Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 25-02-2011) 08-06-2011, n. 22846

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. B.M., condannato alla pena di anni sette di reclusione, con sentenza della Corte di appello di Roma del 30 marzo 1999 (irrevocabile il 24 ottobre 2000), per i delitti di peculato e truffa ai danni dello Stato, entrambi continuati e aggravati, perchè, nella sua qualità di direttore amministrativo del Servizio italiano per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE), in concorso con altri pubblici funzionari del medesimo Servizio, si appropriava, per finalità diverse da quelle istituzionali, ingenti somme di denaro di pertinenza del SISDE, quantificate, per la sua specifica posizione, in L. 15.154.948.536, utilizzate per acquistare immobili e beni mobili iscritti in pubblici registri (reati commessi in Roma fino al 2 settembre 1991), ricorre per cassazione tramite il difensore, avvocato Luca Marafioti, avverso l’ordinanza della Corte di appello di Roma, in funzione di giudice dell’esecuzione, deliberata il 9 dicembre 2009 e pubblicata il 2 aprile 2010, con la quale è stata rigettata l’opposizione proposta dallo stesso B. avverso precedente ordinanza della medesima Corte in data 26 settembre 2007 (depositata il 22 gennaio 2008), emessa ai sensi dell’art. 676 c.p.p., comma 1 e art. 667 c.p.p., comma 4, che aveva respinto la sua richiesta di revoca della confisca di alcuni beni immobili e mobili registrati (un’imbarcazione), di cui alcuni intestati a terzi (persone fisiche e società) ma ritenuti di sua effettiva pertinenza.

A ragione la Corte ha addotto che i beni in questione e, segnatamente, gli immobili reclamati dall’istante erano stati oggetto di provvedimenti di sequestro adottati nel corso delle indagini nelle seguenti date: 29 ottobre 1993, 6 novembre 1993 e 16 dicembre 1993;

che già con la sentenza di condanna di primo grado, emessa il 20 dicembre 1994, era stata applicata la misura di sicurezza patrimoniale della confisca con espresso riferimento ai beni in sequestro, e che siffatta statuizione non era mai stata modificata nei successivi gradi del complesso processo, definito, all’esito di giudizio di rinvio dalla Corte di cassazione, con la ricordata sentenza della Corte di appello di Roma in data 30 marzo 1999; che il provvedimento irrevocabile di confisca comprendeva i beni rivendicati dal B., come emergeva dalla legittima integrazione del dispositivo e della motivazione della sentenza, operata in sede di incidente di esecuzione, con richiamo all’accertamento compiuto dal giudice della cognizione ed illustrato nel capitolo 3.2 della sentenza di merito, recante espressa menzione degli immobili e dell’imbarcazione confiscati nonchè delle fittizie intestazioni di beni operate dal B.; che, in diritto, doveva riconoscersi al giudice dell’esecuzione il potere-dovere di interpretare il giudicato e di renderne espliciti il contenuto ed i limiti, ricavando dalla sentenza irrevocabile tutti gli elementi, anche non chiaramente espressi, necessari per le finalità esecutive (Sez. 1, n. 36 del 09/01/1996, dep. 21/02/1996, Rv. 203816); che la qualificazione dei beni confiscati, quale "provento di reato", da intendersi come "prodotto e profitto" dei delitti, era sottratta al sindacato del giudice dell’esecuzione.

2. Il B. denuncia, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), in rel. all’art. 240 cod. pen., la violazione di legge penale e di norme processuali, per non avere il Giudice dell’esecuzione rilevato la carenza del titolo esecutivo della disposta confisca facoltativa e lamenta, altresì, il vizio di motivazione dell’impugnata ordinanza per avere la Corte territoriale omesso l’analisi delle sue censure, ripetendo acriticamente gli argomenti già utilizzati nel precedente provvedimento del Giudice dell’esecuzione sul medesimo tema in data 26 settembre 2007.

Ad avviso del ricorrente, la Corte di appello avrebbe proceduto, in sede esecutiva, all’arbitraria adozione – al limite di una vera e propria "creazione" della misura – della confisca dei beni a lui attribuiti, attesa la mera apparenza, siccome privo di alcun concreto contenuto suscettibile di essere conosciuto e controllato, del provvedimento del giudice della cognizione che ha applicato la misura di sicurezza patrimoniale.

L’assunto sarebbe confortato dalle seguenti circostanze: il giudice dell’esecuzione, a seguito del rilievo ispettivo della mancata trascrizione della confisca dei beni disposta con la predetta sentenza irrevocabile del 30 marzo 1999, aveva avuto bisogno di istituire un gruppo di lavoro, facente capo ad un consigliere di Corte d’appello, designato dal Presidente di quell’ufficio, per individuare i beni immobili e/o mobili registrati su cui eseguire il provvedimento di confisca; era stato, inoltre, necessario ricorrere all’ausilio del Reparto operativo speciale (ROS) dei carabinieri per individuare i decreti di sequestro attinenti ai beni ritenuti oggetto di confisca, non essendo stati i medesimi provvedimenti inseriti nel fascicolo per il dibattimento; del tutto illegittima doveva, poi, ritenersi l’equiparazione dei beni oggetto di sequestro a quelli menzionati in un elenco allegato al decreto di rinvio a giudizio, che, secondo la contestazione, sarebbero stati acquistati con i soldi sottratti al SISDE, posto che non tutti i beni inclusi nel medesimo elenco risultavano vincolati con la misura cautelare, così come si profilava del tutto irrituale la loro identificazione attraverso la testimonianza resa in dibattimento dall’ufficiale di polizia giudiziaria del ROS dei CC, maggiore C., il quale, nel richiamare i beni immobili ritenuti provento di reato perchè frutto dell’impiego di capitali illecitamente acquisiti, aveva fatto espresso riferimento a tre provvedimenti di sequestro inesistenti agli atti del fascicolo per il dibattimento; la rilevata lacuna genetica della disposta confisca doveva, quindi, considerarsi insanabile e incolmabile in sede esecutiva, con l’ineludibile riconoscimento della carenza di titolo per procedere all’esecuzione della misura di sicurezza patrimoniale.

3. Il Procuratore generale, con memoria del 16 novembre 2010, chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile, rilevando, all’esito di articolate argomentazioni, che l’incidente di esecuzione è stato utilizzato, nella fattispecie, come strumento per l’indebito superamento dei limiti della cosa giudicata in tema di confisca.

4. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria in data 6 febbraio 2011, in cui confuta le conclusioni del Procuratore generale, insistendo nella propria tesi che ravvisa, nella fattispecie, gli estremi del giudicato meramente apparente, frutto dell’omessa notifica dei decreti di sequestro al B. e della mancata acquisizione degli stessi nel fascicolo per il dibattimento, che, contrariamente alla tesi avversa, non ammetterebbero atti equipollenti.
Motivi della decisione

5. Il quesito posto dal ricorso in esame può essere sintetizzato come segue: se è eseguibile, siccome idoneo ad identificare il suo oggetto, un provvedimento di confisca, contenuto in una sentenza irrevocabile di condanna, che individua i beni sottoposti alla misura di sicurezza con mero riferimento a quelli oggetto dei decreti di sequestro emessi nel corso del procedimento, i quali non risultano tuttavia inseriti nel fascicolo per il dibattimento, con la conseguente necessità del giudice dell’esecuzione di integrare il provvedimento adottato dal giudice della cognizione e, addirittura, di "creare" – secondo la denuncia del ricorrente – l’oggetto della disposta confisca, non evincibile dagli atti, così debordando dalla specifica funzione assegnatagli nel nostro ordinamento giuridico.

Va premesso che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in sede di incidente di esecuzione, l’indagine affidata al giudice è limitata al controllo dell’esistenza di un titolo esecutivo e della legittimità della sua emissione: a tal fine il giudice dell’esecuzione non può attribuire rilievo alle nullità eventualmente verificatesi nel corso del processo di cognizione in epoca precedente a quella del passaggio in giudicato della decisione, ma deve limitare il proprio accertamento alla regolarità formale e sostanziale del titolo su cui si fonda l’intrapresa esecuzione (c.f.r., ex multis, Sez. 1, n. 19134 del 26/05/2006, dep. 31/05/2006, Santarelli, Rv. 234224).

Va aggiunto che, avendo il procedimento di esecuzione la finalità di stabilire, nell’interesse della giustizia, il concreto contenuto dell’esecuzione, nel caso di incompletezza o incertezza del dispositivo, il giudice dell’esecuzione ha il potere-dovere di interpretare il titolo esecutivo (sentenza passata in giudicato) e di renderne espliciti il contenuto e i limiti, ricavando dalla sentenza irrevocabile tutti gli elementi che siano necessari per le finalità esecutive con l’ausilio della motivazione e, occorrendo, anche degli atti del procedimento (cfr., ex multis, Sez. 4, n. 2706 del 08/11/1996, dep. 07/01/1997, Mazzali, Rv. 206616; Sez. 1, n. 25735 del 12/06/2008, dep. 25/06/2008, Labate, Rv. 240475; Sez. 1, n. 5390 del 13/01/2010, dep. 10/02/2010, Losito, Rv. 246823).

L’ordinanza impugnata risulta pienamente coerente con gli enunciati limiti e poteri del giudice dell’esecuzione, poichè, da un lato, contrariamente all’assunto del ricorrente, non "crea" alcun provvedimento di confisca, risultando la misura di sicurezza patrimoniale realmente disposta e non meramente apparente, nella sentenza di condanna del B., con riferimento ai beni oggetto di sequestro, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, il quale insiste nella sola denuncia di impossibilità di individuare i medesimi beni per il mancato inserimento dei relativi decreti di sequestro nel fascicolo per il dibattimento, omissione comunque deducibile soltanto in sede di processo di cognizione e preclusa dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna; e, dall’altro lato, la gravata ordinanza correttamente si impegna, con l’ausilio della motivazione della sentenza e degli altri atti processuali, nella puntuale ricognizione dei beni confiscati al fine di dare doverosa e concreta attuazione al medesimo giudicato.

Il ricorso si rivela, quindi, manifestamente infondato e, come tale, deve essere dichiarato inammissibile con la condanna del ricorrente, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (Corte cost. n. 186 del 2000) – al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in considerazione delle questioni trattate, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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