Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 17-02-2011) 08-06-2011, n. 22843

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Reggio Calabria, costituito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., con ordinanza del 2 agosto 2010, depositata il successivo 6 settembre, ha confermato la misura cautelare della custodia in carcere applicata dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, con provvedimento del 20 maggio 2010, nei confronti di M.M.G., sottoposta ad indagini per aver svolto, in qualità di partecipante all’associazione mafiosa denominata cosca Pesce di Rosarno (in provincia di Reggio Calabria), il ruolo di cassiera del denaro contante e degli assegni, provento dell’attività illecita del gruppo gestita dal genero detenuto, P.A. (classe (OMISSIS)), e dal nipote in libertà, P. F. (classe (OMISSIS)), figlio del primo.

I gravi indizi di colpevolezza a carico della M. sono integrati, secondo il Tribunale, innanzitutto, da un colloquio intercettato il 22 febbraio 2007, nel carcere di Poggioreale, in Napoli, tra il detenuto P.A. (in espiazione della pena dell’ergastolo per delitti di criminalità organizzata) e i suoi congiunti: il figlio, F.; la moglie, C.C.; e la suocera, M.M.G., attuale ricorrente. Nel colloquio, che è stato anche videoregistrato, P.A. affronta diversi argomenti e rimprovera aspramente il figlio di gestire malamente i rapporti con i propri cugini nella cura degli affari familiari; P.F. riferisce al padre di alcuni assegni e lo rassicura che essi, come da disposizioni impartite dallo stesso genitore, già erano e sarebbero rimasti in custodia presso la nonna, presente, la quale, con inequivocabile gestualità, conferma la circostanza.

Altro elemento indiziario a suffragio del ruolo di custode dei valori della cosca, che sarebbe stato rivestito dalla M., è indicato dal Tribunale nell’esito della perquisizione operata presso l’abitazione della donna, il 21 settembre 2007, che portò al rinvenimento della somma di Euro 16.945,00 in contanti, oltre a documentazione bancaria, blocchetti di assegni, atti immobiliari, appunti e manoscritti.

Il lasso di tempo (sette mesi) intercorso tra la suddetta conversazione in carcere e la perquisizione domiciliare con l’esito positivo, di cui si è detto, avvalorerebbe la stabilità della funzione di depositarla dei beni di interesse associativo, svolta dall’indagata.

I documenti prodotti dai difensori, per dimostrare la proprietà di appezzamenti coltivati ad aranceto da parte della M., non sarebbero invece idonei a giustificare l’entità delle somme rinvenute e si porrebbero in contrasto con quanto sostenuto dalla stessa M., nel corso del suo interrogatorio di garanzia, laddove non aveva negato l’appartenenza del denaro al nipote, P. A., dichiarando che esso era destinato al pagamento dei dipendenti del giovane, esercente un negozio di articoli sportivi, salvo poi modificare la versione iniziale con l’affermazione che i soldi erano il frutto della coltivazione dei suoi terreni.

Quanto alle esigenze cautelari, la presunzione di pericolosità sociale, discendente dalla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, ai sensi dell’art. 275 c.p.p., comma 3, non sarebbe superata dalla prova di rescissione del vincolo associativo, considerata l’attuale operatività della cosca Pesce, alla cui radicata presenza e azione nel territorio è dedicata la prima ampia sezione dell’ordinanza, donde l’ulteriore presunzione di adeguatezza della sola misura coercitiva di massimo rigore.

2.1 Avverso la predetta ordinanza ricorre per cassazione la M. tramite i suoi difensori.

L’avvocato Mario Santambrogio denuncia l’erronea applicazione ed interpretazione della norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis cod. pen., procedendo ad una dettagliata analisi del contenuto della conversazione intercettata il 22 febbraio 2007, così come trascritta dalla polizia giudiziaria, per evidenziare che da essa non sono in alcun modo suffragati, sia pure in via indiziaria, gli estremi del delitto associativo, contestando l’isolamento e l’estrapolazione di singoli passaggi che fuorviano dall’interpretazione unitaria e coordinata del colloquio.

Il ricorrente evidenzia, in particolare, che P.A. non avrebbe parlato nè dei propri nipoti in generale nè dei suoi figli, ma dei "figli dei figli miei", contestualmente affidandoli al proprio primogenito, F., ammonito con modi bruschi e perentori a comportarsi da "padre" per i suoi fratelli più piccoli ( P. F. è il primogenito di quattro fratelli).

L’ordinanza impugnata avrebbe, inoltre, confuso il vincolo familiare con il rapporto socio-criminale e la comunanza e solidarietà parentale con la partecipazione alla presunta associazione per delinquere di tipo mafioso, senza apprezzare il necessario requisito organizzativo postulato dal riconoscimento di un sodalizio criminale e la consapevole volontaria adesione che deve accompagnarlo.

Gli assegni di cui si parla nel colloquio sono, poi, logicamente incompatibili, secondo il ricorrente, con i proventi delle presunte attività estorsive che non tollerano di lasciare tracce di sè e, perciò, postulano solo pagamenti in contanti; mentre le somme rinvenute nel corso della successiva perquisizione domiciliare non sarebbero altro che il denaro ricavato annualmente dalla vendita degli agrumi prodotti nei terreni della M. e non sussisterebbe la ritenuta contraddizione tra le dichiarazioni dell’indagata con riguardo alla fonte del medesimo denaro.

Nulla proverebbero, infine, gli altri documenti rinvenuti nel corso della perquisizione, solo genericamente indicati nell’ordinanza, considerato che P.F., a seguito dell’arresto del padre, risalente nel tempo, dimorava costantemente presso la nonna fin dalla sua tenera età, insieme alla madre, al fratello e alle sorelle, donde il giustificato rinvenimento nell’abitazione della M. anche di documenti pertinenti all’attività economica di vendita di articoli sportivi esercitata dal giovane P..

2.2 Di analogo tenore è il ricorso dell’avvocato Domenico Putrino che propone una lettura analitica del dialogo registrato, con riportata integrale traduzione di esso dal dialetto calabrese alla lingua italiana, per concludere circa l’inconsistenza degli elementi d’accusa da esso tratti e la conseguente manifesta illogicità della motivazione dell’impugnata ordinanza.
Motivi della decisione

3. I ricorsi, i quali, al di là dei vizi formalmente denunciati, censurano entrambi la motivazione del provvedimento siccome meramente apparente con riguardo alla gravità del quadro indiziario di appartenenza dell’indagata all’associazione di tipo mafioso, sono fondati e vanno accolti.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni telefoniche (e ambientali) possono fondare l’elevata probabilità della colpevolezza dell’imputato ed essere assunti, quindi, nella concorrente presenza di esigenze cautelari, a fondamento di misure coercitive personali, qualora siano: a) gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e, quindi, attendibili e convincenti; b) precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto verosimile; c) concordanti, cioè non contrastanti tra loro e, più ancora, con altri dati o elementi certi (cfr., ex multis, Sez. 4, n. 22391 del 02/04/2003, dep. 21/05/2003, Qehalliu Luan, Rv. 224962).

L’ordinanza impugnata assume, come si è detto, quale fonte dei ritenuti gravi indizi di colpevolezza a carico di M.M. G. il contenuto di una sola conversazione tra presenti svoltasi il 22 febbraio 2007, in Napoli, nel carcere di Poggioreale, principalmente tra il genero detenuto, P.A., e il nipote, P.F., alla presenza assenziente dell’indagata, e il ritrovamento della somma di Euro 16.945,00 in contanti nell’abitazione della M., all’esito della perquisizione eseguita il 21 settembre 2007.

L’ordinanza, tuttavia, non spiega le ragioni per cui debba ritenersi altamente probabile la provenienza illecita degli assegni, cui P. A. e P.F. fanno riferimento nel loro colloquio, con l’intimazione del padre al figlio di lasciarli in custodia della nonna, e dei quali è solo postulata dal Tribunale la derivazione da attività estorsiva, sebbene quest’ultima sia normalmente espletata senza lasciare traccia di sè, secondo il corretto rilievo difensivo.

L’ordinanza, neppure, motiva in merito alla fonte del denaro contante trovato nell’abitazione della M. e dalla stessa giustificato con la coltivazione dei suoi terreni destinati ad agrumeto, come da documenti prodotti dal difensore, affermandone apoditticamente la provenienza illecita.

La mancanza di motivazione sui predetti punti, da ritenersi decisivi al fine di affermare la sussistenza di gravi indizi di partecipazione dell’indagata, con il ruolo di cassiera, all’associazione di tipo mafioso facente capo al genero e ad altri congiunti, importa l’annullamento dell’ordinanza impugnata con la trasmissione degli atti per nuovo esame al Tribunale di Reggio Calabria, il quale provvedere secondo le indicazioni che precedono.

La cancelleria curerà gli adempimenti previsti dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Reggio Calabria.

Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.

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