Cass. pen., sez. II 29-09-2008 (18-09-2008), n. 36988 Persona offesa alloglotta che non conosca la lingua italiana – Dichiarazioni di denuncia e di ricognizione fotografica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ordinanza dell’11/02/2008, il Tribunale di Roma – in composizione Collegiale 1^ Sezione penale – dispose la custodia cautelare in carcere di F.A., indagato per i reati di cui all’art. 61 c.p., n. 5, art. 81 cpv. c.p., art. 628 c.p., n. 1.
Avverso tale provvedimento l’indagato propose istanza di riesame, ma il Tribunale di Roma, con ordinanza del 22/02/2008, la respinse.
Ricorre per cassazione l’indagato, congiuntamente al suo difensore, deducendo:
1) Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. E e C in relazione all’art. 282 c.p.p. con riguardo ai gravi indizi.
Secondo il ricorrente mancherebbero i gravi indizi a suo carico.
Infatti il Tribunale avrebbe preso in considerazione le dichiarazioni delle Parti Offese assunte in violazione della legge e quindi inutilizzabili ex art. 191 c.p.p.. Invero sarebbe stato utilizzato come interprete un amico delle stesse parti offese, in violazione degli artt. 143-145 c.p.p..
Inoltre il riconoscimento del F., come uno dei responsabili dei reati, sarebbe avvenuto in modo del tutto irrituale e non potrebbe, quindi, costituire valida prova. Infine il Tribunale avrebbe travisato le dichiarazioni del teste E. e non si sarebbe reso conto che dalle dichiarazioni dei testi non si capirebbe neppure quale ruolo abbia svolto nella rapina il F..
Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. E in relazione alla sussistenza della pericolosità sociale.
Il ricorrente eccepisce la genericità e apoditticità della motivazione del Tribunale in ordine alla sussistenza del pericolo di cui all’art. 274 c.p.p., lett. C). Sottolinea, infine, il F. la carenza di motivazione sulla sussistenza di un pericolo tale che possa giustificare la sua permanenza in carcere.
Il ricorrente conclude, pertanto, per l’annullamento dell’impugnata ordinanza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, perchè propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4^, sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. 5^, sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2^, sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).
Inoltre il ricorso è inammissibile anche per violazione dell’art. 591 c.p.p., lett. c) in relazione all’art. 581 c.p.p., lett. c), perchè le doglianze (sono le stesse affrontate dal Tribunale) sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il Tribunale – richiamando anche il contenuto dell’ordinanza, l’informativa di reato e gli atti ad essa allegati (pagine da 1 a 4 dell’impugnata ordinanza)- ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni dalle quali desume i gravi indizi a carico dell’imputato per i reati di cui sopra. A solo titolo di esempio si vedano in proposito la pagine 4 e 5 dell’impugnata ordinanza, nelle quali vengono analizzate, dettagliatamente, le dichiarazioni delle due parti offese ( C. e M.), di un occasionale teste oculare ( E.) e del loro sicuro e immediato riconoscimento del ricorrente quale autore del reato di cui sopra. Elementi dai quali il Giudice di merito ricava, correttamente, i gravi indizi di reato a carico del F.. A fronte di ciò il ricorrente contrappone solo generiche contestazioni.
In proposito questa Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).
Appaiono generiche anche le doglianze proposte dal ricorrente contro la decisione del Tribunale sull’eccezione di utilizzabilità delle dichiarazioni delle parti offese (straniere) assistite da una persona amica che traduceva le loro affermazioni. Infatti il Tribunale ha correttamente applicato il principio più volte affermato da questo Suprema Corte, condiviso dal Collegio, che il diritto all’interprete per il soggetto che non conosca la lingua italiana va riconosciuto solo all’imputato; pertanto le dichiarazioni rese nel processo da altri soggetti stranieri non sono regolamentate dall’art. 143 c.p.p., ostandovi il principio della tassatività delle nullità di cui all’art. 177 c.p.p.. Quindi in tema di ricezione di denuncia orale e di successiva ricognizione fotografica della persona offesa di nazionalità straniera, la mancata nomina di un interprete, trattandosi di dichiarazioni e atti compiuti da persona diversa dall’imputato, non è causa di inutilizzabilità nè di nullità degli atti medesimi, (in un caso analogo, pertanto, questa Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito nella quale era stata riconosciuta la piena validità delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, con l’ausilio di una suora, da una cittadina nigeriana, che possedeva una conoscenza elementare della lingua italiana; Si vedano Sez. 6, Sentenza n. 22420 del 20/04/2005 Ud. – dep. 14/06/2005 – Rv. 232089; Sez. 3, Sentenza n. 370 del 23/11/2006 Cc. – dep. 11/01/2007 – Rv. 235848. In applicazione del principio di cui sopra questa Corte ha ritenuto legittimamente utilizzabili, a seguito di lettura dibattimentale per sopravvenuta impossibilità di ripetizione, la denuncia della persona offesa e la ricognizione fotografica effettuata da straniera assistita da connazionale, capace di esprimersi in lingua italiana; Si veda Sez. F, Sentenza n. 38508 del 13/09/2002 Ud. – dep. 18/11/2002 – Rv. 222795).
Altrettanto generica e manifestamente infondata appare l’eccezione di inutilizzabilità del riconoscimento dell’indagato quale autore del reato – effettuato dalle Parti Offese e dall’occasionale testimone nell’immediatezza del fatto – perchè ritenuto assunto "in forma irrituale".
Infatti questa Corte Suprema ha più volte ribadito che l’individuazione della persona responsabile del reato può essere acquisita anche mediante l’assunzione di una testimonianza, perchè la ricognizione formale di cui all’art. 213 c.p.p. non è, per il principio della non tassatività dei mezzi di prova, l’unico strumento probatorio idoneo al fine. (Sez. 2, Sentenza n. 3635 del 10/01/2006 Ud. – dep. 30/01/2006 – Rv. 233338). Deve, quindi, ritenersi valido e processualmente utilizzabile – ad esempio – il riconoscimento operato in udienza dalla persona offesa, nel corso dell’esame testimoniale, nei confronti dell’imputato presente. Anche nella vigenza del nuovo cod. proc. pen., invero conserva validità il principio secondo cui siffatti riconoscimenti vanno tenuti distinti dalle ricognizioni vere e proprie, costituendo essi atti di identificazione diretta, effettuati mediante dichiarazioni orali non richiedenti l’osservanza delle formalità prescritte per le dette ricognizioni. Nè in contrario si può invocare un preteso "principio di tassatività del mezzo probatorio", in forza del quale, nella specie, posta la esistenza di uno specifico mezzo probatorio costituito dalla ricognizione formale, gli effetti propri di quest’ultima non potrebbero essere perseguiti mediante altro mezzo di natura diversa come, appunto, quello costituito dall’esame testimoniale nel cui corso si dia luogo al riconoscimento diretto.
Non vi è, infatti, elemento alcuno sulla cui base possa affermarsi che il suddetto "principio di tassatività" sia stato recepito dal vigente codice di rito, ma anzi la presenza dell’art. 189 c.p.p., che prevede l’assunzione di prove non disciplinate dalla legge, appare dimostrativa del contrario. (Sez. 4, Sentenza n. 34354 del 27/05/2004 Ud. – dep. 11/08/2004 – Rv. 229086).
In relazione, poi, alla doglianza sulla sussistenza delle esigenze cautelari (2 motivo di ricorso), si deve osservare che il Tribunale del riesame ha esattamente valutato, per quanto riguarda il pericolo di cui all’art. 274 c.p.p., lett. C, sia l’oggettiva gravità e modalità di esecuzione dei fatti sia la personalità dell’indagato gravato da precedenti penali specifici e da numerosi precedenti dattiloscopici.
Sulla correttezza di tali considerazioni del Tribunale è sufficiente richiamare il principio giuridico, più volte ribadito da questa Corte e condiviso dal Collegio, che in tema di esigenze cautelari, il pericolo di reiterazione del reato può essere desunto dai criteri stabiliti dall’art. 133 c.p., tra i quali sono ricompresi le modalità e la gravità del fatto, sicchè non deve essere considerato il tipo di reato o una sua ipotetica gravità, bensì devono essere valutate – come congruamente è stato operato nel caso di specie – situazioni correlate con i fatti del procedimento ed inerenti ad elementi sintomatici della pericolosità dell’indagato.
(Sez. 4, Sentenza n. 34271 del 03/07/2007 Cc. – dep. 10/09/2007 – Rv.
237240). Inoltre, in tema di misure cautelari, nella verifica sulla sussistenza delle esigenze cautelari legate al pericolo che l’indagato o l’imputato commetta alcuni gravi delitti o comunque delitti della stessa specie di quello per cui si procede, il giudice deve tenere conto anche dei precedenti giudiziaria che, rilevano, oltre che nel giudizio sulla capacità a delinquere, in ogni altro caso in cui occorra procedere ad una valutazione della personalità dell’indagato o dell’imputato. (Sez. 6, Sentenza n. 29405 del 11/07/2006 Cc. – dep. 24/08/2006 – Rv. 234974).
La motivazione di cui sopra appare adeguata a spiegare la scelta della custodia cautelare in carcere quale unica misura idonea a prevenire il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie e di sottrazione all’espiazione dalla pena in caso di condanna (desunta dal Tribunale, dalla mancanza di una fissa dimora, di una stabile attività lavorativa in Italia e dal fatto che abbia fornito in più occasioni false generalità), alla luce dell’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, secondo il quale in tema di scelta e adeguatezza delle misure cautelari, ai fini della motivazione del provvedimento di custodia in carcere non è necessaria un’analitica dimostrazione delle ragioni che rendono inadeguata ogni altra misura, ma è sufficiente che il giudice indichi, con argomenti logicogiuridici tratti dalla natura e dalle modalità di commissione dei reati nonchè dalla personalità dell’indagato, gli elementi specifici che, nella singola fattispecie, fanno ragionevolmente ritenere la custodia in carcere come la misura più adeguata ad impedire la prosecuzione dell’attività criminosa, rimanendo in tal modo superata e assorbita l’ulteriore dimostrazione dell’inidoneità delle subordinate misure cautelari. (Cass. Sez. 1^ sent. n. 45011 del 26.9.2003 dep. 21.11.2003 rv 227304).
E’ evidente, quindi, che le censure proposte dal ricorrente pur investendo formalmente la motivazione del provvedimento impugnato o la conformità dello stesso ai presupposti giuridici che lo giustificano, in realtà si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito. Tali censure sono pertanto improponibili, perchè superano i limiti cognitivi di questa Suprema Corte, che, quale giudice di legittimità, deve far riferimento solo all’eventuale mancanza della motivazione o alla sua illogicità o contraddittorietà. (Si vedano fra le tante: C SU 12/12/1994, De Lorenzo, CED199391; C 6, 15/05/2003, P., GD 2003, n 45, 93).
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti; inoltre, poichè dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter – che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perchè provveda a quanto stabilito dal comma 1 bis del citato art. 94.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di mille Euro alla cassa delle ammende. Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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