Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 15-02-2011) 06-06-2011, n. 22318 Responsabilità del pubblico funzionario

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza pronunciata dal tribunale, ha assolto E.G. dal reato di cui all’art. 589 cod. pen., per aver commesso il fatto per caso fortuito.

L’imputazione di omicidio colposo trae origine da quanto avvenuto il (OMISSIS), allorchè – come risulta dalla ricostruzione dell’episodio effettuata sulla base delle testimonianze degli agenti e dell’altro passeggero dell’auto T.E. – l’ E., insieme a due colleghi della Questura di Napoli, procedeva ad un normale controllo di una autovettura ferma nel vicolo (OMISSIS), stradina cieca sita in un quartiere, all’epoca degradato, della città partenopea con a bordo alcuni soggetti in atteggiamento sospetto. Circondata l’automobile, nel rispetto del protocollo relativo agli interventi in tali situazioni, uno degli operanti, S. si posizionava davanti alla vettura, A. si portava al lato passeggero, l’unico praticabile poichè l’auto era molto vicina al muro e dal quel lato non avvicinabile, per mostrare la paletta di ordinanza, ed E. si metteva dietro l’automobile, spostato verso sinistra in linea con il finestrino. L’ispezione, almeno nel suo incipit, si presentava senza apparenti rischi, se non che la dinamica dell’intervento assunse, improvvisamente, una diversa, e più grave, connotazione, dal momento che M.P., conducente della Toyota Yaris, in maniera del tutto inattesa in relazione a come si stava svolgendo l’accertamento, chiuse, utilizzando il comando centralizzato, le portiere dell’automobile e, avviato il motore, percorse in avanti un breve tratto di strada a velocità piuttosto sostenuta, puntando verso la direzione in cui si trovava, a pochi passi, l’agente S.; quest’ultimo, estratta l’arma in dotazione, esplodeva un colpo in aria a scopo intimidatorio, per interromperne la marcia, e poi si gettava di lato e cadeva sull’anca; l’agente A. afferrava il collega a terra e lo trascinava fuori della traiettoria della macchina; il M., in modo altrettanto imprevedibile e repentino, anzichè proseguire in avanti nella strada ormai libera, che costituiva l’unica via di uscita dal vicolo, cieco dall’altra parte, eseguiva una manovra di retromarcia nella direzione dove si trovava E., posizionato dietro la vettura e stretto tra la vettura ed il muro, distante pochi metri, che chiudeva la strada; in quel frangente E. esplodeva un colpo dalla pistola, che attingeva il lato sinistro del portellone a 12 cm dal margine esterno sinistro e, percorrendo una traiettoria orizzontale e parallela al livello della strada, attingeva M.;

l’auto riusciva a proseguire nel tentativo di fuga e gli agenti, saliti in macchina si mettevano all’inseguimento, fino a che M. si accasciava definitivamente sul volante. Secondo il Tribunale, escluso che E. avesse sparato con "animus necandi" ed anche con accettazione dell’evento lesivo quale possibile conseguenza dello sparo, ne sussisteva comunque la responsabilità colposa per aver perso, alla pari gli altri partecipanti alla vicenda, il doveroso controllo della situazione perchè sorpresi dal movimento dell’auto.

Il giudice di primo grado riteneva di poter affermare che la versione resa da E., secondo cui egli aveva sparato involontariamente perchè urtato dall’auto in retromarcia che gli faceva perdere l’equilibrio, non era verosimile; ciò in quanto sulla base della conformazione dei luoghi, delle posizioni assunte dagli agenti e dall’auto, del tempo di accelerazione della stessa, poteva stimarsi in 3-5 secondi il tempo che, dopo il colpo di pistola esploso dal collega S., egli aveva avuto a disposizione per estrarre la pistola, caricarla e premere il grilletto, tempo troppo breve per quelle operazioni; ed inoltre, quanto alle ferite che egli asseritamente si era procurato perdendo l’equilibrio, il medico che lo aveva visitato dopo il fatto aveva stilato la diagnosi basandosi per lo più su quanto dal medesimo E. raccontato; secondo il Tribunale doveva ritenersi che sentendo il colpo del collega e vedendo arretrare l’auto, senza accertarsi della posizione dei colleghi E. estrasse l’arma e sparò a lato nel momento in cui la vettura si stava già riavviando in avanti, attingendo fatalmente il colpo, forse per le deviazioni interne subite impattando la struttura della Yaris, il fegato del malcapitato giovane; era evidente, secondo il Tribunale, che E. omise ogni doverosa valutazione in merito alla necessità dell’azione estrema – se l’auto si avviava verso l’uscita del vicolo, bastava solo rimettersi in auto ed inseguirla tentando altre manovre per fermarla – ed alla pericolosità della scelta in un contesto così confuso in cui persino i suoi colleghi potevano essere colpiti, dato che egli aveva perso completamente contezza degli spostamenti; nel momento in cui si determinò a sparare evidentemente fu spinto alla azione da uno stimolo reattivo quasi istintivo attivato dalla manovra dell’auto ed omise ogni regola di prudenza e di diligenza che invece erano particolarmente richieste in una situazione in cui vi era un mezzo in movimento ed altri soggetti operanti coinvolti nell’azione in un ambito spaziale non particolarmente esteso e per di più non pienamente dominabile a causa dell’ora tarda e della mancanza di luce, circostanze che un operatore esperto doveva avere ben in conto prima di arrivare ad una soluzione estrema e non giustificata neanche dalla repentinità delle manovre.

La Corte di appello dissentiva da tale motivazione e dalla ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice. La Corte rilevava che: 1) nucleo centrale della tesi del Tribunale era che l’ E. avesse sparato quando l’auto condotta da M.P. già aveva iniziato, dopo l’iniziale marcia in avanti per circa un metro e una successiva marcia indietro per metri 3,60 circa, nuovamente una marcia in avanti: donde la smentita della versione dell’imputato che il colpo gli era accidentalmente partito durante la caduta provocatagli dalla marcia indietro dell’auto, e la prova della volontarietà dello sparo contro l’auto medesima e della colpa per avere attinto il fegato del M.; 2) a tale conclusione il primo giudice era arrivato, speculando sul filo dei secondi e dei pochi metri di movimento dell’auto nelle prime due indicate manovre, attraverso una macchinosa ricostruzione del fatto, pure encomiabile per il poderoso sforzo ermeneutico dei difficili segni della vicenda, la quale, però, era – secondo la Corte – opinabile, siccome resistita da dati e da argomentazioni di segno contrario. Sulla base delle dichiarazioni testimoniali dell’agente A. il Tribunale aveva affermato che nella manovra di marcia indietro la Yaris aveva percorso più o meno un tratto corrispondente alla sua lunghezza, e dunque metri 3,61, passando interamente innanzi ad A.. Ma quando costui aveva dichiarato che l’auto gli era ripassata interamente davanti, non poteva che riferirsi alla parte di veicolo che in precedenza era avanzata verso di lui soltanto di un metro e mezzo; un preciso esame dei luoghi consentiva di affermare che in ogni caso, anche se la Yaris fosse arretrata di 3 mt e 60, E. avrebbe comunque avuto spazio dietro di lui; secondo i due colleghi lo sparo di E. era intervenuto al termine della retromarcia e nello stesso senso si era espresso anche T. almeno in sede di incidente probatorio; il tempo di accelerazione dell’auto era stato stimato con riferimento alla marcia avanti e non alla retromarcia; il lasso temporale tra le due esplosioni non poteva essere stimato con certezza sulla base di deposizioni testimoniali; del tutto ignoto era il tempo di estrazione di caricamento dell’arma mentre la ricostruzione della posizione assunta da E. per sparare era del tutto congetturale; peraltro la stessa sentenza di primo grado dava atto che sicuramente non aveva sparato nè in piedi ben piazzato, nè accovacciato in posizione di mira; ingiustamente la sentenza aveva svalutato il certificato medico che descriveva contusioni ad entrambe le mani ed al ginocchio e pretermesso il fatto che anche i colleghi avevano riferito che subito dopo lo sparo, avevano visto E. "arrancare" per risalire in macchina. Dunque la ricostruzione effettuata dal Tribunale non poteva essere seguita.

Secondo la Corte di appello fuor di dubbio appariva la circostanza secondo la quale l’imputato fosse ignaro (nel momento in cui aveva estratto la pistola) sia di quanto gli occupanti della vettura stessero facendo sia della paternità dell’esplosione; infatti soltanto, l’agente A. – che era vicino all’automobile ed osservò i passeggeri intenti ad iniettarsi della sostanza stupefacente – ebbe contezza di ciò che, realmente, si stava verificando nella stessa e fuori, mentre E., a causa del buio e della sua posizione dietro l’automobile e distante alcuni metri, era nell’impossibilità di determinare se a sparare fosse stato uno dei suoi colleghi, ovvero uno degli occupanti la Toyota Yaris. Tali circostanze di fatto lo indussero ad impugnare la pistola ed armarla, in quanto avvertì come evidente lo stato di pericolo discendente dall’esplosione. Venne poi urtato dall’auto in retromarcia perdendo l’equilibrio e premendo involontariamente il grilletto sparò accidentalmente un colpo.

2. Avverso tale sentenza hanno presentato ricorso a questa Corte le parti civili. Lamentano l’erronea applicazione della legge penale e l’insufficienza, illogicità e contraddittorietà della pronuncia che ha riconosciuto la sussistenza dello scriminante prevista dall’art. 45 cod. pen. Riconosciuta la indubitabile sussistenza di nesso causale tra sparo e decesso, i ricorrenti rilevano che non può essere condivisa la ritenuta sussistenza della causa di non punibilità ex art. 45 cod. pen., atteso che la pacifica giurisprudenza di questa Corte ne esclude la operatività quando una pur minima colpa possa essere attribuita all’agente. Nel caso di specie la rilevanza penale della condotta dell’ E. risiederebbe, da un canto, nella imprudenza con cui ha estratto la pistola, ha disattivato la sicura e l’ha armata, portando l’indice sul grilletto, in violazione delle norme protocollari cui gli agenti delle Forze dell’ordine devono attenersi; ritenere che nessuna di tali imperizie, negligenze, imprudenze e violazioni protocollari sia minimamente rimproverabile è – secondo i ricorrenti -scorretto, illogico e ingiustificato anche ricorrendo alla evocazione delle "condizioni date"; dall’altro canto altrettanto illogico è avere ritenuto imprevedibile l’azione posta in essere dal conducente della vettura, nulla essendovi di imprevedibile nel tentativo degli occupanti di una vettura sottoposta a controllo, da parte della Polizia, di darsi alla fuga cercando di investire gli operanti e nulla di imprevedibile nella possibilità che, maneggiando impropriamente l’arma ( E. avrebbe dovuto infilare il dito indice all’interno del ponte del grilletto solo se fosse stato determinato allo sparo immediato) la stessa lasciò partire il colpo.

Tale opzione induce, sostengono i ricorrenti, a ritenere sussistenti gli elementi costitutivi del delitto previsto dall’art. 589 del Codice sostanziale, con la conseguente ed ovvia inapplicabilità della disciplina di cui dall’art. 45 c.p..

3. Nell’interesse dell’ E. è stata presentata una memoria con la quale si confutano le censure avversarie.
Motivi della decisione

1. Il ricorso non merita accoglimento.

Rileva in primo luogo il Collegio che corretta, e peraltro condivisa da entrambe le parti, è la ricostruzione operata dalla Corte di appello dell’incidenza avuta nel caso di specie dalla ravvisata causa di non punibilità ex art. 45 cod. pen., ritenuta escludere l’elemento soggettivo del reato e più precisamente la colpa; tale inquadramento corrisponde alla opinione largamente condivisa in dottrina e giurisprudenza che individua il fortuito in eventi o fattori improvvisi, imprevisti ed imponderabili e ritiene che l’imprevedibilità debba essere valutata sul piano soggettivo, quale limite del dolo e/o, ciò che più rileva nel presente caso, della colpa sotto il profilo della prevedibilità; pacifica ed evidente è infatti la sussistenza del nesso di causalità tra lo sparo e l’evento letale che ne è derivato, mentre resta da verificare se sia giustificata e corretta la decisione impugnata laddove ha ricondotto la non punibilità della condotta dell’ E. all’assenza di colpa. Questo è il tema su cui si incentra il ricorso delle parti civili, che, richiamandosi alla giurisprudenza secondo cui l’operatività dell’esimente in questione è esclusa laddove possa essere riconosciuta una pur minima colpa all’agente, sostengono come non sia stato sufficientemente approfondito tale aspetto della vicenda. Sottolineano, in particolare, le parti civili che il protocollo operativo delle forze di polizia prevede che la pistola può essere estratta solo quando l’agente o un terzo sia in grave pericolo di vita, che in caso di intervento determinato da allarme è consentito incamerare il colpo in canna tenendo però la sicura abbassata per scongiurare esplosioni involontarie, che in caso di arma caricata ad azione singola l’operatore può porre il dito sul grilletto solo ed esclusivamente nell’attimo in cui si è determinato a sparare e che se l’ E. avesse rispettato tali previsioni, o anche una sola di esse, l’arma non avrebbe esploso alcun colpo a prescindere dal fatto che l’ E. fosse o meno caduto.

Si tratta di osservazioni puntuali e di indubbio spessore che tuttavia non consentono, ad avviso del Collegio, l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza stessa.

Questa Corte infatti può valutare le censure proposte solo sotto il profilo della logicità delle risposte fornite dal giudice di merito, nella specie dalla Corte di appello di Napoli che, con motivazione pienamente logica ed esaustiva, ha ritenuto accidentale lo sparo che ha attinto con esito letale il M. e corretto il comportamento tenuto dall’ E. nel corso dell’intervento.

Sulla prima questione non è necessario svolgere alcuna osservazione dal momento che trattasi di una conclusione che deriva dall’accertamento dei fatti di causa, di esclusiva competenza del giudice di merito, da ritenersi dunque definitiva e, per la verità, neppure contestata dalle parti civili; le quali, come si è detto, censurano la sentenza sotto il profilo della condotta tenuta dall’ E. in precedenza, nello svolgimento delle varie fasi dell’operazione, nei momenti precedenti lo sparo con riguardo al controllo dell’arma, che assumono non conforme alle regole protocollari.

Anche a tale riguardo però vale il limite che deriva dalla natura del giudizio di Cassazione quale rimedio di sola legittimità e la completa e logica risposta data dalla Corte di appello.

Nella specie il Collegio rileva che puntuale e preciso è stato l’accertamento in fatto compiuto dalla Corte di appello non solo nel disattendere la tesi del Tribunale secondo cui E. aveva sparato volontariamente alla macchina che si stava allontanando, nel tentativo di fermarla; ma altresì nel ritenere attendibile e conforme ai dati processuali la versione dei fatti fornita dal medesimo imputato secondo cui lo sparo era partito accidentalmente quando la Yaris, facendo marcia indietro, stava per investirlo e gli aveva fatto perdere l’equilibrio; e da ultimo nell’escludere che all’imputato potesse addebitarsi l’estrazione della pistola, il suo armamento e di avere tenuto il dito sul grilletto nelle condizioni date.

Dopo avere dettagliatamente e con precisione riferito i momenti della vicenda e la interpretazione datane dal primo giudice, la Corte, in stretta aderenza a quanto accertato, ha osservato, del tutto logicamente, che l’ E., trovandosi, al momento dell’esplosione del primo colpo di arma da fuoco, nel tratto di strada posteriore all’auto, non poteva avere contezza della circostanza che il colpo stesso era partito dalla pistola del collega S. (si rammenta che erano le ore 23 circa). Ha ritenuto legittima, pertanto, la sua esigenza di armarsi, vale a dire di estrarre la pistola e di caricarla per tenersi pronto per un suo eventuale uso per far fronte al possibili eventi, anche i più gravi, posto che egli neppure sapeva, a differenza dell’ A. che se n’era reso conto battendo con la paletta contro il finestrino accanto al T., che nell’interno dell’auto vi erano due soggetti intenti ad iniettarsi in vena una sostanza stupefacente e non poteva, perciò, escludere che il colpo era partito proprio da taluno dei soggetti controllati. Ed infine ha osservato che se la tesi del Tribunale fosse stata corretta, si sarebbe dovuto ritenere che l’ E. sparando volontariamente un (solo) colpo contro l’auto, accettò il rischio di colpire il collega che sapeva posizionato innanzi alla vettura, a ragione della imprevedibilità della traiettoria; ipotesi però del tutto in contrasto con quanto emerso dal processo, essendo risultato che E. non era certamente così inesperto da mettere a repentaglio la vita di un collega. Per tali ragioni la Corte, con motivazione che non evidenzia segni di illogicità o approssimazione, ha ritenuto che i fatti si fossero svolti come riferito dall’ E. e cioè che egli, a seguito della partenza in avanti dell’auto, si portò in avanti e, udito un colpo di arma da fuoco, estrasse e caricò la pistola; battè, quindi, le mani sull’auto che, indietreggiando, si dirigeva contro di lui, finendo, così, a causa della perdita dell’equilibrio, per cadere a terra, impugnando l’arma da cui, per i movimenti inconsulti dovuti alla caduta, che lo portavano a premere involontariamente il grilletto, accidentalmente partiva il colpo in questione. Ed ha ritenuto corretto il comportamento via via tenuto dall’ E. in quanto giustificato e reso necessario dal succedersi degli avvenimenti sopra riportati.

2. Per le ragioni anzidette i ricorsi delle parti civili devono essere rigettati e le medesime condannate al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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