Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 17-05-2011) 08-06-2011, n. 22793

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La difesa di D.L. propone ricorso avverso la sentenza del 21/9/2009 della Corte d’appello di Torino, con la quale è stata confermata la condanna per il reato di tentato esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Con il primo motivo si lamenta violazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. c) e lett. b) per la parte in cui il giudice ha ritenuto accertata la formulazione di minacce da parte del ricorrente ed integrato il reato.

Richiamata la situazione di fatto, sulla base della quale risultava che D. richiedeva il pagamento delle migliorie apportate all’immobile che doveva consegnare alle parti civili, preso atto della mancata volontà dei suoi interlocutori di corrispondere la somma pretesa, si segnala che la sentenza di secondo grado era partita dall’erroneo presupposto di fatto che l’imputato fosse proprietario dello stabile, essendone invece l’inquilino, il che rende la sua pretesa di recuperare le spese affrontate per migliorare l’immobile d’altri ragionevole, ed esclude l’ingiustizia del danno, elemento costitutivo del reato. Si richiama inoltre la prospettazione rivolta dal D. ai suoi contraddittori per telefono, per escluderne tutta la portata minacciosa, avendo egli solo dichiarato che avrebbe rimosso le migliorie apportate, prospettando quindi una violenza sulle cose, e non una minaccia alle persone, con incidenza sulla sola sfera patrimoniale, e quindi impossibilità di configurare il tentativo.

2. Si eccepisce violazione di legge per non aver il giudice di merito ritenuto la desistenza volontaria, richiamando la mancata esecuzione del proposito illecito, dopo il colloquio telefonico che era finalizzato, piuttosto che a minacciare, a cercare una mediazione.

Richiamando la deposizione del teste che aveva accertato che tra le parti nell’arco di due giorni erano intervenute quattro telefonate, eseguite alternativamente da D. e dall’altro interlocutore, si valorizza la ricostruzione dei fatti come una trattativa, priva dei connotati minacciosi, essenziali per la configurazione del reato.

3. Con il terzo motivo si rileva mancanza di motivazione riguardo la valutazione di equivalenza delle attenuanti generiche, che si è valutata congrua nei termini già ritenuti dal primo giudice, senza argomentare autonomamente, nè giustificare la mancata sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, richiesta invece nell’atto di gravame.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile poichè si ripropongono i medesimi rilievi contenuti in atto di appello, senza confrontarsi con la motivazione fornita sugli specifici punti dal giudice del gravame.

In particolare il primo motivo di ricorso è fondato sull’assunto della assenza di ingiustizia della pretesa, basata su un presupposto in diritto – essere D. inquilino e non proprietario dello stabile – non corrispondente al reale.

Si rileva infatti che l’odierno imputato era il proprietario dell’immobile sottoposto ad esecuzione, che ancora lo occupava, e si opponeva alla sua consegna all’acquirente dalla procedura esecutiva;

la presenza delle pretese migliorie non risulta peraltro neppure accertata. Emerge dall’esame delle pronunce di merito che D. aveva impedito al consulente che aveva valutato lo stabile di accedere al suo interno, sicchè il prezzo dell’immobile era stato fissato in base alla sua condizione esterna. La pretesa di ottenere una somma maggiore dall’aggiudicatario per assicurare la consegna dell’immobile, posta in alternativa al danneggiamento del bene costituiva chiaramente la minaccia di un male ingiusto, dovendosi intendersi limitata al prezzo convenuto in fase esecutiva la somma dovuta all’acquirente, sicchè l’alternativa dinanzi alla quale è stato posto il soggetto passivo configura l’elemento costitutivo del reato contestato.

Nè può condividersi la pretesa buona fede da parte di D. nel formulare l’illecita richiesta, essendo egli stato parte della procedura esecutiva e non risultando aver formulato riserve in merito alla valutazione del bene, nell’unico ambito in cui si poteva accertare la valenza economica delle pretese migliorie apportate allo stabile.

2. Ad analoga conclusione deve giungersi per quel che riguarda il secondo motivo di ricorso, essendo del tutto pacifica la possibilità di configurare il reato di cui all’art. 393 c.p. nella forma del tentativo (Sez. 5, Sentenza n. 4456 del 19/12/2007, dep. 29/01/2008, imp. Foralosso, Rv. 238347). Il mancato seguito riconosciuto alla minaccia, comunque formulata, non permette di ritenere realizzata la desistenza, che presuppone un’azione ancora in corso, mentre nella specie il reato si è fermato al tentativo solo in quanto alle minacce formulate, non ha fatto seguito la realizzazione del danneggiamento, che avrebbe concretizzato ulteriori violazioni, essendosi invece perfezionata l’attività di pressione, volta ad ottenere il soddisfacimento di un preteso diritto; in particolare nella formulazione della minaccia, consumata con la finalità di ottenere il denaro, si era esaurita tutta la fase esecutiva rimessa all’interessato, mentre per la consumazione dell’illecito mancava solo la realizzazione del risultato della coercizione operata sul soggetto passivo, che non si è verificato per la resistenza di questi, sicchè non può dirsi che all’odierno ricorrente sia riconducibile alcuna desistenza, avendo egli compiuto integralmente l’azione tipica. D’altro canto è noto che la figura giuridica invocata costituisci un’esimente rispetto alla quale sussiste un onere probatorio a carico dell’imputato ed in proposito quale unica traccia della presenza di una mediazione intercorsa tra le parti si evoca il poco significativo richiamo alla presenza di chiamate reciproche tra le parti; per la verità, a parte la circostanza che il proprietario risulta aver effettuato una sola delle quattro chiamate telefoniche, il dato risulta del tutto insignificante, non essendo smentita la richiesta di pagamento, poichè dalla situazione giuridica descritta emerge che D. non aveva alcun titolo per sollecitare pagamenti all’acquirente, sicchè ogni ulteriore tentativo di mediazione non escludeva l’ingiustizia della prospettiva di danneggiamento minacciata.

3. Ad analoga conclusione deve giungersi in relazione al motivo di ricorso riguardante la determinazione dell’entità e natura della sanzione comminata, avendo il giudice d’appello compiutamente motivato riguardo l’inidoneità di una determinazione di pena ridotta nella misura sollecitata, sulla base dei numerosi precedenti risultanti a carico dell’imputato, quanto all’esclusione delle attenuanti generiche, e della ritenuta inidoneità rieducativa del solo pagamento di una pena pecuniaria, valutazione di merito esaustivamente argomentata sulla base di dati di fatto concreti, che non può ritenersi affetta dal vizio motivazionale rilevato.

4. Alla dichiarazione di inammissibilità consegue la condanna al pagamento delle spese del grado, nonchè di una somma in favore della Cassa delle ammende, determinata come in dispositivo, in applicazione dell’art. 616 c.p.p..
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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