Cass. pen., sez. Feriali 15-09-2008 (02-09-2008), n. 35285 Mandato di arresto europeo – Consegna per l’estero – Motivi di rifiuto – Reati commessi in parte in Italia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Il 29.2.2008 in Rimini il cittadino rumeno G.D.O. è stato sottoposto ad arresto provvisorio di p.g. per fini estradizionali, risultando da informative Interpol ricercato dalle autorità della Repubblica di Romania perchè colpito da ordine di esecuzione della pena di otto anni di reclusione inflittagli con sentenza di condanna in data 3.3.2005 del Tribunale rumeno di Galati, divenuta irrevocabile (appello respinto dalla Corte di Appello di Galati, ricorso avverso la sentenza di appello respinto dalla Corte di Cassazione), per il reato di concorso in tratta di esseri umani finalizzata all’esercizio della prostituzione, commesso in (OMISSIS), punito dalla legislazione penale rumena (L. n. 678 del 2001, art. 12). Pena espianda in ordine alla quale le ricerche diramate dall’Interpol segnalavano l’intento delle autorità rumene di richiedere l’estradizione del G..
Il Presidente della competente Corte di Appello di Bologna il 3.3.2008 ai sensi dell’art. 716 c.p.p. ha convalidato l’arresto del G. ed ha applicato allo stesso la misura cautelare della custodia in carcere, procedendo poi il 6.3.2008 all’audizione personale del prevenuto, che non ha prestato consenso ad una sua estradizione in Romania senza formalità.
Con comunicazione in data 7.3.2008 (pervenuta il 10.3.2008) il Ministero della Giustizia ha trasmesso alla Corte di Appello di Bologna il mandato di arresto europeo emesso nei confronti del G. (a seguito del suo avvenuto arresto provvisorio in Italia) il 6.3.2008 dal Tribunale di Galati ai fini della esecuzione della suddetta pena detentiva di otto anni di reclusione.
Il successivo 11.3.2008 il Presidente della Corte di Appello di Bologna ha proceduto a nuova audizione del G., che – in relazione al mandato di arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria rumena – ha ribadito di non consentire ad una sua consegna immediata. Con ordinanza collegiale dello stesso 11.3.2008 la Corte bolognese, ritenendo (anche con il supposto conforto di una decisione di legittimità considerata in termini: Cass. Sez. 6, 22.5.2007 n. 20627, P.G. c. Moraru, rv. 236620) la già instaurata procedura di estradizione preclusiva del tramutamento nella procedura di consegna esecutiva del m.a.e. rumeno, ha dichiarato inammissibile tale ultima procedura di consegna prevista dalla L. 22 aprile 2005, n. 69 ed ha disposto continuarsi l’attività processuale con le forme della procedura di estradizione ex art. 697 c.p.p. e ss..
Nel prosieguo con ordinanza del 18.3.2008 la stessa Corte felsinea, rilevato – da un lato – che l’arresto del G. era avvenuto prima della richiesta di consegna formalizzata con il mandato di arresto europeo del 6.3.2008 e senza segnalazione nel S.I.S. e – da un altro lato – che nell’ambito della procedura estradizionale non era intervenuta la richiesta ministeriale di mantenimento della misura coercitiva ex art. 716 c.p.p., comma 4, ha disposto la revoca della misura custodiale carceraria applicata al G. di cui ha ordinato la liberazione.
2.- Il Procuratore Generale della Repubblica di Bologna ha impugnato per Cassazione le due ordinanze della Corte territoriale in data 11.3.2008 e 18.3.2008, deducendone la giuridica erroneità (violazione di legge).
Questa Corte di Cassazione con sentenza resa il 6.5.2008 (Sez. 6, sent. n. 27341), in accoglimento del proposto ricorso, ha annullato entrambe le denunciate ordinanze con rinvio alla stessa Corte di Appello di Bologna per nuovo esame. Annullamento determinato dalla condivisa erroneità del giudizio della Corte bolognese in ordine alla già instaurata procedura estradizionale, pur in situazione di assenza di una richiesta di estradizione dell’autorità rumena pervenuta al Ministro della Giustizia, soltanto il cui successivo inoltro al competente Procuratore Generale distrettuale di Bologna è idoneo a determinare l’inizio – instaurazione del procedimento estradizionale ai sensi dell’art. 703 c.p.p., comma 1. Di tal che nel caso di specie l’invio da parte del Guardasigilli al Presidente della Corte di Appello di Bologna del m.a.e. emesso il 6.3.2008 dall’autorità giudiziaria rumena nei confronti del G. non ha dato luogo ad alcuno stato di litispendenza tra procedura estradizionale e procedura passiva di consegna esecutiva del m.a.e., essendo stata ritualmente instaurata soltanto questa seconda procedura. Conclusione decisoria cui questa Corte è pervenuta sulla base di precedenti arresti giurisprudenziali di legittimità in termini (Cass. Sez. 6, 24.10.2007 n. 40526, Stuparu, rv. 237665;
Cass. Sez. 6, 8.11.2007 n. 47564, Vascau, rv. 238092).
3.- All’esito del susseguente giudizio di rinvio la Corte di Appello di Bologna con la sentenza del 10.7.2008 indicata in epigrafe ha dichiarato insussistenti le condizioni per eseguire il m.a.e. rumeno a carico del G., configurandosi la causa di rifiuto della consegna prevista dalla L. n. 69 del 2005, art. 18, lettera p), per essere il m.a.e. relativo a reati da considerarsi commessi – secondo la legge italiana – in tutto o in parte in territorio italiano.
La Corte ha, rilevato, infatti, che dalla sentenza di appello rumena pronunciata a carico del G., condannato per il reato di tratta di persone finalizzata alla prostituzione, emerge che il G. "risulta aver commesso in Italia, almeno in parte, tale reato, dal momento che ebbe ad accompagnare nel nostro Stato, ad esempio nel dicembre 2002, D.S. e C.A., entrambe destinate alla prostituzione (p. 26 sentenza), e che tutti e tre dopo essere arrivati a (OMISSIS) raggiunsero (OMISSIS), dove le ragazze furono sistemate nella villa "(OMISSIS)" ivi esistente". 4.- Avverso questa decisione di rifiuto della consegna del cittadino rumeno propone ricorso per Cassazione il Procuratore Generale della Repubblica di Bologna, articolando, sotto duplice profilo, una unitaria censura incentrata su congiunte proiezioni di violazione di legge (L. n. 69 del 2005, art. 18, lettera p) e di carenza di motivazione.
A.- Adduce in primo luogo il ricorrente che la Corte territoriale ha impropriamente sovrapposto fattispecie incriminatrici diverse, sia nella loro astratta tipizzazione normativa (tratta di persone dalla Romania per finalità di prostituzione, punita dalla legislazione penale speciale rumena; sfruttamento della prostituzione ex L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, comma 1, n. 8), sia nella loro concreta manifestazione esecutiva: "tra il reato commesso in Romania e il reato commesso in Italia può esservi continuità ma non certo identità, trattandosi di due distinti reati, così che non può affermarsi che parte del reato per cui è condanna definitiva sia stato perpetrato nel territorio italiano". A sostegno di tale assunto osserva il ricorrente P.G. che, in base alle emergenze fattuali desumibili dagli atti della procedura di consegna, le due giovani rumene ( D.S. e C.A.), che dalle sentenze rumene di primo e di secondo grado risultano essere state specificamente "tratte" dal G. a trasferirsi in Italia (con la fraudolenta prospettiva della promessa di dover ivi lavorare in un ristorante), sono entrate in Italia munite di un regolare passaporto turistico e non sono tra le vittime del reato di sfruttamento della prostituzione in danno di quattro giovani connazionali per cui il G. risulta condannato in primo grado in Italia con sentenza 10.5.2005 del Tribunale di Ravenna (fatto reato commesso nell'(OMISSIS)).
B.- In ogni caso, prospettando un secondo (subordinato o complementare) argomento censorio, il ricorrente deduce come con l’impugnata sentenza la Corte di Appello di Bologna abbia omesso di apprezzare la latitudine del caso di rifiuto di consegna di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 18, lettera p), in relazione al connesso caso di rifiuto di consegna per litispendenza previsto dal citato art. 18, lett. o).
Ad avviso del ricorrente i due casi di rifiuto di consegna vanno interpretati unitariamente.
Dalla previsione citato art. 18, lett. o) si ricava il duplice criterio di giudizio, in rapporto ad una medesima ("stesso fatto") condotta criminosa (ovviamente – deve qui aggiungersi – procedibile o perseguibile anche in Italia), della preminenza o priorità della giurisdizione italiana (e delle corrispondenti esigenze cautelari o esecutive) rispetto alle esigenze cautelari dell’autorità giudiziaria straniera e – viceversa – della preminenza delle esigenze di giurisdizione esecutiva penale (sentenza definitiva di condanna) dell’autorità giudiziaria straniera rispetto alle esigenze di natura processuale della giurisdizione italiana (pendenza di un procedimento penale per gli stessi fatti oggetto del m.a.e.).
Il caso previsto dalla successiva lettera p) dell’art. 18 disciplinerebbe l’ipotesi in cui non sarebbe stato ancora instaurato in Italia un procedimento penale per i fatti oggetto del m.a.e. perseguibili in tutto o in parte anche in Italia, siccome qui commessi in tutto o in parte, dei quali l’autorità giudiziaria italiana acquisisca contezza (notitia criminis) soltanto attraverso il procedimento di consegna instaurato per l’esecuzione del m.a.e. dello Stato comunitario richiedente. Fatti per i quali, in aderenza al principio di obbligatorietà dell’azione penale, dovrà (dovrebbe) necessariamente promuoversi un procedimento penale in Italia.
Ciò che darebbe luogo alla situazione contemplata dal citato art. 18, lett. o), con applicazione del ridetto principio di preminenza della giurisdizione esecutiva dello Stato di emissione del m.a.e.
(giudicato estero).
Ne inferisce il ricorrente che "anche se fosse vero come sostiene la Corte che una parte del reato sia stata commessa in Italia, non potrebbe essere negata la consegna di G. a fronte del giudicato straniero". Per altro tale tesi della cedibilità delle esigenze di giurisdizione cautelare rispetto alle esigenze di giurisdizione esecutiva di uno Stato estero membro della U.E., veicolate dalla emissione di un m.a.e., sussunta sia nella previsione di cui alla lettera o) che in quella della L. n. 69 del 2005, art. 18, lettera p), sarebbe suffragata -secondo il ricorrente P.G.- dal dato per cui nel primo caso un procedimento penale già instaurato in Italia non potrebbe più proseguire (lettera o) e nel secondo caso un procedimento penale italiano non potrà più essere iniziato (lettera p), a simili situazioni ostando il divieto di bis in idem comunitario (art. 54 Convenzione di Schengen).
5.- Il ricorso del Pubblico Ministero è fondato in relazione al primo dedotto profilo di censura, non sembrando condivisibile il secondo complementare motivo di addotta inoperatività del rifiuto di consegna di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 18, lettera p), prospettato dal ricorrente con pur suggestiva analisi.
In vero, pur potendosi convenire che i casi di rifiuto di consegna contemplati dalla L. n. 69 del 2005, lett. o) e p) si mitrano di una comune ispirazione, individuabile – in linea di larga massima – nell’obiettivo di evitare in area comunitaria in seno agli Stati della U.E, duplicazioni di procedimenti e di giudicati ne confronti di cittadini europei, non può non constatarsi – alla stregua di semplici criteri ermeneutici di ordine sistematico – che le due casistiche muovono da presupposti strutturali e procedimentali diversi e non del tutto omologabili. Che altrimenti, ipotizzandosene la sovrapponibilità precettiva, non troverebbe logica spiegazione la previsione di due separate disposizioni normative o casistiche.
La L. n. 69 del 2005, art. 18, lett. o) investe, in un’ottica di statica sincronia ricostruttiva, la nozione di identicità o medesimezza di un fatto costituente reato, ciò che implica una piena simmetrica specularità tra la fattispecie criminosa oggetto di un eventuale procedimento penale nazionale (italiano) e la fattispecie criminosa oggetto di un mandato di arresto europeo. Nel senso che i due fatti, pur se diversamente qualificati per nomen iuris nell’uno e nell’altro ordinamento, fanno registrare piena equivalenza e uniformità di tipizzazione normativa sotto l’aspetto strutturale del contegno antigiuridico penalmente sanzionato (condotta materiale, commissiva od omissiva, ed atteggiarsi dell’elemento soggettivo del reato), dell’evento del reato e della relazione di causalità materiale e giuridica tra condotta ed evento.
La L. n. 69 del 2005, art. 18, lettera p) attiene in via precipua, in un’ottica di dinamica evolutiva e spaziale delle condotte criminose, alle manifestazioni ed applicazioni del criterio di territorialità adottato nell’ordinamento penale italiano (secondo il principio di c.d. ubiquità) ai fini della determinazione del locus commissi delicti con l’art. 6 c.p., comma 2. Criterio in base al quale vanno, dunque, risolti i problemi di spazialità commissiva delle condotte criminose, in uno ai corollari derogatori, afferenti alla punibilità di talune tipologie di reati extraterritoriali, stabiliti dagli artt. 7, 8, 9 e 10 c.p. (reati comuni o politici commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero).
Le due categorie concettuali adottate dalla L. n. 69 del 2005, lett. o) e p) non coincidono nè sono atomisticamente interscambiabili, perchè destinate ad operare disgiuntamente ed in forme affatto diverse e autonome, pur potendo presentare momenti di contatto o di eventuale simultaneità. Nel senso che uno "stesso fatto" criminoso (lett. o), oggetto di un procedimento penale italiano e di un m.a.e., può essere stato commesso o meno soltanto parzialmente in Italia (lett. p: ovviamente secondo i ricordati canoni dettati dall’art. 6 c.p., comma 2). Così del pari un reato a territorialità italiana "parziale" (lett. p) oggetto di un procedimento nazionale può rivestire o non i connotati dell’identicità o medesimezza con un reato oggetto di m.a.e. commesso per la sua restante parte nello Stato europeo di emissione.
Nè, va aggiunto, coincidenti possono considerarsi i referenti effettuali e gli esiti delle due previsioni di rifiuto di consegna in esame. In vero il giudicato penale estero è preso direttamente in considerazione dal disposto della L. n. 69 del 2005, art. 18, lettera o), in relazione al quale può assumere cogenza il divieto di bis in idem sancito dall’art. 54 della convenzione di Schengen (stipulata il 19.6.1990 con adesione senza riserve dell’Italia, che l’ha ratificata con la L. 30 settembre 1993, n. 388). Divieto che costituisce fonte ispiratrice della preclusione del rifiuto di consegna di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 18, lett. o) per fatti sanzionati con condanna definitiva, la cui esecuzione sia oggetto di m.a.e. (l’art. 54 della convenzione di Schengen recita: "Una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra Parte contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato contraente di condanna, non possa più essere eseguita"). Per converso il giudicato extranazionale europeo non spiega incidenza (diversamente da quel che suppone il ricorrente) in riferimento alla operatività del rifiuto di consegna per fatti reato punibili in Italia previsto dalla L. n. 69 del 2005, art. 18, lettera p). In termini più esatti esso giudicato costituisce elemento ininfluente. Sino a statuire l’opzione normativa di precluderne, appunto attraverso il rifiuto della consegna (lettera p) richiesta con il collegato m.a.e., l’esecuzione nello Stato emittente, in tal modo privilegiando le esigenze della giurisdizione nazionale nella loro espressione spaziale (principio di territorialità). Esigenze che non soffrono, quindi, alcuna limitazione sotto l’aspetto della punibilità del reato e dell’obbligatorio esercizio della corrispondente azione penale, salvo nel caso in cui – caso che, solo, preluderebbe alla "ricaduta", come sostiene il ricorrente, nella previsione dell’art. 18, lettera o) – il fatto reato punibile in Italia non si identifichi nei descritti termini di "medesimezza" con il fatto reato oggetto del m.a.e..
I riferimenti dell’ultima parte della disposizione dettata dall’art. 18, lettera p) sono coerenti con gli illustrati principi applicativi, limitandosi – per completezza logica e sistematica – ad estendere il divieto (rifiuto obbligatorio) di consegna a reati improcedibili secondo la legge italiana in ragione della loro consumazione extraterritoriale (con chiaro implicito richiamo alle casistiche di reati riconducibili o non alle ipotesi disciplinate dagli artt. 7, 8, 9 e 10 c.p.).
6.- Tutto ciò chiarito, allora, il tema centrale della odierna regiudicanda di collaborazione comunitaria in materia penale è e rimane quello del verificare se i comportamenti criminosi per cui G.D.O. è stato condannato in Romania con sentenza irrevocabile possano o debbano considerarsi commessi interamente o in parte anche in Italia, rappresentando un risvolto non necessario del tema l’eventualità che quei comportamenti coincidano (identicità o medesimezza strutturale) con il reato o i reati punibili in Italia, se risultanti qui commessi a norma della L. n. 69 del 2005, lettera p), art. 18.
Sotto questo aspetto, come si è anticipato, la prima articolazione del ricorso del Procuratore Generale di Bologna è assistita da fondamento.
La risposta positiva che l’impugnata sentenza della Corte di Appello di Bologna ha ritenuto di dover dare al quesito, secondo cui il reato di reclutamento di donne da destinare all’esercizio della prostituzione per cui il G. è stato condannato in Romania, è risposta assiomatica e priva di reale motivazione. Ed è una risposta impropria, che risente di un equivoco ricostruttivo della fattispecie criminosa sanzionata dalla legge penale rumena ascritta al consegnando G..
La Corte territoriale deduce la parziale consumazione in Italia del reato (la parte finale della condotta che lo costituisce) dal dato dell’avvenuto accompagnamento in Italia a cura del G. di due sue giovani connazionali (tali D.S. e C. A.) "entrambe destinate alla prostituzione". Effettivamente le due giovani, per quel che è possibile leggere nella sentenza di appello rumena nei confronti del G., hanno esercitato la prostituzione nell’area emiliana in periodo prossimo al dicembre 2002. Ambedue riferiscono tale circostanza, precisando di essere state convinte dal G. a venire in Italia per lavorare in un ristorante, soltanto a viaggio ormai concluso (in Italia) apprendendo di doversi prostituire per pagare le spese del affrontate dai committenti per il loro viaggio. In tale contesto, tuttavia, il loro interlocutore principale non è più l’accompagnatore G., ma altro cittadino rumeno, tale M.L. (noto come M.) già presente in Italia, coimputato del G. nel processo rumeno ed in esso a sua volta condannato definitivamente alla pena di nove anni di reclusione. Personaggio che i giudici rumeni nelle loro sentenze considerano essere all’apice di un vero e proprio assetto organizzativo operante in Romania (e nel quale, seguendo le direttive del M., si è inserito il G.) dedito al fraudolento adescamento e reclutamento di giovani rumene da destinare alla prostituzione in Italia ed altri Paesi dell’Europa occidentale.
La scarna ed insufficiente motivazione dell’impugnata sentenza lascia intuire che la Corte territoriale, ponendo l’accento sull’esercizio della prostituzione svolta in Italia dalle due cittadine rumene accompagnatevi dal G., abbia inteso evocare la figura del reato complesso prevista dall’art. 84 c.p. (in relazione all’art. 131 c.p. e art. 170 c.p., comma 2). Con l’effetto di considerare la condotta di sfruttamento della prostituzione esercitata dalla D. e della C. da un lato quale condotta necessariamente assorbita in quella cronologicamente anteriore di arruolamento o ingaggio finalizzato all’esercizio della prostituzione, condotta iniziata e attuata in Romania, e – da un altro lato – quale momento perfezionativo dell’unitario più grave reato di reclutamento contestato al G.. Di guisa che tale reato dovrebbe ritenersi nell’ultimo suo segmento attuativo consumato in Italia, in tal modo precludendo la consegna del G. ai sensi della previsione della L. n. 69 del 2005, art. 18, lettera p).
Ma una simile ricostruzione e interpretazione del contegno illecito per cui G.D.O. è stato condannato in Romania si rivela erronea. La figura del reato complesso o progressivo non è pertinente alla vicenda di cui si è reso protagonista il G..
Il reato di reclutamento per finalità di prostituzione punito dalla legge rumena e il reato di sfruttamento della prostituzione punibile in Italia secondo la normativa italiana (L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, comma 2, n. 8,) non costituiscono le manifestazioni di un una unitaria condotta criminosa complessa, ma integrano due autonome fattispecie penali, secondo un apprezzamento conforme agli indirizzi esegetici e giurisprudenziali fissati nel tempo da questa Corte regolatrice. Senza dubbio si tratta di condotte collegate e interdipendenti (il reclutamento prelude all’esercizio della prostituzione e quest’ultimo può esser preceduto da fatti di reclutamento) inscrivibili nella dinamica di una progressività criminosa. Una progressività, però, non mutuabile dalla nozione del reato complesso enunciata dall’art. 84 c.p., ma piuttosto riconducibile -come esattamente rimarca il ricorrente P.G.- in un quadro di continuazione criminosa, che aggrega i reati in una unitaria progettualità antigiuridica (che nel caso di specie assume i contorni della criminalità transnazionale), ma non ne vanifica o snatura l’autonomia e la specificità precettiva.
Giova precisare – per completezza di analisi – che l’opera di "accompagnamento" in Italia della D. e della C. e con tutta verosimiglianza di altre giovani rumene svolta (più o meno continuativamente) dal G. non è suscettibile di integrare la fattispecie del favoreggiamento dell’ingresso clandestino di stranieri, aggravato da finalità di reclutamento per l’esercizio della prostituzione, sanzionata dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 12, comma 3 e comma 3 ter. Come ancora correttamente osserva il ricorrente Procuratore Generale, la D. e la C. (e così altre giovani reclutate dal G. e dai suoi complici, come si evince dalle sentenze rumene) sono normalmente entrate in Italia munite di regolare visto o passaporto turistico autentico rilasciato dalle autorità rumene, così che difetta il presupposto del reato in esame, costituito proprio dalla clandestinità e/o illegalità dell’ingresso in Italia delle giovani reclutate dal G..
Puntualizzato ciò e tornando all’autonomia del reato di sfruttamento della prostituzione, certamente commesso in Italia in danno delle due citate giovani rumene e di altre loro connazionali, ascrivibile al menzionato M.L. ed a suoi complici operanti in Italia, tra cui non è chiaro se e con quale ruolo (concorso in sfruttamento ovvero favoreggiamento o altro) si inserisca il G., rispetto al reato di reclutamento a fini di prostituzione per cui G. è stato condannato in Romania, si impongono alcune brevi osservazioni.
Il reato di reclutamento (o tratta di donne) per fini di prostituzione ascritto al G. in Romania è reato che si atteggia, nelle sue componenti costitutive, con modalità largamente assimilabili all’omologa fattispecie di reclutamento per l’esercizio della prostituzione prevista dalla L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 2, n. 4. Detto reato di reclutamento di donne da destinare alla prostituzione si manifesta attraverso la ricerca e la persuasione di una donna a recarsi in un determinato luogo per ivi farle svolgere l’attività di prostituzione (persuasione che, come detto, nel caso del G. è avvenuta con modalità ingannatorie, secondo quanto riferiscono le giovani vittime). Una volta convinta la donna ad accettare di trasferirsi all’estero (Italia) il soggetto agente ha realizzato l’evento del reato ascrittogli, inteso quale effetto (materiale e giuridico) della condotta criminosa tipizzata dalla norma incriminatrice. Evento che si identifica, appunto, con l’avvenuto arruolamento o reclutamento della donna. Sicchè il reato, qualificato dal dolo specifico, si perfeziona ed esaurisce con il reclutamento, senza che si renda necessario alcuna ulteriore attività o conseguenza. Nel senso che rispetto al realizzarsi del reato non rileva il dato di fatto che la donna reclutata eserciti poi effettivamente o meno la prostituzione. Laonde può inferirsi che il reato per cui il G. ha riportato condanna nel suo Paese in quello è stato commesso e portato a conclusione, il momento finale o perfezionativo dell’illecita condotta identificandosi – a tutto voler concedere – con l’allontanamento della vittima (partenza) dalla Romania. L’attività di prostituzione poi fatta esercitare in Italia alla D. e alla C. (e ad altre cittadine rumene) ad opera – in ipotesi – dello stesso G. (con il concorso di terzi) integra una condotta criminosa ulteriore e diversa, quella di sfruttamento della prostituzione, consumatasi per intero e in piena autonomia in Italia (cfr., per la latitudine della condotta di reclutamento a fini di prostituzione, ex plurimis: Cass. Sez. 3, 22.2.1973 n. 5346, Sangalli, rv. 124570: "Il delitto di reclutamento di prostitute è reato di pericolo"; Cass. Sez. 6,7.12.2006 n. 4137, Buoncore, rv. 235605: "Il delitto di reclutamento di prostitute si esaurisce e si consuma nell’attività di ricerca di persone da ingaggiare e in quella di persuasione delle medesime a recarsi in un determinato luogo per l’esercizio della prostituzione, a nulla rilevando, a tale fine, che a siffatta attività sia seguito l’effettivo esercizio della prostituzione"; Cass. Sez. 3, 4.12.2007 n. 11835, Fuccaro, rv. 239332).
E, come chiarito, il reato di sfruttamento della prostituzione, che si consuma nel luogo in cui il soggetto attivo si avvantaggia dell’attività di prostituzione svolta dalla vittima, lucrandone i proventi (v. Cass. Sez. 1, 27.3.2007 n. 14868, confi, comp. Cala, rv.
236165), ciò che nel caso di specie è avvenuto in Italia, non si correla in relazione causale diretta o indiretta con un precedente (e solo eventuale) reato di reclutamento, che nel caso di specie si è consumato in Romania, sebbene a tale anteriore condotta illecita possa coniugarsi in una diacronica dinamica di continuità criminosa.
Per tanto, alla luce delle considerazioni fin qui sviluppate, si rende indispensabile una rimeditata nuova analisi e valutazione, da parte del giudice territoriale della consegna di G.D.O. invocata con il m.a.e. rumeno in data 6.3.2008, della problematica del luogo di commissione del reato oggetto del mandato di arresto rumeno in riferimento alla previsione del rifiuto di consegna dettata dalla L. n. 69 del 2005, art. 18, lettera p).
Attività cui – agli effetti dell’art. 627 c.p.p., comma 3 – la Corte di Appello di Bologna in diversa composizione procederà, anche eventualmente giovandosi di ulteriori integrativi elementi di conoscenza acquisiti ex L. n. 69 del 2005, art. 16, tenendo conto delle enunciati espressi con la presente decisione.
La cancelleria si farà carico degli incombenti di comunicazione previsti dalla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Bologna.
Si comunichi al Ministro della Giustizia. Motivazione riservata.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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