Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 23-03-2011) 07-06-2011, n. 22743

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

l’avv. Calì.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propongono ricorso per cassazione:

– il Procuratore Generale della Repubblica di Caltanissetta ex art. 572 c.p.p., nonchè – A.F. in proprio e nella qualità di procuratore generale di A.N.a.l.s.d.

C.d.a.d.C.i.d.2.o.2.c.l.

q.e.s.r.q.d.c.d.p.g.

p.n.c.d.Amato Francesco e.Amato Nicolò i.

o.a.r.d.d.c.e.a.c.i.3.

o.2.P.l.l.C.n.h.a.g.i.

r.i.l.f.l.c.d.n.p.e.a.5.

c.p.p.l.o.c.i.s.d.d.

p.n.p.d.a.a.g.

E.s.c.a.i.d.a.o.l.r.d.

Sc.Sa., magistrato, sostenendo, in una memoria autorizzata e depositata da essi nella qualità di avvocati – nel corso di una causa civile promossa per il risarcimento del danno, nell’interesse di propri clienti (i coniugi Su. – C.), contro un medico (dott. L.F.G.) oltre che contro la Usl e le assicurazioni – che il detto magistrato aveva svolto in maniera del tutto inappropriata le proprie finzioni di Procuratore della Repubblica, titolare delle indagini in precedenza avviate contro il detto medico per i reati di aborto e lesioni colpose.

Più in particolare i detti legali erano accusati di avere sostenuto, nella citata memoria, che nel corso delle indagini svolte dal dott. S. erano stati calpestati i diritti umani e che vi era il dubbio che la decisione del detto magistrato di richiedere l’archiviazione fosse attribuibile a ragioni diverse da quelle previste dal codice di rito e cioè a non precisati motivi non istituzionali.

Al riguardo avevano allegato alla memoria un esposto inviato al CSM nel 2000 (ossia prima del volontario trasferimento del dott. S. dalla Procura di Nicosia) nel quale l’avv. A.F. accusava il dott. S. di avere voluto favorire il dott. L.F. con talune opinabili scelte processuali.

I giudici dell’appello ricordavano come fosse rimasto accertato che la memoria nella causa civile era servita a bilanciare il dato della archiviazione del procedimento avviato per gli stessi fatti nella sede penale, affermandosi in essa che l’archiviazione sarebbe stata, appunto, viziata da irregolarità commesse dal magistrato titolare delle indagini.

Quanto all’allegato esposto, già diretto al CSM, era rimasto appurato che esso era stato inviato dalla C. e da altri soggetti, in relazione a presunte irregolarità compiute dal magistrato nel corso delle indagini preliminari a carico del dott. L.F..

Della memoria il dott. S. aveva avuto cognizione il 29 marzo 2004 ed aveva presentato querela, tempestivamente, il 24 giugno successivo.

La Corte risolveva dapprima la questione, sollevata dalla difesa in primo grado, relativa alla assunta incompetenza del Tribunale di Enna, secondo il disposto dell’art. 11 c.p.p..

La operatività di tale precetto, secondo la difesa, avrebbe dovuto valutarsi con riferimento non già al momento del deposito della memoria nella causa civile (2003) ma al momento, precedente, della presentazione dell’esposto al CSM (2000), condotta contestata nel capo di imputazione tanto da avere dato luogo alla menzione del reato continuato ex art. 81 c.p.: nel 2000 il dott. S. rivestiva ancora le funzioni Procuratore di Nicosia, ricadente nello stesso distretto del Tribunale di Enna.

La Corte di merito rilevava, in contrario, che il momento da considerare agli effetti del radicamento della competenza era quello della presentazione della memoria nella causa civile cui corrispondeva la data di consumazione del reato indicata nel capo di imputazione.

L’esposto al CSM contro il dott. S., infatti, veniva in considerazione nel processo che ci occupa non già per la sua presentazione all’organo competente in via disciplinare ma per la sua allegazione ad una causa civile per il risarcimento del danno fra parti terze.

E alla data del deposito della memoria il dott. S. non prestava più servizio alla Procura di Nicosia essendosi trasferito, dal 2002, a Messina.

La seconda questione affrontata dalla Corte nissena era quella della tempestività o meno della querela.

La difesa aveva sostenuto essere necessari atti istruttori per accertare la data di conoscenza della memoria da parte del dott. S. e quindi la tempestività della querela.

La Corte di merito aveva ritenuto i detti atti superflui poichè vi era la prova della conoscenza della detta memoria, da parte del querelante, proprio alla data da esso dichiarata. Egli aveva cioè sostenuto di avere avuto notizia della memoria degli avv.ti A. – legali come detto dei Su. – C. nella causa civile – quando aveva ricevuto dall’avvocato (Cascino) della controparte di costoro (dott. L.F.) una lettera raccomandata con la richiesta di conoscere l’esito dell’esposto al CSM per approntare le necessarie difese nel termine assegnato del 30 aprile 2004.

Sulla lettera era leggibile in modo chiaro la data del 24 marzo 2004 come quella di consegna del plico all’Ufficio postale da parte del mittente. La data di ricezione da parte del dott. S. non era leggibile ma non poteva che essere successiva al 24 marzo. Con la conseguenza che la querela, del 24 giugno, era tempestiva.

Nel merito la Corte evidenziava che la condotta tenuta dagli imputati era stata tale da integrare soggettivamente e oggettivamente il reato contestato per avere insinuato il gratuito dubbio che il dott. S. avesse condotto le indagini a carico del dott. L.F. in maniera negligente o, peggio, in mala fede al solo scopo di favorirlo e di occultare la effettiva eziologia delle gravi lesioni prenatali subite dalla piccola Su.Co..

Tuttavia la stessa Corte riteneva che fosse applicabile al causa di non punibilità ex art. 598 c.p..

Sia la memoria che l’allegazione ad essa dell’esposto erano parse finalizzate in modo esclusivo a sostenere la tesi del diritto al risarcimento del danno, nonostante la archiviazione della condotta denunciata anche in sede penale, archiviazione, dunque, che si voleva prospettare come irrilevante e quindi non preclusiva della introduzione, nella causa civile, di nuovi mezzi istruttori. La detta causa contro il dott. L.F. era infatti stata avviata in ragione di una sua condotta professionale negligente, a prescindere dall’esito del procedimento penale.

Deduce il Procuratore Generale:

-in primo luogo che vi sarebbe una manifesta illogicità tra l’affermazione contenuta nella sentenza secondo cui la condotta contestata sarebbe stata lesiva della reputazione della persona offesa perchè volta "unicamente" ad insinuare il dubbio sulla correttezza dell’operato del Procuratore, e la affermazione, di segno opposto, secondo cui la detta memoria sarebbe stata funzionale all’esito della causa ex art. 598 c.p..

-in secondo luogo (ma primo motivo) che vi sarebbe violazione dell’art. 598 c.p.. La causa di non punibilità in questione è infatti ammessa solo per eventuali offese che abbiano relazione con la materia del contendere e che siano vere: per offese cioè legate da nesso di strumentalità, diretto e non mediato, rispetto alle tesi sostenute nella controversia giudiziaria. Diversamente si sarebbe in presenza esclusivamente di giudizi apodittici sulla persona offesa.

Ciò posto, sostiene il PG che le offese al PM nel caso di specie non potevano ritenersi scriminate, perchè estranee ed esorbitanti dall’oggetto della causa che riguardava soggetti diversi dal dott. S. ed inoltre aveva ad oggetto la eventuale responsabilità per colpa professionale di un medico, evenienza rispetto alla quale era ininfluente la condotta tenuta successivamente dal magistrato inquirente;

– Con il secondo motivo di ricorso si deduce il vizio di motivazione.

La Corte nissena aveva riconosciuto, in una parie della motivazione, che le opzioni defensionali degli avv.ti A. potevano dirsi maldestre essendo sufficiente la richiesta di una accurata indagine medico-legale; anche gli imputati, nella memoria presentata al giudice civile, avevano sostenuto la irrilevanza dell’operato del giudice penale.

Ne doveva logicamente conseguire la esclusione della causa di non punibilità che invece si configura sul presupposto di una connessione funzionale tra le accuse e la causa petendi.

Inoltre, aggiunge l’impugnante, la detta causa di non punibilità non riguarda considerazioni su qualsiasi soggetto ma solo quelle afferenti le parti e i patrocinatori.

Infine si segnala che la esimente in parola non trova applicazione in relazione ad esposti e denunzie i quali, viceversa, integrano il reato di diffamazione, nella presenza degli altri presupposti, e non possono pertanto ritenersi penalmente irrilevanti sol perchè depositati come documenti in una causa civile.

-Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 597 e 581 c.p.p..

La operatività della causa di non punibilità era stata evocata non nell’appello ma nelle richieste conclusive e per giunta senza il rispetto dei criteri posti dall’art. 581 c.p.p., evenienza che rendeva il motivo di gravame inammissibile.

Deducono gli imputati 1) il vizio di motivazione sulla dedotta incompetenza del Tribunale di Enna. Infatti la difesa reitera l’argomento proposto al giudice dell’appello, secondo cui il momento iniziale della condotta delittuosa sarebbe stato quello della presentazione dell’esposto al CSM, con la conseguenza della competenza del Tribunale di Roma.

In più richiama quanto espresso sul tema dalle Sezioni unite nella sentenza n. 292 del 2004. Secondo i ricorrenti le Sezioni unite avrebbero proposto una interpretazione rafforzata dell’art. 11 c.p.p., in base alla quale la deroga alla competenza dovrebbe aversi in relazione alla continuatività per un arco temporale significativo, dell’incarico svolto – dal magistrato coinvolto nel procedimento penale – nell’ufficio giudiziario compreso nel distretto ove il processo dovrebbe essere celebrato.

E per l’appunto, il dott. S. aveva svolto le funzioni di magistrato della procura di Nicosia per un decennio fino al 2001, situazione che dava luogo a rapporti di amicizia e di colleganza nell’ambiente giudiziario del distretto di Caltanissetta;

2) la violazione dell’art. 124 c.p. e dell’art. 337 c.p.p..

La difesa aveva chiesto la acquisizione dell’originale della busta contenente la lettera dell’avv. Cascino, dalla quale il dott. S. avrebbe avuto conoscenza della memoria. Invece la Corte aveva consentito la acquisizione di una mera fotocopia ed accreditato la versione sul punto resa dalla persona offesa.

La busta appariva piccola e non in grado di contenere i fogli cui la stessa avrebbe fatto riferimento.

La querela, dal canto suo, non recava il timbro di ricezione da parte dell’Ufficio adito e la Corte, alla quale il tema era stato devoluto, non aveva replicato alcunchè. La querela inoltre non recava la autentica della firma dell’estensore.

3) il vizio di motivazione in ordine alla richiesta di esaminare testi in primo grado.

La Corte era giunta al rilievo della esimente, pretermettendo i motivi di ricorso sulla insussistenza del reato (sub B) e D) dell’appello. La Corte avrebbe dovuto valutare il comportamento tenuto dal dott. S. così come stigmatizzato dal Procuratore generale nel procedimento disciplinare, mentre non sarebbe riuscita a "esternare il nesso di strumentalità fra l’operato degli avvocati e quanto accaduto nel processo civile", tenuto conto dell’ombra" che gravava sul pregresso risultato conseguito nella sede penale. La Corte avrebbe dovuto inoltre censurare la mancata ammissione della deposizione dell’avv. A.F., sul tema della negligenza della persona offesa.

4) la violazione degli artt. 468 e 495 c.p.p., art. 596 c.p.p., comma 3.

Ancora sulla mancata risposta ai motivi di appello sub B) e C), miranti alla assoluzione piena, i ricorrenti lamentano la mancata censura alla ordinanza del primo giudice che non aveva ammesso i testi della difesa. La lista testi, giudicata generica dal Tribunale, era invece ricca di dettagli e la Corte d’appello avrebbe dovuto rilevarlo riaprendo la istruttoria dibattimentale. In più si segnala che la questione formava oggetto di un vero e proprio diritto del contumace ( N.A.) ex art. 603, comma 4.

Erano stati violati anche l’art. 495 sul diritto alla ammissione della prova contraria e l’art. 596 c.p. che da all’imputato il diritto di provare la verità del fatto.

5) la violazione dell’art. 208 c.p.p..

La richiesta di audizione dell’imputato contumace A.N. era stata disattesa senza motivazione.

I ricorsi degli imputati sono inammissibili mentre infondato è il gravame del Procuratore Generale.

In ordine a tale ultima impugnazione si osserva che la tesi del Procuratore Generale si basa su quello che appare un errore materiale nella lettura della motivazione esibita dalla Corte d’appello.

Tale motivazione rende infatti evidente che i giudici non hanno affermato, come ritenuto dall’impugnante, che il contenuto della memoria difensiva prodotta nel giudizio civile fu "unicamente" volto ad insinuare nel lettore il dubbio che il magistrato avesse agito in maniera negligente, essendo stato affermato invece che il detto contenuto era "univocamente" volto ad insinuare il detto dubbio. In altri termini la tesi accreditata e sostenuta dalla Corte territoriale è quella del carattere chiaramente offensivo dello scritto- tale da far ritenere integrata la antigiuridicità della condotta- e non anche quella della esclusiva finalità dello scritto alla offesa del magistrato, tale da far escludere, contestualmente, quella della contemporanea finalità difensiva con esso perseguita.

In sostanza i giudici non sono incorsi in alcuna manifesta illogicità nel senso evocato nella premessa del ricorso, essendo passati, dopo il rilievo della offensività dello scritto, a verificare la sua non punibilità per la operatività della esimente dell’art. 598 c.p..

Quanto alla applicazione della detta causa di non punibilità, se ne deve rilevare la correttezza alla luce della completa e logica argomentazione dei giudici dell’appello.

E’ indubbio, invero, che la scriminante di cui all’art. 598 c.p., comma 1, presuppone che le espressioni offensive concernano, in modo diretto ed immediato, l’oggetto della controversia, rilevino ai fini delle argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata e siano adoperate in scritti o discorsi dinanzi all’autorità giudiziaria (v. fra le molte, Rv. 243832).

Ebbene, la Corte d’appello ha offerto una ricostruzione della fattispecie concreta che non esorbita dai limiti della applicata esimente, essendosi posto in evidenza che le espressioni offensive, utilizzate dai ricorrenti nella memoria e riguardanti il modo di esercizio delle funzioni del dott. S., servivano a controbilanciare gli effetti della allegazione di controparte secondo cui, sulla decisione della causa civile, poteva spiegare influenza la circostanza della avvenuta archiviazione della medesima vicenda in sede penale. In entrambe le sedi giudiziarie era infatti dibattuta la questione della riconducibilità del danno patito dalla piccola C. ad una condotta negligente e quindi alla eventuale condotta colposa del medico implicato. Ed è evidente che la esclusione della detta riconducibilità affermata nella sede penale ben avrebbe potuto influire su determinazioni del giudice civile. Con la ulteriore conseguenza che se la conclusione della indagine penale, nel senso del mancato apprezzamento di tale nesso di causalità, fosse stata dovuta a un difetto delle indagini e a una condotta inappropriata del relativo titolare, una simile evenienza avrebbe potuto colorire diversamente la valenza dimostrativa della archiviazione.

Correttamente dunque la Corte nissena ha individuato il nesso funzionale diretto e immediato tra la attribuzione offensiva al magistrato e il petitum della causa civile.

Per quanto osservato, risulta infondato anche il secondo motivo di ricorso del Procuratore Generale.

Deve al riguardo osservarsi che non si apprezza, come del resto anticipato, alcuna palese incongruenza della motivazione posto che la Corte non ha esibito alcuna argomentazione in conflitto logico con la conclusione. In particolare, col sostenere la natura maldestra di talune scelte dei legali, non ha affatto affermato anche che si trattasse di opzioni slegate dalla finalità defensionale perseguita.

La affermazione, cioè che si trattasse di scelte opinabili e non indispensabili non equivale alla affermazione, inesistente in sentenza, che si trattasse anche di scelte avulse dal fine, ma equivale alla tesi, del tutto compatibile con la applicazione della esimente, che i difensori hanno redatto una memoria contenente espressioni, sì offensive, ma nella ottica della linea prescelta, utili ai fini del successo della azione civile.

E’ infine non condivisibile l’assunto del Procuratore Generale sulla non appartenenza all’ambito di operatività della esimente, delle offese che riguardino terzi estranei alla causa nella quale le stesse espressioni sono utilizzate da una delle parti.

Ha infatti evidenziato la giurisprudenza di questa Corte che è sufficiente che le offese provengano dalle parti o dai loro patrocinatori e che concernano l’oggetto della causa o del ricorso pendente innanzi alla autorità giudiziaria o a quella amministrativa, a nulla rilevando che esse siano dirette a persone diverse dalle controparti o dai loro patrocinatori; rientrano pertanto nel campo di operatività della norma anche le offese dirette ai giudici delle precedenti fasi del giudizio o ai loro ausiliari, purchè esse concernano l’oggetto della causa, dal momento che la "ratio legis" è quella di consentire la massima libertà nella esplicazione del diritto di difesa (Sez. 5, Sentenza n. 10087 del 04/04/2000 Ud. (dep. 25/09/2000) Rv. 217523; conf. Rv. 181531).

Per quanto infine concerne la evocazione della giurisprudenza che esclude l’"esposto" dal novero degli scritti a contenuto offensivo suscettibili di rimanere scriminati ex art. 598 c.p., vi è da rilevare che essa non è decisiva nel caso di specie. In primo luogo ne va ricordato il carattere non univoco, essendovi copiosa giurisprudenza sostenitrice dell’orientamento opposto a quello solo indirettamente ricordato nel ricorso (v. Sez. 5, Sentenza n. 33453 del 08/07/2008 Ud. (dep. 14/08/2008) Rv. 241393; Sez. 5, Sentenza n. 44148 del 25/09/2008 Ud. (dep. 26/11/2008) Rv. 241806; Massime precedenti Conformi: N. 6544 del 1998 Rv. 212138.

In secondo luogo va sottolineato che, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, vi è il riconoscimento, in linea di principio, da parte della giurisprudenza di legittimità, che anche l’esposto indirizzato alla autorità disciplinare e contenente espressioni offensive ben può andare esente da responsabilità penale per la eventuale ricorrenza, comunque, della generale causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen., sub specie dell’esercizio di un diritto di critica, costituzionalmente tutelato dall’art. 21 Cost. e da ritenersi prevalente rispetto al bene della dignità personale, pure tutelato dalla Costituzione agli artt. 2 e 3. (v. Rv. 239825 conf. Rv. 140038).

In terzo luogo – e il rilievo è decisivo – è da sottolineare che l’esposto, nella specie, non è considerato in quanto tale, ossia come atto introduttivo di una procedura disciplinare, ma, come accertato dalla Corte di merito, solo nel suo contenuto, richiamato per relationem nella memoria civile e incorporato in essa. Con l’effetto di rimanere assoggettato in tutto alle norme che riguardano gli scritti offensivi prodotti dalla parte di un giudizio civile.

Infine appare infondato anche l’ultimo motivo di ricorso.

E’ pacifico per la giurisprudenza che l’esimente di cui all’art. 598 cod. pen. costituisca applicazione estensiva del più generale principio posto dall’art. 51 cod. pen., in quanto riconducibile all’art. 24 Cost. (v. tra le molte Rv. 234008; Massime precedenti Conformi: N. 7000 del 2002 Rv. 221388).

Si tratta dunque di una esimente e la sussistenza di essa va apprezzata dal giudice, una volta che la vicenda sia acclarata in fatto, anche di ufficio, per il disposto dell’art. 129 c.p.p. che lo prevede con riferimento a tutte le formule proscioglitive compresa quella "perchè il fatto non costituisce reato" che, per l’appunto, copre anche la eventualità della sussistenza della causa di giustificazione (Sez. U, Sentenza n. 40049 del 29/05/2008 Ud. (dep. 28/10/2008) Rv. 240814).

Nella specie, dunque, la mancata presentazione di uno specifico motivo di appello avrebbe impedito l’obbligo di motivazione sul diniego della esimente ma non anche, una volta sollecitato il potere di ufficio nella discussione finale, l’apprezzamento delle circostanze di fatto incontroverse, ai fini della verifica della sussistenza della causa di giustificazione.

Il ricorso degli imputati è invece, come anticipato, inammissibile.

Il primo motivo è tale perchè costituisce la riedizione del corrispondente motivo di appello, già fondatamente rigettato dalla Corte di merito.

Nella giurisprudenza di questa Corte si sostiene che devono considerarsi generici i motivi di ricorso per Cassazione consistenti nella ripetizione delle doglianze esposte in sede di appello; e ciò sia in quanto il carattere autonomo di ogni atto di impugnazione postula che esso abbia in sè tutti i requisiti voluti dalla legge per provocare e consentire il controllo devoluto al giudice superiore, sia in quanto, in quel caso, i motivi di gravame non assolvono la loro tipica funzione di critica, ma si risolvono in una mera apparenza (Rv. 179874). Massime Conformi: Rv. 177306 Rv. 173594 Rv. 163728 Rv. 155201; Rv. 186143; Rv. 231708. Nella specie la Corte territoriale ha argomentato sulle ragioni della competenza del Tribunale di Enna, non ricorrendo i presupposti per la deroga prevista dall’art. 11 c.p.p. in quanto il dott. S., all’epoca della presentazione della memoria – che rappresenta l’atto consumativo del reato, integrato, appunto dalla presentazione al giudice civile della detta memoria e di copia dell’esposto al CSM – non esercitava più le funzioni nella Procura compresa nel distretto di Caltanissetta. A tali affermazioni i ricorrenti oppongono argomentazioni irrilevanti non risultando neppure dalla sentenza delle Sezioni unite n. 292 del 2004, evocata nel ricorso, che l’art. 11 c.p.p. debba trovare applicazione oltre i limiti oggettivi descritti testualmente nella norma stessa.

Il secondo motivo è manifestamente infondato.

Debbono ribadirsi in primo luogo le considerazioni sopra svolte sulla inammissibilità di quelle censure che costituiscono mera ripetizione di analoghi motivi di appello, già motivatamente disattesi dal giudice a quo.

Sulle doglianze riguardanti invece la asserita inesistenza di valida querela, la Corte territoriale non risulta avere replicato.

Le ricerche che la questione posta dai ricorrenti ha reso indispensabili da parte di questa Corte di cassazione hanno tuttavia fatto emergere che la querela era stata regolarmente presentata nella forma scritta dal dott. S. il quale l’aveva consegnata negli Uffici della Sezione di PG della Procura di Messina il 24 giugno 2004. Il pubblico ufficiale ricevente ha identificato il proponente la querela, appunto il dott. S., facendogli ratificare l’atto con dichiarazione resa a verbale, e sottoscritta dal querelante accanto alla sottoscrizione del redigente l’atto.

Tutti i residui motivi sono, pure, manifestamente infondati.

Con essi si lamenta la lesione di diritti difensivi finalizzati, attraverso la escussione di testi o l’esame degli imputati, a dimostrare la piena innocenza degli imputati e a dare la prova liberatoria ex art. 596 c.p..

Sotto tale ultimo profilo deve si evidenzia in primo luogo la mancata dimostrazione dell’interesse, in capo ai ricorrenti, ad impugnare una sentenza di assoluzione fondata sul riconoscimento di una causa di non punibilità (ex art. 598 c.p.) al fine di conseguire altra pronuncia assolutoria basata su una diversa causa di non punibilità (ex art. 596 c.p.).

Si è sostenuto invero che sussiste l’interesse dell’imputato a impugnare una pronuncia di proscioglimento quando questa sia intervenuta con la formula "perchè il fatto non costituisce reato" ma si miri ad ottenere l’assoluzione per insussistenza del fatto, attesa la diversità degli effetti derivanti dalla formula adottata con riferimento all’efficacia della sentenza nei giudizi amministrativo, civile o disciplinare (Rv. 226719).

Non è indicata invece la diversità di effetti connessa alla applicazione dell’una o dell’altra causa di non punibilità.

Sotto il primo profilo, invece, ossia nella prospettiva della assoluzione piena sul fatto, occorre ricordare che questa Corte ha rilevato come la mancata assunzione di una prova decisiva possa costituire motivo di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. d), solo quando si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia di primo grado, che avrebbero dovuto essere ammesse, secondo il disposto dell’art. 603, comma 2, sui presupposti stabiliti all’art. 495 c.p.p., comma 1. Negli altri casi la decisione istruttoria del giudice di appello è censurabile, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), sotto il solo profilo della mancanza o manifesta illogicità della motivazione della sentenza, come risultante dal testo del provvedimento impugnato (Rv. 227706).

Tanto premesso, le censure dei ricorrenti non sono ammissibili ove debbano intendersi come deduzione di mancata ammissione di prova decisiva, non contenendo la indicazione, nel ricorso, del peso e della decisività del risultato della prova pretermessa.

In riferimento al vizio di motivazione, invece esplicitamente dedotto, non può non apprezzarsi parimenti un profilo di inammissibilità del motivo di gravame per mancato rispetto dei criteri di cui all’art. 581 c.p.p..

I ricorrenti hanno cioè omesso di specificare le ragioni in fatto e in diritto sulle quali le doglianze sarebbero basate e ciò per consentire alla Corte di verificare la rilevanza e l’interesse concreti alle deduzioni effettuate.

II giudice di merito non è infatti tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Rv. 233187).

Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna di ciascuno dei privati ricorrenti al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in Euro 1000.

Nulla è dovuto a titolo di spese in favore della parte civile, essendo rimasta confermata la assoluzione degli imputati.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso del Procuratore generale.

Dichiara inammissibili i ricorsi degli imputati e condanna ciascuno al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma di Euro 1000.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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