T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, Sent., 09-06-2011, n. 886 Occupazione abusiva o illegittima

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Parte ricorrente è proprietaria di un compendio immobiliare denominato "LeoniAlberelle", censito ai mappali nn. 50, 54, 56, 57, 58, 60, 78, 79, 80, 81, 98, 99, 100 e 103 del foglio mappa 45 NCTR del Comune di Desenzano.

In conseguenza dei lavori per la realizzazione della variante esterna agli abitati di Desenzano e Sirmione della SS. n. 11 Padana superiore, l’A. ha espropriato una parte di tali fondi dividendo la proprietà della signora G. in due appezzamenti separati dalla nuova strada e collegati da un sottopassaggio e da un cavalcavia.

Ai fini del trasferimento della proprietà dei fondi espropriandi, in data 16 giugno 1992 la sig.ra G. firmava, senza riserva, il verbale di accettazione consensuale dell’indennità offerta, che veniva per ciò stesso triplicata (per un importo totale di 439.046.700 Lire). La somma così determinata veniva pagata per l’80 %.

Stante il successivo mancato perfezionamento della procedura espropriativa, il 19 giugno 2001 la sig. G. agiva per conseguire, dato atto dell’intervenuta accessione invertita, l’emissione dell’ordinanza cautelare di cui all’art. 186 ter e la corresponsione delle indennità e del risarcimento dei danni subiti.

In particolare essa richiedeva:

– il pagamento del 100 % del valore di mercato delle aree oggetto di occupazione appropriativa, dedotti gli acconti versati e tenuto conto che l’attrice riveste qualifica di coltivatrice diretta del fondo;

– la corresponsione di una somma a compensazione del danno subito per effetto della perdita di valore del suo compendio, in ragione della sua divisione in due tronchi a seguito della realizzazione della strada e quantificato in circa 2 miliardi di lire;

– il pagamento dell’indennità di occupazione, anche temporanea, dal 16 gennaio 1992 al momento del completamento dell’opera (1998) ovvero al dì della sentenza, nonché dei maggiori costi di coltivazione e reimpianto del vigneto;

– l’adozione di un provvedimento ex art. 633 c.p.c. o in difetto ex art. 186 bister per il pagamento del residuo 20 % di indennità offerta;

– la corresponsione dei correlati interessi e svalutazione monetaria sulle suddette somme;

– il rimborso di spese, diritti ed onorari.

In via istruttoria la medesima chiedeva che fosse disposta una consulenza tecnica d’ufficio al fine di quantificare valore e risarcimenti richiesti, nonché che fosse ammessa la testimonianza di taluni soggetti indicati come soggetti a conoscenza dello stato dei luoghi e dei costi sostenuti dalla ricorrente per il ripristino della coltivazione.

Si costituiva in giudizio l’Amministrazione intimata, la quale provvedeva al deposito di una relazione sui fatti di causa, da cui emergeva che i lavori in questione, la cui ultimazione è stata certificata in data 23 aprile 1997, sono stati dichiarati di pubblica utilità, nonché urgenti ed indifferibili, con decreti n. 3668/368/709 del 22 febbraio 1994 e, da ultimo, n. 5796 del 26 novembre 1999. Quest’ultimo provvedimento ha disposto una nuova dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, urgenza ed indifferibilità dei relativi lavori ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 della legge 2359/1865, fissando, per l’inizio e la fine delle espropriazioni rispettivamente il termine di 180 giorni (e quindi il 29 maggio 2000) e di 1080 giorni (e quindi all’11/11/2002).

Tutto ciò premesso, con sentenza n. 998 del 26 giugno 2002, il T.A.R. Lombardia, sezione staccata di Brescia, "declinava la propria giurisdizione, ritenendo perfezionato il trasferimento della proprietà a seguito dell’accordo bonario sottoscritto e, quindi, considerando la questione come compresa nelle attribuzioni del giudice ordinario riguardo la determinazione e la corresponsione delle indennità conseguenti l’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa." (le parole sono della sentenza del Consiglio di Stato n. 4022/2009).

Avverso tale sentenza proponeva appello la sig.ra G..

Il procedimento di secondo grado si concludeva con la sentenza n. 4022/2009 già citata, con la quale il Consiglio di Stato, evidenziato come "l’accordo amichevole sull’ammontare dell’indennità di esproprio non comporti la cessione volontaria del bene, sicchè è sempre necessario il completamento del procedimento al fine del passaggio della proprietà del bene dall’espropriato all’espropriante", riteneva fondata la doglianza sull’errata declinatoria della giurisdizione operata dal giudice di primo grado e rinviava la questione al TAR di Brescia. Ciò in ragione del fatto che, nel caso di specie, non è "seguito all’accordo bonario nessuno dei due atti, né quello di diritto comune né quello di stampo autoritativo, che permette la conclusione del procedimento…La domanda proposta in primo grado, pertanto, non appartiene alla giurisdizione ordinaria, proprio perché non si è verificato il fatto presupposto, ossia il completamento dell’iter espropriativo".

Nel riesaminare la questione, questo Tribunale metteva in evidenza come, con decreto n. 5796 del 26 novembre 1999, A. s.p.a. avesse nuovamente dichiarato la pubblica utilità dell’opera per la realizzazione della quale sono stati occupati i fondi di proprietà della ricorrente, fissando il termine finale delle espropriazioni in 1080 giorni dalla data del provvedimento stesso; tale provvedimento non è stato censurato dalla ricorrente e ciò ha necessariamente determinato una pronuncia di rigetto del ricorso non potendosi ritenere che, alla data della proposizione della domanda, l’accessione invertita fosse intervenuta, non essendo allora ancora decorsi i nuovi termini finali per la conclusione della procedura espropriativa (cfr. sentenza n. 48/2010 di questa Sezione)

Attesa la mancata adozione del decreto d’esproprio, la proprietaria ha ulteriormente proposto il presente ricorso, volto ad ottenere il risarcimento del danno derivante dall’occupazione ed irreversibile trasformazione della sua proprietà, nonché dalla perdita di valore della proprietà residua, divisa in due dal passaggio dell’opera alla cui realizzazione l’espropriazione era preordinata, riconoscendo di aver incassato (il 5 agosto 1993), a titolo indennitario, 351.237.360 Lire, pari a 181.398,95 Euro.

In tale ricorso parte ricorrente ha evidenziato come la fattispecie in esame riguarderebbe un’ipotesi di occupazione appropriativa, cui non si applicherebbe l’art. 43 del DPR 327/2001, in ragione della norma transitoria di cui all’art. 56 del medesimo testo unico, perfezionatasi, come già affermato nella sentenza n. 48/2010, l’11 novembre 2002 (data di scadenza del termine di occupazione d’urgenza entro il quale non è stato adottato il decreto di esproprio). Tale fattispecie rientrerebbe nella cognizione del giudice amministrativo, cui competerebbe, quindi, di stabilire il risarcimento del danno dovuto, previa, in tal senso sono state formulate le conclusioni di parte ricorrente, dichiarazione dell’intervenuta occupazione appropriativa e, pertanto, rapportando il valore venale dei beni all’11/11/2002, ovvero, laddove si ritenesse applicabile l’art. 43, in misura pari al valore venale dei beni alla data della notifica del ricorso, con espressa rinuncia al risarcimento in forma specifica.

Il 28 maggio 2010 si è costituita in giudizio, con una memoria di stile, l’Amministrazione intimata.

Con ordinanza presidenziale n. 11 del 2010, in data 21 ottobre 2010, sono state disposte l’acquisizione agli atti del presente giudizio del fascicolo relativo al ricorso 7402001, già definito, nonché la produzione, da parte del Dirigente dell’Agenzia del Territorio, di una relazione relativa all’esatta superficie dell’area in controversia, l’ammontare dell’indennità di esproprio con riferimento all’1.2.2002 e all’ottobre 2010, la stima della diminuzione del valore subita dalla residua proprietà della ricorrente.

L’agenzia del Territorio, così incaricata, ha prodotto la richiesta relazione, chiarendo che l’area interessata dall’esproprio è pari, sia in base alle risultanze del tipo di frazionamento n. 270 del 28 febbraio 1997, che a quelle del sopralluogo effettuato in sede, a 19.370 mq, ricadente per intero in area "agricola produttiva a colture specializzate".

A seguito del deposito della suddetta relazione, parte ricorrente ha a sua volta depositato una perizia tecnica di parte, la quale, accettato il calcolo dell’indennità base operato dall’Agenzia del Territorio, ne prevede, nel caso di specie la triplicazione e contesta ampiamente l’asserita assenza di danno alla parte residua per effetto della divisione dell’azienda agricola in due parti separate dalla strada, ancorchè collegate.

In vista della pubblica udienza, parte ricorrente ha insistito per la nomina di un consulente tecnico d’ufficio che, nell’ambito del giudizio qualificabile come petitorio, determini il giusto risarcimento del danno, commisurato allo "svuotamento della proprietà, delle superfici della ricorrente occupate dall’A.", nonché della diminuzione di valore della restante proprietà aziendale, comprensiva anche dei danni indiretti. A tal fine parte ricorrente sottolinea come la stessa normativa in materia di espropri preveda (oggi all’art. 33 del DPR 327/01 e prima agli artt. 40 e 41 della legge 2359/1865) che, in caso di esproprio parziale, sia corrisposto al proprietario un’indennità pari alla differenza di valore del compendio prima e dopo l’esproprio. Conseguentemente essa richiede l’applicazione almeno di tale parametro di legge, previsto per l’ipotesi dell’esproprio.

L’Amministrazione ha, invece, eccepito l’infondatezza della pretesa risarcitoria proprio in considerazione di quanto emerso dalla verificazione disposta da questo Tribunale e tenuto conto del pagamento dell’indennità già operato.

Tali conclusioni sono state contestate con memoria di replica della ricorrente.

Alla pubblica udienza del 18 maggio 2011 la causa, su conforme richiesta dei procuratori delle parti, è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

Accertata la consistenza dei beni occupati in 19.370 mq, di cui 5.200 coltivati a vigneto D.O.C. e 14.170 destinati a seminativo (dati questi che sono stati ritenuti condivisibili nella perizia tecnica di parte depositata dalla ricorrente il vista della pubblica udienza), il Collegio ritiene che risulti fondata la pretesa di parte ricorrente volta ad ottenere un risarcimento del danno pari al valore venale dei beni occupati.

L’Amministrazione, infatti, non ha dimostrato e nemmeno asserito l’esistenza di un decreto di esproprio o altro titolo traslativo della proprietà legittimante l’apprensione alla mano pubblica.

Tale situazione di fatto genera una fattispecie allo stato priva di regolamentazione giuridica, non essendo più compatibili con il nostro ordinamento né il meccanismo dell’occupazione appropriativa, né quello dell’utilizzazione senza titolo di cui all’art. 43 del DPR 327/2001.

L’occupazione appropriativa – istituto di creazione pretoria risalente alla fine degli anni "80 – è stata, infatti, da tempo dichiarata non conforme ai principi fondamentali di cui all’art. 1 del Primo protocollo allegato alla Carta Europea dei diritti dell’uomo (che tutela il diritto di proprietà), con pronunce che hanno condotto a pesanti condanne nei confronti dello Stato Italiano che riteneva di poter far discendere l’effetto traslativo della proprietà dal porre in essere un’attività illecita quale la irreversibile trasformazione ad uso pubblico della proprietà privata, in assenza di qualsiasi norma che disciplinasse tale modo di acquisto della proprietà.

Proprio per rispondere a tale rilevato contrasto con i diritti fondamentali dell’uomo ravvisato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il legislatore ha disciplinato la fattispecie di cui all’art. 43 del DPR 327/2001, la cui entrata in vigore ha definitivamente sancito, secondo l’opinione sostanzialmente concorde di dottrina e giurisprudenza, la definitiva "morte" dell’istituto dell’accessione invertita (o occupazione appropriativa).

L’art. 43 del D.P.R. 327/01 è stato, però, anch’esso espunto dall’ordinamento per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 293 dell’8 ottobre 2010, che ha ravvisato nella sua introduzione nel testo unico una violazione dei limiti contenuti nella delega al governo per la sua predisposizione.

Ne è derivato un vuoto normativo che non può ritenersi ad oggi colmato dalla riviviscenza di un istituto non disciplinato dalla legge e ormai definitivamente giudicato come non conforme ai principi fondamentali della Carta dei Diritti dell’Uomo sottoscritta anche dall’Italia, con tutti gli obblighi che ne derivano.

Nelle more dell’auspicato intervento del legislatore, la questione dell’illegittima occupazione del suolo di proprietà privata e della sua trasformazione ad uso pubblico non può che essere risolta facendo applicazione dei principi generali del nostro ordinamento e ricorso all’interpretazione in via analogica delle norme.

Nel caso di specie parte ricorrente ha espressamente rinunciato alla restituzione dei beni occupati nel 1997, con la conseguenza che la risoluzione della controversia si pone esclusivamente in termini di reintegrazione per equivalente del danno patito, mediante corresponsione di una somma pari al valore venale dei beni occupati e trasformati ad uso pubblico, nonché al minor valore dei beni rimasti in proprietà della ricorrente.

Rispetto al calcolo del suddetto controvalore dei terreni, il Collegio ritiene di poter valorizzare il fatto che la perizia di parte ricorrente condivide la quantificazione dell’indennità di espropriazione operata dall’Agenzia del Territorio, limitandosi a moltiplicare per tre l’importo da quest’ultima determinato. Poiché la triplicazione del valore agricolo medio fissato annualmente dalla Commissione distinguendo per tipo di coltura – la quale viene normalmente riconosciuta al proprietario che, come la ricorrente, sia coltivatore diretto ed abbia anche accettato l’indennità offerta dall’ente espropriante – è tendenzialmente corrispondente al valore di mercato pieno dei terreni a destinazione agricola, il riconoscimento dello stesso risulta idoneo ad un’integrale ristorazione per la perdita della proprietà.

Del resto, parte ricorrente non fornisce alcun principio di prova atto a dimostrare che una tale quantificazione del valore dei terreni non sia corrispondente al valore venale, rendendo ingiustificata, con riferimento allo specifico punto, la richiesta di una consulenza tecnica d’ufficio.

Ciò chiarito, il parametro di riferimento non può che essere quello individuato in rapporto all’attualità, dal momento che, essendo in presenza di una fattispecie di danno permanente (connessa al protrarsi nel tempo dell’illegittima occupazione) il debito di valore relativo al risarcimento del danno deve essere quantificato avendo riferimento al momento in cui è stata proposta la domanda risarcitoria.

Per la perdita della proprietà della ricorrente, quindi, risulta dovuta la somma di Euro 327.580,50, da cui deve essere dedotto l’importo che risulta, incontestamente, essere già stato liquidato, pari a Lire 351.237.360 (Euro 181.398,95), nonché l’ulteriore somma di Lire 16.917.968 che l’Amministrazione attestava essere stata pagata, in corso di causa, nella propria memoria depositata nell’ambito del precedente ricorso n. 740/2001, laddove ne possa essere dimostrata la liquidazione a favore della ricorrente.

Le posizioni delle due parti in giudizio sono, invece, nettamente contrapposte per quanto riguarda il profilo del danno subito dalla parte residua della proprietà per effetto della sua suddivisione in due parti, separate dal passaggio della strada.

A tale proposito il Collegio ritiene di non poter condividere le conclusioni cui è pervenuta l’Agenzia del Territorio, all’uopo incaricata della stima. La realizzazione di idonei passaggi di collegamento tra le due parti dell’azienda agricola divisa dal passaggio dell’opera pubblica esclude che debba essere riconosciuto un risarcimento corrispondente al danno derivante dall’interclusione dei fondi residui, ma appare piuttosto intuitivo come essa non sia sufficiente ad escludere gli ulteriori danni derivanti dal fatto che la sottrazione di superficie porta ad un incremento dell’incidenza dei costi fissi (ammortamento e manutenzione dei fabbricati e delle macchine, amministrazione, direzione e sorveglianza) per ettaro di superficie. Inoltre l’intersecazione del fondo aumenta i tempi morti per il trasferimento delle attrezzature aziendali nella parte dell’azienda separata dal centro aziendale e la sconfigurazione comporta un aumento delle tare improduttive e, riducendo la lunghezza dei campi, aumenta i tempi per l’esecuzione delle operazioni colturali meccanizzate.

È pur vero che, rispetto a tali diminuzioni di valore degli immobili rimasti in proprietà della ricorrente, nessuna indennità di espropriazione è stata prevista e tale circostanza non risulta essere stata contestata nell’ambito della procedura espropriativa, considerata l’intervenuta accettazione dell’indennità in sede di accordo per la cessione dei beni.

Una tale circostanza non esclude, però, che nella diversa situazione dedotta in giudizio, in cui è stata fatta valere una pretesa risarcitoria derivante dall’illegittima occupazione dei beni sopravvenuta a seguito della mancata adozione del decreto d’esproprio nei termini fissati, non possa trovare spazio il riconoscimento di un’apposita voce di danno che appare equo quantificare applicando il criterio di stima previsto originariamente nell’art. 15 della legge n. 865/1971, in quanto norma speciale, riferita alle aree agricole, rispetto a quella generale di cui all’art. 40 della legge n. 2359/1865, poi trasfuso nell’art. 33 del DPR 327/2001 (cfr Corte di Cassazione, sez. I, 25 novembre 2010, n. 23967).

L’applicazione di tale norma non ammette il risarcimento del danno per l’aumento di emissioni inquinanti conseguenti all’intenso traffico veicolare, non essendo riconosciuto dalla giurisprudenza il deprezzamento dovuto a limitazioni legali della proprietà come perdite di visuali o inquinamento atmosferico che non superi la normale tollerabilità (cfr. Corte di Cassazione, I civ, 3 marzo 2011, n. 5147), mentre porta al riconoscimento della spettanza di una somma pari alla differenza di valore del compendio immobiliare prima e dopo l’esproprio (rectius, l’occupazione, nel caso di specie).

L’indennizzo deve, quindi, comprendere il ristoro del pregiudizio arrecato dall’espropriazione all’attività aziendale agricola su quel terreno esercitata, nella misura in cui incide direttamente sul fondo, nel senso che esso (pregiudizio) deve in concreto consistere in un danneggiamento materiale dell’immobile o nella compromissione di una condizione di fatto essenziale per l’utilizzazione od il godimento dello stesso (Cass. 8502/2006, 27801/2205, 7224/1995), e deve risolversi sul piano economico in una effettiva diminuzione del valore venale del bene su cui era allocata l’azienda agricola.

Ne discende che l’eventuale danno subito può essere oggetto di indennizzo soltanto se ed in quanto costituisca un pregiudizio conseguente ad una diminuzione o perdita di un valore in precedenza proprio dell’immobile stesso, e direttamente ricavato dalla sua peculiare destinazione agricola.

Accertato che, nel caso di specie, sussistono le condizioni per dare applicazione al suddetto art. 15 della legge 865/1971, in considerazione dell’innegabile diminuzione di valore subita dall’azienda agricola della ricorrente per effetto della sua suddivisione, per quanto riguarda il criterio cui commisurare detto pregiudizio non si può prescindere dal dare conto che numerose decisioni della Corte di Cassazione hanno affermato che l’indennizzo vada liquidato in base al meccanismo differenziale posto dal menzionato art. 40 della legge fondamentale (determinando, quindi, sia il valore dell’area nella sua originaria consistenza, sia quello della parte risultante dalla perdita o separazione della porzione espropriata, ed operando poi, la differenza tra i due valori). Ciononostante la giurisprudenza ha anche più volte osservato come l’operazione di calcolo indicata dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40, non sia vincolante, potendosi raggiungere il medesimo risultato anche mediante criteri diversi, quale quello della somma del valore venale della parte espropriata e del minor valore della parte residua, oppure attraverso il computo delle singole perdite, ovvero aggiungendo al valore dell’area espropriata quello delle spese e degli oneri, che incidendo sulla parte residua, ne riducano il valore, o mediante altri parametri equivalenti (Cass. 26216/2005, 5359/2000, 13887/1999). Come affermato dalla Corte di Cassazione, sez. I, 04 maggio 2009, n. 10217: "proprio siffatto principio ha trovato recente conferma sia nell’art. 33 del nuovo T.U. che non menziona più la stima differenziale, ma impone soltanto al giudice di merito di tener conto della diminuzione di valore della parte residua, perciò autorizzandolo ad avvalersi del criterio ritenuto più idoneo nel caso concreto a raggiungere siffatto risultato; sia nella decisione 305/2003 della Corte Costituzionale, che, proprio con riguardo ai terreni agricoli, ha ribadito la non obbligatorietà della stima differenziale dell’azienda incidente sul fondo e la legittimità del ricorso a criteri che si fondino sulla somma algebrica del suo valore agricolo e delle perdite che lo smembramento ha arrecato all’azienda medesima".

Ciò chiarito in linea di principio, il Collegio non ritiene, però, accettabile la stima proposta dal tecnico di parte ricorrente, nella redazione della quale è stato scelto di operare capitalizzando il potenziale canone di affitto della proprietà al netto delle spese di parte padronale, prima e dopo la sottrazione della superficie destinata alla realizzazione dell’opera pubblica, senza motivare tale scelta, né documentare o comunque fornire un principio di prova dell’attendibilità di un canone di affitto stimato in Euro 450 per "piò bs" e dare conto delle modalità di determinazione dei diversi saggi di capitalizzazione utilizzati.

Nel corso della pubblica udienza, peraltro, parte ricorrente ha prodotto copia del protocollo d’intesa stipulato in data 6 ottobre 2009 tra Regione Lombardia, C. s.p.a., B. s.p.a., Confagricolutara Lombardia, Coldiretti Lombardia, CIA Lombardia e Unione regionale proprietà fondiaria per l’individuazione dei criteri di stima da applicarsi nella valutazione degli indennizzi dovuti a favore dei soggetti che subiscano un danno alla loro azienda agricola per effetto della realizzazione del collegamento autostradale tra Milano e Brescia.

Proprio in considerazione dell’ampia condivisione del criterio ivi determinato, per addivenire all’individuazione del quale sono state coinvolte le organizzazioni maggiormente rappresentative degli agricoltori, il Collegio ritiene che esso possa trovare applicazione anche nel caso di specie.

L’A. s.p.a. dovrà, quindi, provvedere, ai sensi del comma 4 dell’art. 34 del c.p.a. (applicabile non essendovi stata alcuna opposizione in tal sensi delle parti costituite) a formulare alla ricorrente un’offerta dando applicazione al medesimo, così come di seguito esplicitato.

L’art. 16 di detto accordo prevede, per la determinazione dell’indennità integrativa dovuta nel caso dell’espropriazione parziale di un bene unitario, che: "1. In conformità a quanto stabilito all’art. 33 DPR 327/01, l’esproprio parziale di bene unitario, quando comporta dimostrato ed oggettivo deprezzamento della parte di fondo non espropriata, determina l’obbligo di corrispondere un’indennità aggiuntiva per la parte di fondo non espropriata calcolata secondo quanto previsto al successivo comma 2, con la finalità di tenere conto della diminuzione di valore di detta parte residua non espropriata. 2. Il valore dell’indennità per la parte residua di fondo non espropriata è composto dalle seguenti voci: a) indennizzo per la riduzione della consistenza fisica e/o funzionale dell’azienda; b) indennizzo per danni da intersecazione derivanti dalla formazione di corpi aziendali separati; c) Ai fini del calcolo delle indennità integrativa sarà esclusivamente considerato il deprezzamento della parte di fondo, di proprietà, ricompreso entro il limite massimo della fascia di rispetto autostradale ai sensi dell’art. 26 DPR 495/1992. Le modalità di calcolo sono indicate nell’Allegato A.".

Nel suddetto allegato A è previsto che l’"indennizzo per danni da intersecazione derivanti dalla formazione di corpi aziendali separati", deve essere determinato, tenuto conto che nel caso di specie la superficie aziendale totale è pari ad oltre 65 ettari, secondo la seguente formula: Srs x V.A.M. aziendale x C, dove:

– Srs = superficie aziendale compresa tra il confine della proprietà ed il limite della fascia di rispetto stradale ex DPR 495/1992 e s.m.;

– V.A.M. aziendale = (VAM x superficie della singola coltura): superficie totale dell’azienda;

– C = percentuale del VAM aziendale determinata sulla base della seguente tabella:

Sm/St C

4150 16 % VAM aziendale

3140 17 % VAM aziendale

2130 18 % VAM aziendale

Inf. 20 20 % VAM aziendale

A sua volta il rapporto Sm/St è rappresentato dal rapporto percentuale fra superficie dell’appezzamento di minori dimensioni (e, quindi, della più piccola delle parti in cui l’azienda è stata divisa) e la superficie aziendale al netto di quella oggetto di occupazione (nel caso di specie più sopra quantificata in 19.370 mq).

Applicando la regola al caso concreto in esame, quindi, l’A. S.P.A, previa verifica della superficie residua attualmente adibita a vigneto e a seminativo (anche mediante la collaborazione di parte ricorrente, che provvederà a produrre la documentazione attestante tali dati), procederà alla quantificazione dell’indennità dovuta a fronte della diminuzione del valore subito dall’azienda agricola per effetto della riduzione della sua superficie e della separazione della stessa in due blocchi, tenendo peraltro conto che nell’azienda in questione si registra la presenza di due colture in essere sui fondi (vigneto e seminativo). Ciò comporta che il VAM aziendale dovrà essere calcolato utilizzando la seguente formula: VAM Vigneto 2010 (10,78 E/mq) per superficie totale adibita a vigneto, più VAM seminativo 2010 (3,75 E/mq) per superficie totale adibita a seminativo, il tutto diviso per la superficie totale dell’azienda agricola rimasta nella disponibilità della ricorrente.

Il VAM aziendale così determinato dovrà essere moltiplicato per la superficie aziendale al netto delle fasce di rispetto stradale di cui al DPR 495/1992 e s.m. (Srs), nonché per il coefficiente "C" ricavabile dalla sopra riportata tabella.

Sull’indennità integrativa così determinata, così come sulle somme dovute come corrispettivo per la perdita della disponibilità dei terreni (valore venale della superficie occupata, dedotto quanto già liquidato a titolo di indennità di espropriazione), saranno altresì dovuti gli interessi dalla data della domanda (7 maggio 2010) al saldo.

Peraltro, la liquidazione degli indennizzi così calcolati non può che essere subordinata alla contestuale regolarizzazione della situazione proprietaria.

Se, infatti, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 43 del DPR 327/01 non può certo ritenersi venuto meno "… il dovere di ristorare i proprietari espropriati del pregiudizio cagionato dall’occupazione sine titulo…" (Cons. Stato, 28 gennaio 2011 n. 676), d’altro lato anche laddove, come nel caso di specie, sia stato chiesto unicamente il risarcimento per equivalente, all’implicita rinuncia alla restituzione, come autorevolmente stabilito dal Consiglio di Stato, non può in alcun modo attribuirsi un effetto abdicativo della proprietà in favore dell’Amministrazione, essendo tale conclusione in contrasto con l’esigenza di tutela della proprietà, la quale esige che l’effetto traslativo consegua a una volontà inequivoca del proprietario interessato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30 gennaio 2006, nr. 290).

Ne discende che, venuta meno la norma che attribuiva al soggetto pubblico il potere di determinare unilateralmente l’effetto traslativo, la produzione di quest’ultimo non può prescindere dal concorso della volontà dell’espropriato (Cons. Stato, 28 gennaio 2011 n. 676), con la conseguenza che l’Amministrazione dovrà, quindi addivenire ad un accordo transattivo con la parte ricorrente che determini il definitivo trasferimento della proprietà dell’immobile accompagnata dal risarcimento del danno da occupazione illegittima (quantificato come meglio sopra specificato).

Le spese del giudizio seguono l’ordinaria regola della soccombenza.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione.

Condanna l’Amministrazione resistente al pagamento delle spese del giudizio nella misura di Euro 5.000 (cinquemila/00), oltre ad IVA, CPA, rimborso forfetario delle spese e rimborso del contributo unificato dalla ricorrente anticipato ai sensi del comma 6 bis dell’articolo 13 del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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