Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 18-02-2011) 08-06-2011, n. 22829

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. In data 16.4.2010 la Corte di appello di Catania confermava la sentenza emessa il 20.4.2004 dal Gup del Tribunale di Siracusa con la quale, all’esito del giudizio abbreviato, condannava C. C., con la concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione per il reato di tentato omicidio in danno di G.E., commesso in (OMISSIS).

2. Dalle sentenze di primo e secondo grado emerge che l’imputato si era recato presso l’abitazione della vittima ad (OMISSIS), dopo aver viaggiato tutta la notte ininterrottamente provenendo dalla provincia di (OMISSIS) dove risiede. Emerge, altresì, che l’episodio si inserisce nel contesto di rapporti conflittuali tra l’imputato e la famiglia G. relativi alla pregressa conduzione in locazione da parte del C. di locali commerciali di proprietà della vittima, G.E., dai quali era stato sfrattato per morosità.

La valutazione del giudice di primo e secondo grado in ordine alla responsabilità dell’Imputato per il contestato reato di tentato omicidio, in relazione al quale veniva ritenuta la sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo, si fonda sulle circostanze di fatto riferite dalla vittima e dal di lei figlio, presente al fatto, nonchè, su quanto constatato dalla polizia intervenuta sul posto.

La donna non aveva immediatamente riconosciuto il C. quando aveva bussato alla porta e, trovandosi in casa da sola con il figlio Ga., gravemente ritardato, aveva invano invitato l’imputato ad andarsene. Mentre la donna cercava di mettersi in contatto telefonico con il proprio avvocato, l’imputato aveva estratto da una grossa borsa nera che portava con sè un coltello e lo aveva puntato alla gola ed al petto della vittima che, dopo essere caduta a terra, era riuscita a rialzarsi con l’aiuto del figlio. Quindi, l’imputato aveva stretto intorno al collo della donna una corda legata con un cappio, le aveva messo sulla bocca del nastro adesivo per impedirle di urlare e aveva minacciato di strozzarla.

La vittima aveva riferito, altresì, che qualche tempo prima aveva ricevuto due telefonate nelle quali l’imputato, identificato dalla voce, aveva affermato che l’avrebbe ammazzata e poi le avrebbe "pisciato addosso".

Al momento dell’intervento della polizia, chiamata dal figlio della vittima, la donna – che era riuscita a liberarsi della corda e del nastro isolante – veniva trattenuta con violenza dal C.;

entrambi avevano gli abiti strappati ed imbrattati di sangue e presentavano ferite da taglio agli arti superiori. Sul pavimento venivano rinvenute: tracce di sangue, le corde sporche di sangue con l’estremità chiusa a cappio, del nastro adesivo sul quale erano attaccati dei capelli della donna, dei guanti monouso, un guanto di stoffa, il coltello, due taniche di benzina, dei pezzi di panno.

Alla luce degli elementi acquisiti i giudici di primo e di secondo grado affermavano la configurabilità del reato contestato all’imputato – sussistendo la prova dell’elemento oggettivo e soggettivo – ritenendo inverosimile la versione dell’imputato.

Questi, invero, non aveva negato di aver legato la donna con una corda al collo ed ai polsi, ma aveva sostenuto che il coltello apparteneva alla vittima e, quanto alle taniche di benzina non è riuscito a fornire una spiegazione logica delle sue impronte rinvenute sulle stesse.

3. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia.

3.1. Con i primi due motivi di ricorso si censura l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale avuto riguardo alla configurabilità del reato contestato, sia con riferimento alla sussistenza dell’elemento oggettivo della idoneità degli atti posti in essere dall’imputato ai fini della configurabilità del tentativo punibile, sia con riferimento alla sussistenza del dolo.

Quanto all’elemento soggettivo il ricorrente assume l’equivocità degli elementi acquisiti dai quali è stata desunta la sussistenza dell’animus necandi. In ragione rileva che si era recato presso l’abitazione della famiglia G. per risolvere bonariamente una controversia giudiziaria civile; inoltre, emergevano evidenti discrasie tra le dichiarazioni della parte lesa e quella del figlio, presente al fatto, il quale si era attribuito il ruolo di mero spettatore, mentre a detta della madre sarebbe stato anch’egli vittima dell’aggressione; altro elemento di equivocità è rappresentato dalla incertezza della provenienza del coltello sequestrato e del liquido infiammabile.

Sotto il profilo oggettivo, in ogni caso, la presenza di mezzi in astratto idonei a mettere in pericolo la vita della vittima non può ritenersi sufficiente per affermare la sussistenza di una condotta idonea a configurare il tentativo punibile di omicidio.

3.2. Con I successivi due motivi di ricorso si denuncia la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla valutazione della prova della sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato contestato.

Si ribadisce, in sostanza, la mancanza di univocità degli elementi di prova in ordine al mezzi ed alle modalità della condotta criminosa di cui non è stato tenuto conto dai giudici di merito nella motivazione, con particolare riferimento alla natura della lesioni riportate dalla vittima, come riferite dal consulente medico (la donna, infatti, non risulta aver riportato segni di strozzamento nè segni di arma da taglio), incompatibili con l’affermata idoneità della condotta e volontà dell’imputato di uccidere la donna, tenuto conto anche della differenza di età e di sesso che certamente poneva l’imputato in posizione di preminenza rispetto alla vittima.

3.3. Con l’ultimo motivo di ricorso si censura ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) la violazione del principio dell’"oltre ogni ragionevole dubbio".

Il ricorrente afferma che "l’autocontraddittorietà o l’incapacità esplicativa da un lato, e l’esistenza di un’ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica dall’altro, mettono in luce, al contrario, la sussistenza, nel caso di specie, di dubbi interni ed esterni all’accusa".
Motivi della decisione

1. Deve premettersi che, nella verifica della consistenza dei rilievi critici mossi dal ricorrente, la sentenza della Corte territoriale non può essere valutata isolatamente ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza di primo grado, sviluppandosi entrambe secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti, di tal che – sulla base di un consolidato indirizzo della giurisprudenza di questa Corte – deve ritenersi che la motivazione della prima si saldi con quella della seconda formando un complessivo corpo argomentativo e un tutto unico e inscindibile (S.U., 04/02/1992, Ballan; Sez. 1, 21/03/1997, Greco; Sez. 1, 04/04/1997, Proietti).

2. La valutazione delle censure mosse con i primi quattro motivi del ricorso può essere operata congiuntamente, avendo il ricorrente posto sotto i diversi profili della violazione di legge e del vizio di motivazione le medesime questioni relative alla sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato in contestazione di tentato omicidio.

Invero, ritiene il Collegio che a fondamento del ricorso vengono poste, peraltro in maniera generica, questioni di fatto volte ad una valutazione alternativa rispetto a quella del giudice di merito, già esaminate dal giudice dell’appello che ha richiamato la motivazione della sentenza di primo grado ritenendo di confermarla anche alla luce delle contestazioni difensive che sono state esaminate e valutate con argomenti logici, coerenti e privi di contraddizioni.

Sullo specifico punto relativo alla valutazione della sussistenza del dolo del tentato omicidio, deve rilevarsi che la Corte territoriale, così come il giudice di primo grado, ha fatto corretta applicazione dei criteri ermeneutici indicati ripetutamente dalla Corte di legittimità, traendo la prova della sussistenza del dolo omicidiario da elementi esterni e, in particolare, da quegli elementi della condotta dell’imputato che, per la loro non equivoca potenzialità semantica, sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente.

Come è noto, infatti, per l’accertamento della sussistenza dell’animus necandi nel tentato omicidio assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti, con un giudizio prognostico formulato ex post con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento dell’azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare.

E’ stato evidenziato come la scena caduta sotto la percezione della polizia al momento dell’intervento deve ritenersi assolutamente compatibile con la ricostruzione dei fatti della persona offesa: il C. aveva estratto da una grossa borsa nera che portava con sè un coltello e lo aveva puntato alla gola ed al petto della vittima che, dopo essere caduta a terra, era riuscita a rialzarsi con l’aiuto del figlio; quindi, l’imputato aveva stretto intorno al collo della donna una corda legata con un cappio, le aveva messo sulla bocca del nastro adesivo per impedirle di urlare e aveva minacciato di strozzarla.

La polizia, infatti, aveva trovato la donna – che era riuscita a liberarsi della corda e del nastro isolante – mentre veniva trattenuta con violenza dal C.; sul pavimento venivano rinvenute tracce di sangue, le corde sporche di sangue con l’estremità chiusa a cappio, del nastro adesivo sul quale erano attaccati dei capelli della donna, dei guanti monouso, un guanto di stoffa, il coltello, due taniche di benzina, dei pezzi di panno. Tali elementi – la corda a cappio stretta alla gola, il nastro adesivo usato per chiudere la bocca, la presenza della taniche di benzina – rappresentano senza dubbio la direzione univoca dell’azione dell’imputato, la idoneità della stessa – anche indipendentemente dalla circostanza che il coltello fosse o meno dell’imputato -ed, altresì, il fine perseguito dallo stesso.

La valutazione del giudice di merito deve, pertanto, ritenersi corretta ed intrinsecamente coerente anche con riferimento alla affermata sussistenza del reato di tentato omicidio e non di quello di lesioni personali. La differenza tra i reati di lesione personale e di tentato omicidio va ricercata – secondo orientamento consolidato – sul piano oggettivo nella differente potenzialità lesiva dell’azione; nel primo reato, infatti, essa esaurisce la sua carica offensiva nell’evento prodotto, mentre nel secondo vi è un di più, che va oltre l’evento realizzato e tende a causarne uno più grave, riguardante lo stesso bene giuridico o un bene giuridico superiore ed il medesimo soggetto passivo, non riuscendo a cagionarlo per cause indipendenti dalla volontà dell’agente. Nel tentato omicidio vi è un’oggettiva idoneità e una destinazione univoca dell’azione a realizzare il più grave evento, denunciata solo in parte dall’intenzione dell’agente, concorrendovi anche, e in misura prevalente, elementi di carattere oggettivo, quali la natura del mezzo usato, la parte del corpo della vittima presa di mira, la gravità della lesione infetta.

Irrilevante deve ritenersi la circostanza evidenziata dal ricorrente che anche l’imputato abbia riportato ferite da taglio alle mani, essendo evidente che tale conseguenza sia derivata dalla colluttazione conseguente alla reazione della vittima e del figlio che interveniva in aiuto della madre aggredita. Tale circostanza, quindi, non può valere di per sè ad escludere l’idoneità della condotta posta in essere dall’imputato, come del resto viene esplicitato nella sentenza di primo grado.

Gli elementi di fatto valutati correttamente dai giudici di merito, quindi, configurano la fattispecie concreta del tentativo punibile, ben oltre la mera attività preparatoria.

3. In ordine all’ultimo motivo di ricorso, premessa la genericità della formulazione, deve ricordarsi che la previsione normativa della regola di giudizio del "al di là di ogni ragionevole dubbio" non ha introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell’imputato (Sez. 2, n. 16357 del 02/04/2008, Crisiglione, rv. 239795).

Come è stato ripetutamele affermato il giudice deve ritenere intervenuto l’accertamento di responsabilità dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio, che ne legittima ai sensi dell’art. 533 c.p.p., comma 1 la condanna, quando il dato probatorio acquisito lascia fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulagli e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Sez. 1, n. 31456 del 21/05/2008, Franzoni, rv.

240763; Sez. 1, n. 23813 del 08/05/2009, Manickam, rv. 243801; Sez. 1, n. 17912 del 03/03/2010, Giampà, rv. 247449).

4. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost, sent. n. 186 del 2000) al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille Euro alla cassa delle ammende.

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