Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 28-04-2011) 09-06-2011, n. 23288 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il G.U.P. del Tribunale di Trani, con sentenza del 4.04.2005, dichiarava M.F., D.A. e B.A. M. colpevoli in ordine al reato di cui all’art. 81 cpv. c.p. e art. 110 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1, 4 e 5 (detenzione e cessione a terzi di varie quantità di sostanze stupefacenti del tipo cocaina, hashish e marijuana) e, esclusa l’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, riconosciuta la continuazione, qualificati i fatti sub D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1, 4 e 5 ed applicata la diminuente per il rito abbreviato, condannava: M. e D. alla pena di anni uno, mesi dieci di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa ciascuno, B. alla pena di anni uno, mesi due di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa. Avverso la sopra indicata sentenza proponevano appello gli imputati M.F., D. A. e B.A.M..

La Corte di appello di Bari, con sentenza datata 18.06.2010, oggetto dei presenti ricorsi, riduceva la pena inflitta a M.F. e a D.A. ad anni uno, mesi otto di reclusione ed Euro 3000,00 di multa; confermava nel resto l’impugnata sentenza;

condannava B.A.M. al pagamento delle ulteriori spese processuali.

Avverso tale sentenza proponevano distinti ricorsi per cassazione tutti e tre gli imputati che concludevano chiedendone l’annullamento.
Motivi della decisione

D.A. ha censurato la sentenza impugnata per il seguente motivo:

inosservanza o erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., n. 1, lett. b) ed e) in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, in quanto i giudici di merito avrebbero ritenuto la sua colpevolezza e motivato la sentenza impugnata sulla base di conversazioni intercettate che, peraltro, non sarebbero sufficienti perchè offrirebbero dati non univoci, certi e gravi per affermare la sua responsabilità. Non sarebbe pertanto condivisibile l’interpretazione delle predette intercettazioni fornita dalla Corte d’appello.

M.F. ha censurato l’impugnata sentenza per i seguenti motivi:

1) inosservanza o erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., n. 1, lett. a) in relazione alla valutazione della prova, alla utilizzabilità delle intercettazioni in riferimento all’art. 270 c.p.p., art. 268 c.p.p., comma 3 e art. 271 c.p.p..

2) mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione all’accertamento di responsabilità dell’imputato, alla prova della sua penale responsabilità, alla falsa applicazione dell’art. 159 c.p..

Secondo il ricorrente il materiale raccolto (esiti delle intercettazioni,insussistenza di sequestri di droga a suo carico, dichiarazioni di L.S.) non renderebbe affatto palese che egli rifornisse di droga il D.. Non ci sarebbero infatti riscontri nei confronti del M. atteso il linguaggio criptico delle intercettazioni che, peraltro, sarebbero inutilizzabili perchè mai autorizzate nel presente procedimento. Il giudice non avrebbe operato il vaglio di indispensabilità richiesto dall’art. 270 c.p.p..

Pertanto tali intercettazioni avrebbero potuto costituire solo un punto di partenza, ma non potevano essere nuovamente utilizzate contro di lui. Nei decreti in questione inoltre non sarebbero state specificate le ulteriori ragioni di urgenza che avevano reso necessario il compimento delle operazioni mediante impianti in uso alla P.G.. Secondo la difesa del M. inoltre la motivazione sarebbe gravemente insufficiente in quanto nella sentenza impugnata si spiega che è palese che il M. riforniva di droga il D., senza peraltro indicarne le ragioni.

B.A.M. ha censurato la sentenza impugnata per:

1) Violazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e) in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, in quanto erroneamente la sentenza impugnata fonderebbe la prova della sua responsabilità sulle conversazioni intercettate, spesso costituite da frasi tronche, incomplete e generiche, di cui la Polizia giudiziaria ha dato una sua propria, spesso arbitraria interpretazione.

I proposti ricorsi sono manifestamente infondati.

Per quanto attiene all’assunto della difesa di M.F. secondo cui le intercettazioni telefoniche sarebbero inutilizzabili perchè mai autorizzate nel presente procedimento, si osserva che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr., Cass., Sezioni Unite, Sent. n.45189 del 17.11.2004, Rv. 229245), l’inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni per violazioni dell’art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3, è rilevata dal giudice del procedimento diverso da quello nel quale furono autorizzate solo quando essa risulti dagli atti di tale procedimento, non essendo tenuto il giudice a rilevarne di ufficio la prova. Grava, infatti, sulla parte interessata a farla valere l’onere di allegare e provare il fatto dal quale dipende l’eccepita inutilizzabilità, sulla base di copia degli atti rilevanti del procedimento originario che la parte lesa ha diritto di ottenere in applicazione dell’art. 116 c.p.p.. Nell’odierna fattispecie, invece, la difesa del M., di fronte alla sentenza impugnata che motiva in modo congruo e dettagliato a proposito della utilizzabilità delle intercettazioni in oggetto, si limita ad affermare che le stesse non sarebbero utilizzabili nel presente procedimento, perchè autorizzate in procedimento diverso.

Passando poi all’esame degli altri motivi del ricorso proposto da M.F. e dei ricorsi proposti da D.A. e da B.A.M. si osserva che gli stessi sono manifestamente infondati.

La sentenza impugnata osserva infatti correttamente, con motivazione congrua e dettagliata, che non possono condividersi le doglianze riguardanti i contenuti delle telefonate intercettate, in quanto appare di tutta evidenza, proprio in ragione del linguaggio volutamente criptico utilizzato dai conversanti, che sono appunto gli odierni ricorrenti, il riferimento di tali dialoghi a ripetute forniture di droga che il M. faceva in favore del D.. Rileva poi la Corte territoriale che le predette intercettazioni hanno trovato riscontri negli esiti delle perquisizioni e sequestri a carico del D. e della sua convivente B.A.M., presso il cui domicilio è stata sequestrata cocaina occultata in parte nel comodino della camera da letto, in parte nella tasca di un giubbotto conservato nell’armadio, oltre a sostanza da taglio e ad altra cocaina trovata nella tasca di una giacca della B.. Per quanto poi attiene al concorso nel reato della ricorrente B., la sentenza impugnata ha correttamente osservato che la donna non si è limitata a tollerare l’attività illecita del convivente, ma vi ha partecipato direttamente, contribuendo alla detenzione (nei luoghi utilizzati da entrambi dell’abitazione), all’occultamento e alle cessioni (come si può evincere dalla lettura delle trascrizioni delle conversazioni telefoniche intercettate).

La stessa deve quindi rispondere del reato di detenzione, al fine di spaccio, di sostanze stupefacenti, in quanto, per la configurabilità del concorso di persone nel reato, il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà (Cass. Sez.4 n. 24895 del 22.5.2007). Sul punto questa Corte, nella sentenza n.4948 del 22.01.2010, Rv. 246649, emessa dalla quarta sezione in materia di illecita detenzione di sostanze stupefacenti, ha ulteriormente precisato la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto, evidenziando che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, privo cioè di qualsivoglia efficacia causale, il secondo richiede, invece, un contributo partecipativo positivo, morale o materiale, all’altrui condotta criminosa, assicurando quindi al concorrente, anche implicitamente,una collaborazione sulla quale questi può contare.

I proposti ricorsi devono quindi essere dichiarati inammissibili e i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali e al pagamento della somma di Euro 1000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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