addotte nel giudizio di inerito. Ciò che non è dato riscontrare nel ricorso in esame.

3. Il rigetto del ricorso si impone dunque, senza provvedere sulle spese di questo giudizio di legittimità, non avendo l’intimato svolto difese.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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