Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01-02-2011) 07-06-2011, n. 22702

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Con ordinanza 8 marzo 2010 il GIP del Tribunale di Udine rigettava la richiesta di revoca del provvedimento di confisca emesso dal Tribunale di Udine l’8 gennaio 2008 nel procedimento a carico di D.S.L. e della moglie e confermava la confisca di tutti i beni sequestrati.

Con il decreto 8 gennaio 2008 il GIP aveva disposto, nell’ambito di procedimento a carico di D.S.L. e F.A.S., sua moglie, indagati rispettivamente per il reato di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, comma 1, e art. 648 bis c.p., il sequestro preventivo di tutta una serie di beni mobili intestati al D.S. e alla moglie o, comunque, nella loro disponibilità per il tramite dei soggetti interposti. A seguito della morte degli indagati il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione del procedimento e la confisca dei beni sequestro e, il 23 settembre 2008, il GIP aveva disposto la confisca dei beni medesimi. Avverso tale provvedimento aveva, quindi, proposto incidente di esecuzione il difensore di D.S.M., figlio degli imputati deceduti, lamentando che la confisca fosse stata disposta non a seguito di una pronuncia di condanna come richiesto dal D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, bensì in conseguenza di un decreto di archiviazione per estinzione del reato. L’opposizione veniva respinta con conferma della confisca. Veniva ulteriormente proposta opposizione ai sensi dell’art. 667 c.p.p., comma 4, e il giudice si dichiarava incompetente disponendo la trasmissione degli atti alla Corte di Cassazione, la quale restituiva gli atti al giudice dell’esecuzione che provvedeva a nuova fissazione del procedimento camerale.

Riteneva, quindi, il GIP con il provvedimento 24 marzo 2010, oggetto dell’odierno gravame, di confermare la correttezza della confisca disposta sui beni sequestrati tanto presso l’abitazione ove risiedeva il D.S.L., quanto nella cassetta di sicurezza intestata alla moglie con delega all’accesso in favore dello stesso D.S..

Affermava il giudice che la confisca non trovava il suo fondamento nell’ipotesi delittuosa di cui al D.L. 306 del 1992, art. 12 quinquies, comma 1 per la quale il pubblico ministero procedeva all’epoca in cui il decesso del D.S. e della moglie ne determinava l’estinzione, bensì si fondava nell’accertato vincolo di pertinenzialità dei beni oggetto di sequestro con i reati, di spaccio di stupefacenti e di associazione finalizzata a tale spaccio, per i quali il D.S. era stato condannato dal GIP del Tribunale di Milano in data 17 febbraio 2000. Il giudice riassumeva così le questioni affrontate in decisione: a) l’adottabilità di un provvedimento di confisca relativo beni sequestrati non già nell’ambito di un procedimento per il reato che ne costituisce il presupposto fondante bensì in altro, conclusosi con archiviazione;

b) l’esistenza del vincolo di diretta pertinenzialità dei beni oggetto di sequestro cono l’attività criminosa a suo tempo svolta dal D.S.L., in concorso con altri soggetti, e per la quale egli era già stato condannato con pronuncia irrevocabile.

Riguardo al primo punto affermava la non esistenza di ostacoli all’adozione del provvedimento ablatorio dei beni in sequestro, non essendovi dati normativi che impongano che il provvedimento di confisca debba essere adottato unicamente nel contesto del procedimento relativo al reato di cui i beni sequestrati costituiscano diretta o indiretta derivazione. Dunque il provvedimento di confisca può essere disposto ogni qualvolta si giunga alla verifica della sussistenza delle condizioni previste dalla D.L. 306 del 1992, art. 12 sexies e ciò, sia l’esito di un procedimento che si concluda con sentenza di condanna e sia, data questa per presupposta, in altri procedimenti che, anche occasionalmente, giungano all’individuazione di beni che possano presumersi acquistati o conseguiti in forza dell’attività illecita già irrevocabilmente accertata.

Sul secondo punto affermava il giudice che beni sequestro sono da ritenersi senza dubbio il prodotto dell’impiego da parte di D.S. L. delle ricchezze accumulate mediante l’attività di spaccio e traffico internazionale di sostanze stupefacenti, reati espressamente previsti dall’art. 12 sexies, quale presupposto per l’adozione della confisca. Il D.S., all’epoca in cui i giudici di Milano hanno accertato che fosse dedito allo spaccio di stupefacenti, (OMISSIS), esercitava un’altra attività imprenditoriale in (OMISSIS) la cui redditività, però, non è stata documentata. Anche in relazione all’impresa individuale D.S.L., con sede in (OMISSIS) e costituita nel (OMISSIS), la difesa nulla ha prodotto se non una visura carattere camerale, nessuna indicazione patrimoniale risulta, infine, per la moglie. Unico dato inequivoco, secondo il GIP, è la sentenza di condanna della Corte d’appello di Milano, che modificava quella di primo grado solo in relazione alla entità della pena, pronunciata per una ingente attività internazionale di spaccio di cocaina e, quindi, risulta impossibile superare la presunzione di illecita accumulazione posta dal legislatore all’art. 12 sexies.

2.- Propone ricorso per cassazione l’avvocato Giuseppe Campeis, difensore di D.S.M. figlio ed erede di D.S. L. e F.A.S., lamentando: 1) Erronea applicazione dell’art. 240 c.p. e D.L. 306 del 1992, art. 12 sexies; sostiene il ricorrente che la confisca può essere disposta dal giudice solo a seguito di sentenza di condanna e non può quindi essere applicata a seguito di provvedimento di archiviazione per estinzione del reato per intervenuta morte del reo, come è avvenuto nel caso di specie.

Inoltre non sussistono i presupposti per la confisca e sensi dell’art. 240 c.p., comma 2, n. 2, in quanto i beni sequestrati non sono cose delle quali la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o la alienazione costituiscono reato.

2) Nullità dell’impugnata ordinanza per incompetenza funzionale del GIP del Tribunale di Udine; sostiene il ricorrente che il GIP di Udine per contrastare le doglianze relative alla mancata restituzione dei beni sequestrati in assenza di sentenza di condanna ha richiamato la condanna per traffico di stupefacenti emessa nei confronti del D. S.G. dal GIP di Milano il 17. 2 2000, modificata quoad poenam dalla Corte d’appello, con la conseguente, ritenuta, possibilità di procedere alla confisca dei beni sequestrati stante l’asserita sproporzione tra il valore degli stessi al reddito del condannato. Afferma, quindi, il ricorrente che l’art. 665, prevede che la competenza in ordine all’esecuzione spetta al giudice che ha deliberato il provvedimento, non comportando la confisca prevista dal D.L. 306 del 1992, art. 12 sexies una deroga alle ordinarie norme attributive della competenza in sede esecutiva. Sussiste, in conseguenza, la competenza funzionale a conoscere dell’esecuzione della sentenza di condanna inflitta al D.S.G. dal GIP di Milano in campo a questo giudice; dall’incompetenza funzionale del GIP di Udine, consegue la nullità dell’ordinanza oggetto del ricorso.

3.- Il Procuratore della Repubblica presso questa Corte Dr. Sante Spinaci, con atto depositato in data ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile.

4.- Con memoria di replica, depositata il 26 gennaio 2010 ex art. 611 c.p.p., il ricorrente difensore ribadisce, in contrasto rispetto alle conclusioni del Procuratore Generale la fondatezza delle censure proposte avverso il decreto di confisca del GIP del Tribunale di Udine.
Motivi della decisione

1.- Rileva preliminarmente il Collegio che il ricorso proposto da soggetto terzo assistito da difensore, che si qualifica come tale e che, dall’esame degli atti, risulta non munito di procura speciale, è da ritenere inammissibile.

E’ infatti principio di diritto che si condivide quello, più volte affermato da questa Corte – con riferimento al ricorso proposto dal terzo interessato contro il decreto che dispone la misura di prevenzione della confisca- secondo cui per i soggetti portatori di interessi meramente civilistici deve trovare applicazione disposizione dell’art. 100 c.p.p. che prevede espressamente per la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, che i suddetti soggetti possono stare in giudizio solo con il ministero di un difensore munito di procura speciale (Sez. 5, sent. 9.4.2010, n. 21314 , Rv. 247440; Sez. 6, sent. 17.9.2009, n. 46429).

La posizione processuale del terzo interessato è, infatti, nettamente distinta sotto il profilo difensivo da quella dell’indagato e dell’imputato che, in quanto assoggettati all’azione penale, possono stare in giudizio di persona, avendo solo necessità di munirsi di un difensore che, oltre ad assisterli, li rappresenta per legge e che è titolare di un diritto di impugnazione, nell’interesse del proprio assistito, per il solo fatto di rivestire la qualità di difensore, senza alcuna necessità di procura speciale, richiesta solo per i casi di atti così detti personalissimi. Diversamente il terzo interessato, il quale, così come i soggetti indicati dall’art. 100 c.p.p., essendo portatore di interessi di natura strettamente civilistica, non solo non può stare personalmente in giudizio, ma "ha un onere di patrocinio, che è soddisfatto attraverso il conferimento di procura alle liti al difensore", come peraltro avviene nel processo civile ai sensi dell’art. 83 c.p.c..

Nel caso di specie D.S.M. deve essere considerato, a tutti gli effetti, terzo interessato in quanto agisce unicamente per contrastare, nella sua qualità di erede del defunto D.S. L., il provvedimento di confisca deliberato dal GIP del Tribunale di Udine ai sensi del D.L. 306 del 1992, art. 12 sexies, egli, infatti, è totalmente estraneo sia ai reati ai reati di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, comma 1, e art. 648 bis c.p. contestati ai genitori – per i quali fu pronunciata archiviazione dal GIP del Tribunale di Udine, per intervenuto decesso degli imputati – sia a quelli di associazione e spaccio di stupefacenti in relazione ai quali fu pronunciata condanna nei confronti del D.S.L. dai giudici di Milano.

La rilevata inammissibilità del ricorso, riguardando la stessa legittimazione processuale, impedisce l’esame dei motivi proposti.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento a favore della cassa delle ammende di sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in Euro mille, ai sensi dell’art. 616 c.p.p..
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 a favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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