Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 15-02-2011) 06-06-2011, n. 22350 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

fensore dell’indagato, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 10/9/2010 il GIP del Tribunale di Bassano del Grappa rigettava l’istanza di concessione dell’autorizzazione al lavoro, in favore di F.G., indagato agli arresti domiciliari per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, per traffico di eroina e plurimi episodi di cessione (proc. 522/10 G.I.P.).

Con provvedimento del 8/10/2010 il Tribunale di Venezia, in sede di appello cautelare, confermava l’ordinanza del G.I.P. Osserva il Tribunale che:

– il F. non aveva documentato lo stato di indigenza ed anzi risultava figlio di una madre imprenditrice, in grado di fornirgli assistenza ed occasione di un futuro lavoro;

– inoltre dalle investigazioni svolte, il F. risultava avere avuto incontri con P.A., suo correo, proprio presso il luogo di lavoro, per cui l’autorizzazione ad uscire di casa avrebbe vanificato le esigenze cautelari.

2. Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il difensore dell’indagato, lamentando:

2.1. la illegittimità costituzionale dell’art. 284 c.p.p., comma 3, laddove inibiva la possibilità di esercitare attività di lavoro;

2.2. il difetto di motivazione in ordine alla affermata mancata prova dello stato di indigenza; inoltre, benchè il F. vivesse con la madre dal (OMISSIS), ciò non significava che era inserito nel suo nucleo familiare;

2.3. il difetto di motivazione, laddove il Tribunale aveva ritenuto sussistere le esigenze cautelari ostative all’autorizzazione, benchè l’incontro tra il F. ed il P. fosse stato occasionale e non era stato provato che avesse avuto una finalità illecita.
Motivi della decisione

3. Le censure formulate sono in parte manifestamente infondata e per altra parte fondate su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità, pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

3.1. La censura di incostituzionalità è manifestamente infondata.

L’art. 13 Cost. consente la privazione della libertà personale nei casi previsti dalla legge ed in base ad un provvedimento motivato della Autorità Giudiziaria.

Il codice di rito, nel disciplinare le misure cautelari informa il criterio di scelta della misura a due principi: di adeguatezza, secondo cui la misura deve essere adeguata alle esigenze cautelari da soddisfare in concreto (art. 275, comma 1), prevedendo una progressione graduata delle misure in base alla quale la custodia cautelare si pone come "extrema ratio", ai sensi dell’art. 275, comma 3;

principio di proporzionalità, secondo cui la misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia già stata irrogata o che si ritiene irrogabile (art. 275, comma 2).

In breve, il sistema previsto dal codice, al fine di garantire la tutela delle esigenze cautelari, consente il minore sacrificio possibile della libertà personale.

In questa ottica, la possibilità che ad un imputato agli arresti domiciliari sia negata l’autorizzazione al lavoro non viola alcuna norma della Costituzione, nè palesa alcuna irragionevolezza in quanto armonizza in modo equilibrato il rispetto per la libertà personale con la tutela delle esigenze cautelari ed in particolare di prevenzione sociale.

3.2. Quanto alle censure relative al difetto di motivazione sulla insussistenza delle condizioni per l’autorizzazione al lavoro e la permanenza delle esigenze cautelari, le censure mosse dalla difesa all’ordinanza, esprimono solo un dissenso generico rispetto alla ricostruzione offerta dal Tribunale ed invitano ad una rilettura nel merito della vicenda, non consentita nel giudizio di legittimità, a fronte di una motivazione della ordinanza impugnata che regge al sindacato di legittimità, non apprezzandosi nelle argomentazioni proposte quei profili di macroscopica illogicità, che soli, potrebbero qui avere rilievo.

Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1000,00 (mille).
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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