Cass. pen., sez. IV 31-07-2008 (01-07-2008), n. 32367 Condizione ostativa del dolo o della colpa grave – Accertamento – Elementi di valutazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

FATTO E DIRITTO
Con l’ordinanza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Catanzaro rigettava la domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione subita da D.G.L. a seguito dell’applicazione della misura cautelare in carcere inflitta nei suoi confronti dal 6 al 18 febbraio 1999, allorchè il Tribunale del riesame aveva revocato la misura.
Il D.G. era stato accusato dei reati di sabotaggio di mezzi di produzione, tentata estorsione e molestia alle persone commesso a mezzo del telefono, dai quali era stato assolto con formula piena.
Con l’ordinanza impugnata la Corte di merito escludeva il diritto alla riparazione ravvisando la colpa grave dell’istante, il quale, con la condotta tenuta aveva dato gratuitamente origine all’intero In particolare, si evidenziava che il D.G., dipendente "in nero" quale tipografo presso un quotidiano, aveva iniziato ad effettuare una serie di telefonate anonime alla madre del direttore editoriale del giornale, prospettando il rischio di guasti alle rotative, che puntualmente si verificavano, cagionando seri pregiudizi al quotidiano; in altra telefonata, anche anonima, effettuata direttamente sulla utenza cellulare del direttore, il D. G. addirittura si vantava dell’incidente. Inoltre, la Corte territoriale desumeva la colpa grave anche dal colloquio tenuto dal ricorrente con il direttore del giornale, nel corso del quale il primo riferiva dei propri problemi finanziari ed ammetteva di essere l’autore delle citate telefonate anonime. La riferibilità delle telefonate all’istante – sottolineavano i giudici della riparazione – non era in discussione: il D.G. aveva ammesso di esserne l’autore nel corso di un colloquio registrato dal direttore ed ulteriore riscontro era rinvenibile nel fatto che le telefonate erano state effettuate da un’utenza intestata alla madre del ricorrente.
Altro elemento di colpa grave era ravvisato nella mancata collaborazione del ricorrente allo svolgimento delle indagini.
D.G.L., tramite difensore, propone ricorso per cassazione avverso la suddetta ordinanza articolando tre motivi.
Con il primo si duole della violazione di legge e della conseguente illogicità della motivazione sul rilievo che il giudice della riparazione aveva fondato la colpa grave dell’istante su elementi di prova ritenuti inutilizzabili nel corso del giudizio. In particolare era stata dato rilievo alla testimonianza de relato dell’ufficiale dell’Arma che aveva riportato il contenuto della conversazione telefonica registrata affermando che la voce anonima, poi riconosciuta essere quella del D.G., aveva pronunciato la frase " visto l’imprevisto che ti ho causato ieri?". Il giudice della riparazione non aveva invece dato rilievo alla testimonianza diretta del direttore del giornale, che non aveva riferito quella frase. Si sostiene, inoltre, che tale frase, che sarebbe contenuta nell’unica telefonata trascritta, non esiste.
Il ricorrente svolge analoga censura con il secondo motivo lamentando che il giudice della riparazione fonda la colpa grave sulle telefonate anonime inutilizzabili e su comportamenti processuali dell’indagato, con riferimento ai quali sarebbe stata fornita una motivazione solo apparente.
Con il terzo motivo lamenta la violazione di legge con riferimento all’art. 91 c.p.p., laddove l’ordinanza impugnata condanna l’istante al rimborso delle spese del grado di giudizio in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che non era comparso e non aveva contestato la pretesa risarcitoria del richiedente. Le osservazioni sul quantum debeatur formulate dall’Avvocatura non varrebbero ad immutare la natura sostanzialmente non contenziosa del procedimento dinanzi alla Corte di appello.
Il primo ed il secondo motivo meritano una trattazione congiunta, essendo entrambi rivolti a contrastare la valutazione compiuta dal giudice della riparazione in merito alla sussistenza di condotte ostative poste in essere dall’istante, qualificate colpose ed idonee casualmente a determinare l’autorità giudiziaria a disporre, in sede cautelare, la restrizione della libertà personale.
Ciò premesso, le doglianze proposte dal ricorrente avverso il provvedimento impugnato non sono condivisibili.
Appare opportuno richiamare in via generale i principi a cui la Corte di merito deve attenersi nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione (art. 314 cod. proc. pen.),ai fini dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa della colpa grave (o del dolo) dell’interessato. Sul tema è stato in più occasioni ribadito da questa Corte che il giudice, pur operando necessariamente sul materiale probatorio acquisito dal giudice della cognizione, non deve stabilire se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se esse si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) rispetto alla produzione della detenzione, per l’idoneità di tali condotte, da valutarsi "ex ante", a trarre in inganno l’autorità giudiziaria. In particolare, perchè la condotta difensiva – la quale va valutata con particolare prudenza, dovendosi rispettare la strategia di difesa del soggetto – possa essere considerata ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, è indispensabile non solo che si tratti di una condotta scorretta (come per esempio il fornire un alibi falso o mendace), ma che ricorra anche il rapporto sinergico di causa ed effetto tra condotta e detenzione, con conseguente obbligo di motivazione del giudice di merito al riguardo. (v., tra le tante.
Sezione 4, 19 giugno 2008, Galli).
Non è sufficiente, perciò, che il giudice di merito accerti ed evidenzi un comportamento, il quale risulti rilevante sul piano soggettivo quale colpa grave o dolo, di per sè idonea a determinare, o almeno a contribuire a determinare, la misura cautelare custodiale, ma occorre che il giudice dell’equa riparazione sottoponga ad attento esame il provvedimento restrittivo della libertà personale allo scopo di verificare se esso sia stato adottato o meno in conseguenza di quel comportamento riferito all’istante e valutato come gravemente colposo.
In altri termini, il giudice dell’equo indennizzo, una volta appurato che quella certa condotta dell’istante, valutata come gravemente colposa (o dolosa), ha negativamente inciso sulla libertà del medesimo, provocandone o contribuendo a provocarne la privazione o il mantenimento dello stato di privazione, deve dare atto nel suo provvedimento che tale elemento ha assunto in concreto determinante rilevanza agli occhi del GIP agli effetti dell’emanazione della misura cautelare.
Ciò posto, ed in riferimento alla fattispecie in esame, quanto al concorso del D.G. nella causazione dello stato detentivo, ritiene questa Corte che il giudice della riparazione ha compiuto in concreto la disamina del provvedimento con il quale è stata disposta la misura coercitiva a carico del ricorrente, proprio allo scopo di verificare se tale provvedimento fu adottato o meno per effetto anche di quei comportamenti evidenziati nell’ordinanza impugnata e giudicati gravemente colposi.
La Corte dì merito ha infatti analizzato la gravita degli elementi indiziari posti a fondamento della misura – che hanno trovato, peraltro, riscontro nelle sentenze di merito – soffermandosi anche sul profilo soggettivo della fattispecie e sul nesso di condizionamento tra il comportamento del ricorrente e la misura cautelare che gli venne applicata.
In tal senso, i giudici della riparazione hanno elencato una serie di comportamenti ascrivibili al D.G. (una serie di telefonate anonime alla madre del direttore editoriale del giornale, riconducibili con certezza al D.G., avendolo egli stesso ammesso nel corso di un colloquio con il direttore del giornale, registrato da quest’ultimo; ulteriore riscontro era rinvenibile nel fatto che le telefonate erano state effettuate da un’utenza intestata alla madre del ricorrente; nella mancata collaborazione del ricorrente allo svolgimento delle indagini, prima dell’adozione della misura cautelare, con il tentativo, invece, da parte dello stesso di introdurre una fantasiosa storia di minacce ricevute, confidandola ad un proprio collega di lavoro).
Non può, pertanto, essere posto in dubbio che sia stato dalla Corte di merito correttamente assolto l’obbligo di motivazione, in termini di adeguatezza, congruità e logicità, con la conseguente incensurabilità del provvedimento ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in sede di legittimità.
Si palesano, pertanto, prive di rilievo le doglianze del ricorrente relative all’asserito errato riferimento fatto nel provvedimento a prove inutilizzabili (la conversazione registrata e le telefonate anonime) per fondare la colpa grave dell’istante ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione.
In proposito, a contrastare la doglianza, va innanzitutto evidenziato che la registrazione fonografica di una conversazione o di una comunicazione ad opera di uno degli interlocutori non è riconducibile, quantunque eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, ma costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo secondo la disposizione dell’art. 234 c.p. (v. sul punto, Sezioni unite, 28 maggio 2003, Torcasio e da ultimo, Sezione 2, 11 aprile 2007, Pitta).
La doglianza è, altresì, infondata , giacchè, all’evidenza, il giudice della riparazione ha individuato gli elementi della colpa sinergica alla detenzione attraverso il riferimento ad un incontestato ed incontestabile comportamento dell’istante, il quale, anche nel corso del dibattimento (sentenza di primo grado) ha ammesso di avere effettuate le telefonate in questione, anche se giustificandolo "con il solo fine di informare i titolari che alla macchina accadevano cose strane".
E’ da rilevare, infine, che il primo motivo (afferente il contenuto della telefonata anonima e le relative testimonianze) è inammissibilmente articolato in toni tali fa prefigurare una opinabile ricostruzione dei fatti, che è squisitamente di merito e, come tale, implicherebbe un sindacato precluso al giudice di legittimità.
La Corte di merito, pertanto, nell’escludere il diritto alla riparazione dell’istante non si è fondato sugli elementi provenienti da fonti confidenziali o anonime, ma su comportamenti dell’istante, fondati su prove per le quali non valgono le eccezioni di inutilizzabilità proposte in questa sede.
E ciò tacendo del fatto che, in ogni caso, nell’ambito del procedimento di equa riparazione, il giudice ben può utilizzare, per farne discendere la prova della colpa grave dell’istante, ostativa alla concedibilità dell’indennizzo, atti pur dichiarati inutilizzabili nel processo di cognizione penale.
Questo perchè la nozione di "inutilizzabilità" (art. 191 c.p.p.) concerne la formazione della prova nel giudizio penale di cognizione, e non riguarda certo la condotta dell’imputato dal punto di vista fattuale e storico, che il giudice della riparazione può e deve apprezzare, operando su un piano diverso rispetto al giudice della cognizione penale, attraverso la valutazione non degli elementi probatori di accusa a carico dell’imputato – la cui ritenuta insussistenza processuale in sede di cognizione, eventualmente anche proprio a causa di inutilizzabilità, costituisce il presupposto per l’equa riparazione – bensì della condotta del soggetto interessato, che va desunta evidentemente dallo stesso materiale già vagliato, ad altro fine, dal giudice della cognizione, eccezion fatta solo per quei comportamenti che siano stati espressamente esclusi da quest’ultimo (di recente, Cassazione, Sezione 4, 17 aprile 2008, Piazzola; nonchè, Sezione 4, 13 maggio 2008, Moretti, pur dovendosi dare atto di un contrasto di giurisprudenza sul punto, per il quale la questione è stata rimessa alle Sezioni unite, con ordinanza di questa sezione, 28 maggio 2008, Racco).
Anche la doglianza contenuta nel terzo motivo afferente la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento sostenute dalla controparte dinanzi al giudice della riparazione, è infondata.
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v. tra le tante, Sezione 4, 14 ottobre 2005, Ministero dell’economia e finanze ed altro in proc. Baraldi), condivisa dal Collegio, le spese del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, per le connotazioni civilistiche che afferiscono a tale istituto, vanno regolate secondo i criteri indicati dagli artt. 91 e 92 c.p.p.. In un tale contesto, il sindacato di legittimità, in tema di regolamento delle spese processuali, è limitato alla violazione del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa.
La decisione è, pertanto, coerente a tale impostazione, laddove ha posto le spese del procedimento a carico dell’istante soccombente, pur a fronte di una contestazione dell’Amministrazione limitata al solo quantum debeatur.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; sussistono giusti motivi, in considerazione delle questioni trattate, per la compensazione tra le parti delle spese di questo grado di giudizio.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali; dichiara compensate le spese tra le parti.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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