Cass. civ. Sez. II, Sent., 06-10-2011, n. 20483 Distanze legali tra costruzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 325/2000 il Tribunale di Velletri – nel provvedere anche su altri punti, che non formano più oggetto della materia del contendere – condannò I.C. e R.G. ad arretrare un loro fabbricato sito in località (OMISSIS) fino a sei metri dal confine con l’adiacente fondo appartenente a I. I..

Impugnata dai soccombenti, la decisione è stata confermata dalla Corte d’appello di Roma con sentenza n. 726/2005.

I.C. e R.G. hanno proposto ricorso per cassazione, in base a due motivi. I.I. si è costituito con controricorso.
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso I.C. e R. G. sostengono di aver proposto in appello – contrariamente a quanto ha ritenuto il giudice di secondo grado – non già una domanda, bensì una semplice eccezione di usucapione del diritto a mantenere il loro fabbricato alla distanza in cui era stato costruito dal confine: eccezione che avrebbe dovuto essere reputata ammissibile, alla stregua del testo originario dell’art. 345 cod. proc. civ., applicabile nella specie ratione temporis.

La tesi è infondata.

Risulta dall’atto di citazione in appello – che questa Corte può direttamente prendere in esame, stante la natura di error in procedendo del vizio denunciato – che I.C. e R. G., nell’impugnare la sentenza del Tribunale, avevano affermato che la realizzazione dello stabile in questione risaliva a più di venti anni prima dell’inizio della causa e in base a questo assunto avevano chiesto "in via subordinata dichiarare l’avvenuta usucapione del diritto essendo questo stato goduto in maniera ininterrotta, non violenta e non clandestina per la durata di venti anni", mentre per altre ragioni avevano concluso, in via principale, per il rigetto della domanda di riduzione in pristino formulata da I. I.. La deduzione del possesso asseritamente esercitato da I.C. e R.G. non era quindi diretta soltanto a paralizzare la pretesa avanzata nei loro confronti, ma a ottenere una pronuncia a sè favorevole, sicchè correttamente la Corte d’appello l’ha considerata inammissibile, trattandosi di domanda e non di semplice eccezione.

Con il secondo motivo di ricorso I.C. e R. A. rivolgono alla sentenza impugnata varie censure: lamentano innanzi tutto di essere stati condannati ad arretrare il proprio fabbricato, anche se esso non fronteggia alcun altro edificio;

contestano che l’irregolarità urbanistica in ipotesi a loro attribuibile possa comportare il diritto del vicino alla riduzione in pristino; sostengono che la violazione è stata ritenuta sussistente a causa della mancata considerazione della licenza in variante che avevano ottenuto, nonchè in conseguenza della falsa deposizione resa da un testimone.

Neppure queste doglianze possono essere accolte, in quanto:

– le disposizioni dei regolamenti locali, che impongono il rispetto di determinate distanze delle costruzioni, non tra loro ma dal confine, vanno considerate come "integrative" dell’art. 873 cod. civ., sicchè la loro inosservanza comporta, a norma dell’art. 872 cod. civ., "la facoltà di chiedere la riduzione in pristino", indipendentemente dalla circostanza che il fondo limitrofo sia inedificato (cfr. Cass. 30 dicembre 2004 n. 24178, 24 marzo 2005 n. 6401, 10 gennaio 2006 n. 145).

– le autorizzazioni amministrative, come esattamente ha rilevato la Corte d’appello, non possono incidere sui diritti attribuiti dalla legge ai terzi, poichè i loro effetti si esauriscono nell’ambito del rapporto che si instaura tra la pubblica amministrazione e il richiedente (cfr. Cass. 30 marzo 2006 n. 7563, 28 maggio 2007 n. 12405, 18 gennaio 2008 n. 992).

– in violazione del principio di autosufficienza, nel ricorso non viene data alcuna indicazione: nè circa il contenuto della testimonianza che si assume falsa nè a proposito dell’incidenza che essa può aver avuto sulla sentenza impugnata, sicchè questa Corte non è stata posta in condizione di vagliare la pertinenza e la fondatezza della censura di cui si tratta.

Il ricorso va pertanto rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti – in solido, stante il comune loro interesse nella causa – a rimborsare al resistente le spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in 200,00 Euro, oltre a 2.500,00 Euro per onorari, con gli accessori di legge.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti in solido a rimborsare al resistente le spese del giudizio di cassazione, liquidate in 200,00 Euro, oltre a 2.500,00 Euro per onorari, con gli accessori di legge.

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