Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 23-03-2011) 07-06-2011, n. 22741 Relazione tra la sentenza e l’accusa contestata

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

v. Sabaldi.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione C.R. avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona in data 20 maggio 2010 con la quale è stata – per quello che qui interessa – confermata quella di primo grado, di condanna in ordine al reato di falsità in scrittura privata ( art. 485 c.p.).

Il reato gli era stato contestato per avere redatto una lettera raccomandata e relativa ricevuta di ritorno, recanti, la prima, la firma apocrifa di P.F. e, la seconda, la indicazione del medesimo come mittente al quale restituire la cartolina di ritorno.

La lettera era stata spedita al Comune di Porto Sant’Elpidio il 18 dicembre 2003 e con essa si richiedeva alle competenti autorità di controllare la regolarità dei lavori edilizi in corso presso l’abitazione del fratello del ricorrente, C.G., col quale il ricorrente medesimo era in lite da tempo per altre vicende.

Sulla base di tali elementi veniva contestato il reato al C. R. indicandosi la condotta come finalizzata a recare un danno al detto fratello.

La Corte d’appello confermava l’accertamento di responsabilità come già effettuato nel precedente grado.

Le prove erano costituite dalle dichiarazioni del P. che aveva ricordato come si fosse accorto, dalla ricezione della ricevuta di ritorno, della esistenza della raccomandata in esame da esso mai inviata al Comune; come avesse chiesto la copia di questa e verificato che la firma in calce non era la propria; come contraffatta fosse, infine, la grafia sulla cartolina di ritorno.

La Corte richiamava anche le conclusioni del consulente del PM affermando che secondo tale tecnico la firma in questione era risultata apocrifa e riconducibile alla mano del ricorrente.

In secondo luogo evidenziava come la lettera con la quale si richiedeva al Comune di procedere al controllo dei lavori in corso di esecuzione ad opera del fratello, fosse finalizzata a conseguire il corrispondente vantaggio per sè e cioè l’ulteriore requisito richiesto, dal punto di vista soggettivo, dalla norma contestata.

Deduce il ricorrente:

1) Il vizio di motivazione relativamente al dolo specifico della fattispecie contestata, ossia quello della finalità di danno.

La Corte in realtà aveva affermato in proposito che, con la azione attribuitagli, il ricorrente intendeva perseguire un vantaggio per sè.

Così facendo i giudici erano venuti meno al dovere di motivare replicando alle critiche del ricorrente, limitandosi a riprodurre, a sostegno di tale tesi, della giurisprudenza sulla congruità della finalità di vantaggio e ad affermare apoditticamente che la falsa firma era riconducibile alla mano del C.R..

In realtà la contestazione aveva fatto riferimento alla finalità non di vantaggio ma a quella di danno, anche perchè il vantaggio nel caso di specie non sarebbe stato configurabile.

Infatti con la lettera raccomandata di cui alla imputazione l’estensore si riprometteva di ottenere semplicemente una verifica di regolarità dei lavori del C. e non anche di ostacolarli ingiustamente. Si trattava infatti di lavori che il condominio non aveva autorizzato e che riguardavano anche parti condominiali dell’edificio, tanto da avere attirato la attenzione di svariati residenti.

In altre parole i giudici dell’appello avrebbero dovuto soffermarsi ad individuare in modo specifico quale nocumento sarebbe stato perseguito dall’estensore della lettera apocrifa, non potendosi viceversa, gli stessi giudici, affidarsi alla generica affermazione della esistenza di un fine di vantaggio "in re ipsa".

In realtà vi erano state numerose irregolarità che la lettera aveva portato alla luce, come quella che riguardava proprio i lavori del C., costretto a richiedere una sanatoria tardiva e quella che riguardava il geometra P. che avrebbe dovuto vigilare ed impedire preventivamente che quei lavori fossero iniziati.

Non un danno quella lettera aveva voluto cagionare ma il ripristino della legalità.

Infatti anche la sola sospensione dei lavori non sarebbe seguita alla lettera raccomandata – che nemmeno la richiedeva – ma solo ai controlli che a quella avessero fatto seguito.

Anche il controllo ad opera del geom. P. non assumeva i contorni di un "danno" cagionato al C., corrispondendo semmai ad un dovere connesso alla sua carica di amministratore.

I giudici stessi della Corte d’appello, motivando sulla finalità di vantaggio, avevano del tutto omesso di motivare su quello che era l’elemento costitutivo della fattispecie contestata con l’imputazione: cioè la finalità di danno;

2) la violazione di legge.

Mancherebbe del tutto – in violazione quindi dell’art. 125 c.p.p. – la motivazione sulla asserita non autenticità della sottoscrizione.

In realtà, la affermazione in tal senso resa dalla persona offesa P. sarebbe insufficiente.

Quanto alla riferibilità della sottoscrizione apocrifa al C. la difesa denuncia la assenza di "riscontro grafologico" e comunque la insufficienza delle conclusioni del consulente il quale ha operato sulla base di una mera fotocopia della documento contraffatto e si è espresso non in termini di riferibilità della firma al ricorrente ma di mera compatibilita della sottoscrizione incriminata col gesto grafico del C.. Un giudizio cioè non certo ma probabilistico, basato in maniera del tutto insufficiente sul confronto con la "firma dell’imputato"(v. pag. 19 motivi ricorso).

La cartolina di ritorno, d’altra parte, non sarebbe una "scrittura privata" ai sensi e per gli effetti dell’art. 485 c.p..

La Corte avrebbe dovuto, ad avviso del ricorrente, spiegare dettagliatamente le ragioni della mancata adesione alle censure della difesa e soprattutto, in un caso dubbio come quello in esame, arrestarsi in applicazione del principio, appunto, secondo cui la condanna può intervenire solo "oltre ogni ragionevole dubbio".

Era da considerare al riguardo che anche il consulente aveva prospettato incertezze;

3) la necessità della sospensione della esecuzione delle statuizioni civili ex art. 612 c.p.p..

In data 8 marzo 2011 è pervenuta una memoria difensiva nella quale si ripercorrono i principali motivi di ricorso.

Il ricorso è infondato.

Procedendo nell’ordine logico delle questioni e quindi affrontando in primo luogo quella concernente la asserita assenza di motivazione riguardo alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, deve segnalarsi come le censure del ricorrente siano state presentate come volte a denunciare una presunta carenza totale di motivazione ( art. 125 c.p.) e la violazione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, ma in termini non apprezzabili in questa sede.

Si tratta, infatti, nella sostanza, non già di vere e proprie denunzie di violazione di legge, ma della riproposizione delle risultanze probatorie affinchè ad esse il giudice della legittimità dia una valutazione e un apprezzamento diversi da quello attribuito convenientemente dalla Corte di merito.

Così, è inammissibile la critica rivolta alla Corte d’appello per avere attribuito credito alla affermazione del teste P. secondo cui la firma non era ad esso attribuibile.

Si tratta di una dichiarazione che il giudice del merito ha il dovere di valutare manifestando i criteri dell’apprezzamento tanto sul piano soggettivo quanto su quello oggettivo, così da consentire il controllo di legittimità sulla valutazione medesima e senza incontrare alcun genere di preclusione.

Il grado di valenza dimostrativa di tale elemento probatorio è da ricondurre alle generali regole sulla attendibilità del dichiarante e la maggiore o minore attitudine probatoria è solo da porre in relazione al giudizio sulla credibilità di colui che effettua il disconoscimento della firma.

Nel caso di specie, poi il disconoscimento operato dal querelante è stato ritenuto corroborato dalle conclusioni del consulente tecnico, con operazione logica del tutto apprezzabile in ragione della convergenza dei due risultati probatori.

Quanto alla affermazione della ritenuta insufficienza delle conclusioni del consulente riguardo alla riferibilità della scrittura apocrifa alla mano del ricorrente, si osserva che la conclusione dei giudici del merito (i quali hanno affermato che secondo il consulente la falsificazione era opera dell’imputato) si sottraggono al sindacato della Cassazione, in ragione della loro razionalità e plausibilità. Invero il ragionamento esibito consiste nella combinazione di una serie di elementi indiziari e probatori, sintetizzata nella affermazione che dalla consulenza era deducibile la riferibilità della falsificazione all’adora appellante. In realtà gli elementi valorizzati, costituiti dalla sicura riferibilità della scrittura contenuta nella cartolina di ritorno della raccomandata, alla mano dell’imputato; dalla compatibilità della firma della missiva spedita con raccomandata, con il gesto grafico del C.; dalle affermazioni della persona offesa e dal movente della azione, hanno indotto la Corte territoriale a formulare un giudizio di colpevolezza che non può essere rivisitato, quanto agli elementi di fatto che lo sorreggono, da questo giudice della legittimità.

Infondato è poi il secondo motivo di ricorso.

Occorre in primo luogo ricordare che secondo la costante giurisprudenza, da ultimo avallata anche dalle Sezioni unite, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Rv. 248051).

Non si ravvisa pertanto alcun apprezzabile violazione dei diritti difensivi nell’avere, i giudici del merito, posto l’accento sulla finalità di vantaggio perseguito con il falso contestato, piuttosto che sulla finalità di danno, indicata nel capo di imputazione e costituente, oltretutto, null’altro che l’altra faccia della stessa medaglia: ossia il vantaggio configurato dai giudici dell’appello per il ricorrente è esattamente il risvolto positivo per il C. del danno che questi mirava a cagionare al fratello ottenendo l’intervento della autorità per il controllo – ed eventualmente la sospensione – dei lavori che il C.G. stava eseguendo all’interno del condominio di comune interesse.

Ciò posto è poi da considerare che, proprio la giurisprudenza evocata dalla Corte d’appello è quella calzante nel caso di specie, nel quale si è affermato che il vantaggio perseguito dall’estensore della lettera apocrifa era quello di ottenere l’intervento della Polizia municipale volto a controllare la legittimità dei lavori in corso: un intervento che per quanto sia da allegre alla categoria del ripristino della legalità e quindi delle finalità lecite, vale ad integrare la fattispecie in contestazione. Invero, ha osservato la giurisprudenza di legittimità che nel delitto di falso in scrittura privata, per l’integrazione del dolo specifico non occorre il perseguimento di finalità illecite, poichè l’oggetto di esso è costituito dal fine di trarre un vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo (Rv. 238791; massime precedenti Conformi: N. 2516 del 1982 Rv. 152643).

Infine non può farsi luogo a procedere alla richiesta di sospensione della esecuzione delle statuizioni civili posto che tale richiesta è prevista nella pendenza del procedimento il quale, invece, con la odierna sentenza, diviene definitivo.

In base al criterio della soccombenza il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese della parte civile, sostenute nel grado, quantificate come in dispositivo.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè alla rifusione delle spese di parte civile liquidate per il grado in complessivi Euro 1300 oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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