Cass. pen., sez. II 31-07-2008 (11-07-2008), n. 32358 Caratteri della minaccia – Assorbimento del reato in quello di estorsione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
1.1. Con sentenza in data 21-11-2007 la Corte di appello di Lecce confermava la sentenza in data 10-10-2006 del Tribunale di Lecce, con la quale M.A. e S.A. erano stati riconosciuti responsabili dei contestati reati di violenza privata e di estorsione e – previa unificazione degli addebiti con il vincolo della continuazione ed assorbimento in essi delle ulteriori imputazioni di ingiuria, minaccia e lesioni elevate a carico dei medesimi imputati – erano stati condannati alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa ciascuno, nonchè al risarcimento dei danni in favore della p.c. Sa.An., da liquidarsi in separata sede.
Secondo l’impostazione accusatoria recepita dai Giudici di merito il M. e il S. avevano costretto Sa.An. a pulire la cella dove erano ristretti e a cucinare, facendo ricorso alla violenza e alla minaccia e intimandogli di prestarsi a un rapporto sessuale orale; inoltre si erano procurati un ingiusto profitto, costringendo il medesimo Sa. con la minaccia di future ritorsioni ad acquistare generi alimentari e di conforto, che venivano poi dagli imputati consumati o ceduti ad altri detenuti.
In motivazione la Corte di appello evidenziava l’esaustività del materiale probatorio che precludeva l’istanza di rinnovazione dibattimentale formulata dalla difesa del S. (peraltro, risolventesi unicamente nella richiesta di esame dell’imputato, rimasto contumace in prime cure); osservava in particolare che le dichiarazioni della parte offesa davano contezza delle violenze fisiche e psichica cui era stato sottoposto il Sa., dai suoi compagni di cella, in tal modo determinandolo, contro la sua volontà, a pulire la cella, a cucinare, nonchè ad acquistare, per i suoi aguzzini, generi alimentari e di conforto, attraverso la sottoscrizione dell’apposito modulo di ordinazione dietro imposizione dei due, apprendendo, successivamente, che i detenuti avevano abusivamente aggiunto vari generi alimentari alle ordinazioni da lui sottoscritti. Si trattava di dichiarazioni coerenti e, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa del S., per nulla difformi da quelle inizialmente rese dal Sa., nonchè confortate da apprezzabili elementi di riscontro estrinseci (il referto medico in data (OMISSIS); i tentativi di autolesionismo del Sa. per porre fine alle sopraffazioni e convincere l’amministrazione penitenziaria a fargli cambiare cella; il fatto che – dopo che era stato spostato di cella – il Sa. non avesse più lamentato fatti analoghi) Relativamente alla qualificazione giuridica dei fatti, la Corte di appello osservava che non era condivisibile la "gratuita operazione di sezionamento" operata dalla difesa, sì da pervenire alla derubricazione del reato di cui all’art. 610 c.p. nei reati di violenza e minaccia; queste, infatti, avevano costituito lo strumento attraverso il quale il M. e il S. avevano ridotto il Sa. ad una sorta di attendente, costringendolo a cucinare e pulire per tutti nell’ambito della convivenza carceraria e – seppure era verosimilmente configurabile anche l’ingiuria, nella pretesa di avere un rapporto orale – si sarebbe trattato di un addebito che (a prescindere da ogni questione di procedibilità) avrebbe dovuto essere aggiunto a quello di violenza privata, senza escluderne la sussistenza. Allo stesso modo la presenza di comportamenti descritti nell’altro capo di imputazione (relativamente alle ordinazioni aggiunte alla sottoscrizione del Sa., profittando dell’analfabetismo di costui), inquadrabili negli schemi della truffa, non faceva venire meno l’estorsione, giacchè vi era – come osservato dal primo Giudice – "una parte iniziale di tali ordinazioni che corrispondeva effettivamente alla … volontà (coartata)" del Sa. "ed a tale parte iniziale di acquisti egli aveva consentito per timore delle paventate violenze".
La Corte territoriale confermava l’apprezzamento negativo espresso dal primo Giudice in ordine alla concessione delle generiche, evidenziando i gravi reiterati e anche specifici precedenti penali degli imputati, sintomatici di una forte capacità a delinquere, senza alcun segno di ravvedimento e con particolare riguardo al S. che ne aveva fatto richiesta, rilevando l’esistenza di plurime condanne per reati di violenza, danneggiamelo, estorsione, maltrattamenti. L’odiosità dei fatti e il carattere in concreto aggravato del reato estorsivo, escludevano la riduzione della pena, determinata sulla base del minimo edittale del più grave reato di cui all’art. 629 c.p., comma 1 e operando adeguati aumenti a titolo di continuazione.
1.2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati.
1.2.1. Il M. deduce erronea applicazione della legge penale, nonchè la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione e ciò in quanto: 1) le dichiarazioni della parte offesa, parente di un collaboratore di giustizia appartenente a un gruppo rivale a quello cui "pare si ispirasse il M." non costituirebbero prova sufficiente ai fini dell’affermazione di responsabilità; 2) i fatti ascritti come violenza privata avrebbero dovuto essere derubricati nei reati di minacce e ingiurie, perchè i comportamenti indicati non erano diretti a fare o omettere qualcosa nell’immediatezza; 3) sarebbe illogico ritenere l’ipotesi di estorsione anzichè di truffa, pur riconoscendo che una parte delle ordinazioni era avvenuta attraverso il fraudolento riempimento del modulo sottoscritto dal Sa.; la motivazione sarebbe, inoltre, contraddittoria nel punto in cui afferma che la parte iniziale di acquisti era stata effettuata dal Sa. per timore delle paventate violenze.
1.2.2. Il S. deduce i seguenti motivi.
1) Mancata assunzione di una prova decisiva ex art. 606 c.p.p., lett. d), manifesta illogicità della motivazione in relazione all’ordinanza della Corte di appello di Lecce in data 21-11-2007. A tal riguardo lamenta l’omessa parziale rinnovazione dibattimentale mediante l’esame dell’imputato. Secondo il ricorrente – esclusa ogni rilevanza della circostanza della contumacia dell’imputato in primo grado – l’altro argomento addotto dalla Corte di appello, per escludere la rinnovazione dell’istruttoria, e cioè l’esaustività dell’istruttoria dibattimentale, non corrisponderebbe al vero, perchè l’istruttoria si basava solo sulle dichiarazioni della parte offesa.
2) Erronea applicazione delle norme processuali ex art. 606 c.p.p., lett. c) in relazione agli artt. 123 e 546 c.p.p. in relazione agli artt. 125 e 546 c.p.p., nonchè mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e). – A tal riguardo si deduce la mancanza di motivazione e il travisamento della prova e degli atti: ciò in quanto i Giudici del merito avrebbero omesso di rilevare incoerenze, illogicità e contraddizioni che caratterizzerebbero le dichiarazioni della parte offesa, stravolgendo la valenza probatoria di altri elementi processuali. In particolare non si sarebbe tenuto conto del necessitato coinvolgimento del S. da parte del Sa., per tema di essere smentito di accuse non veritiere; inoltre la parte offesa sarebbe stata portatrice di un particolare rancore che l’avevano indotta a "colorare" la versione dei fatti resa in dibattimento, aggravando la posizione del S.; questi non avrebbe mai costretto il Sa. a cucinare o a pulire la cella, trattandosi di attività che la parte offesa avrebbe svolto spontaneamente.
3) Erronea applicazione della Legge penale ex art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione agli artt. 629 e 610 c.p., nonchè mancanza e comunque manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e). A tal riguardo si deduce l’insussistenza delle ipotesi delittuose in contestazione e comunque l’erronea qualificazione giuridica dei fatti di causa. Secondo il ricorrente, ove si desse credito alla circostanza riferita dal Sa., secondo cui vennero inserite nella lista ordinazioni a sua insaputa, andrebbe escluso che la volontà della parte offesa fosse coartata. Inoltre le condotte di cui al capo a) costituirebbe al più comportamenti denigratori e offesivi, configurando il delitto di cui all’art. 594 c.p. e non all’art. 610 c.p. ovvero, a volere seguire l’impostazione dei giudici di merito, la contestazione di cui al capo a) sarebbe assorbita in quella di cui al capo b) trovandosi in rapporto di specialità con l’estorsione.
4) Erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione all’art. 62 bis c.p. nonchè mancanza della motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e). A tal riguardo si lamenta l’omesso riconoscimento delle generiche, in quanto il prevenuto, pur gravato da precedenti penali, sarebbe privo di una reale capacità a delinquere e di un’effettiva pericolosità sociale.
5) Erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione agli artt. 132 e 133 c.p., nonchè mancanza della motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e). A quest’ultimo riguardo si lamenta che la pena è eccessiva rispetto ai parametri normativi.
2. I motivi di ricorso, svolti nei distinti atti di impugnazione, che trattano temi analoghi o connessi, verranno esaminati congiuntamente ad evitare inutili ripetizioni: sono tali i motivi che attengono alla selezione e valutazione del materiale probatorio e quelli che attengono alla qualificazione giuridica della condotta.
2.1. E’ logicamente prioritario il motivo n. 1 del ricorso S., con il quale si lamenta la mancata assunzione di una prova decisiva (e, cioè, secondo quanto dedotto nel ricorso del S., l’esame dello stesso imputato).
Al riguardo si osserva che la sentenza motiva in maniera adeguata e coerente con le risultanze processuali il rigetto della relativa istanza, in ossequio al principio ormai consolidato della presunzione di completezza dell’istruttoria dibattimentale, evidenziando da un lato, la contumacia dell’imputato in primo grado – dato, questo, che non appare affatto neutro, posto che la scelta dell’imputato di sottrarsi in primo grado all’esame depone per la "non necessità" della prova – e, dall’altro, la completezza del materiale probatorio acquisito, rappresentato dalle dichiarazioni della parte offesa, convalidate da riscontri reperiti aliunde.
Val la pena di osservare che una prova, per essere preventivamente ritenuta "decisiva", deve avere la capacità di contrastare le acquisizioni processuali contrarie, elidendone l’efficacia e provocando una decisione contraria; il che non può certo affermarsi per il richiesto esame dell’imputato.
Per altro verso si rammenta che è indiscusso nella giurisprudenza di questa Corte che a base del libero convincimento del giudice possono essere poste sia le dichiarazioni della parte offesa sia quelle di un testimone legato da stretti vincoli di parentela con la medesima (Cass., sez. 3, 5 marzo 1993, Russo, m. 193862; Cass., sez. 4, 26 giugno 1990, Falduto, m. 185349). Sicchè, la deposizione della persona offesa dal reato, pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere anche da sola assunta come fonte di prova, ove venga sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva (Cass., sez. 1, 28 febbraio 1992, Simbula, m. 189916; Cass., sez. 6, 20 gennaio 1994, Mazzaglia, m.
198250; Cass., sez. 2, 26 aprile 1994, Gesualdo, m. 198323; Cass., sez. 6, 30 novembre 1994, Numelter, m. 201251; Cass., sez. 3, 20 settembre 1995, Azingoli, m. 203155), non richiedendo necessariamente neppure riscontri esterni, quando non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità (Cass., sez. 6, 13 gennaio 1994, Patan, m. 197386, Cass., sez. 4, 29 gennaio 1997, Benatti, m. 206985, Cass., sez. 6, 24 febbraio 1997, Orsini, m.
208912, Cass., sez. 6, 24 febbraio 1997, Orsini, m. 208913, Cass., sez. 2, 13 maggio 1997, Di Candia, m. 208229, Cass., sez. 1, 11 luglio 1997, Bello, m. 208581, Cass., sez. 3, 26 novembre 1997, Caggiula, m. 209404). A tali dichiarazioni, invero, non si applicano le regole di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 che riguardano le propalazioni dei coimputati del medesimo reato o di imputati in procedimenti connessi o di persone imputate di un reato collegato e che presuppongono l’esistenza di altri elementi di prova unitamente ai quali le dichiarazioni devono essere valutate per verificarne l’attendibilità.
Nel caso di specie i Giudici di merito hanno sottoposto ad attento controllo le dichiarazioni della vittima, valutate nel contesto delle emergenze processuali, segnatamente evidenziando le caratteristiche peculiari di precisione, coerenza ed uniformità delle dichiarazioni accusatorie ed estendendo il vaglio anche ad altri elementi (quali il certificato attestante un tipo di lesioni, concordante con la dinamica di un episodio riferito dal Sa., i disperati tentativi della vittima di sottrarsi ai suoi aguzzini, con atti di autolesionismo riscontrati dal personale carcerario, l’assenza di analoghe doglianze dopo il trasferimento di cella) che, pur se giuridicamente non necessari, è stato ritenuto corroborassero ab externo il contenuto delle propalazioni accusatorie.
L’utilizzazione della fonte di prova è stata, quindi, condotta dai Giudici del merito nella corretta osservanza delle regole di giudizio che disciplinano la valutazione della testimonianza della persona offesa dal reato e con adeguata motivazione, che si sottrae a censura in questa sede. In particolare la Corte territoriale si è fatta carico di esaminare le dichiarazioni della parte offesa, alla luce delle doglianze formulate nell’atto di appello nell’interesse del S. con riguardo alle pretese "incoerenze, illogicità e contraddizioni" che caratterizzerebbero siffatte dichiarazioni e al conseguente "stravolgimento della valenza probatoria di altri elementi processuali", puntualmente smentendo – come risulta dalla sintesi sopra riportata – le genetiche deduzioni difensive.
E’ appena il caso di aggiungere che l’esattezza delle suddette valutazioni, non può formare oggetto di contestazione in questa sede, essendo notoriamente preclusi alla Corte di legittimità l’esame degli elementi fattuali e l’apprezzamento fattone dal giudice del merito al fine di pervenire al proprio convincimento.
In conclusione si tratta di reiterazione delle difese di merito ampiamente e compiutamente disattese dai giudici di secondo grado, oltre che censura in punto di fatto della sentenza impugnata, inerendo esclusivamente alla valutazione degli elementi di prova ed alla scelta delle ragioni ritenute idonee a giustificare la decisione, cioè ad attività che rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se sorretto, come nel caso in esame, da adeguata e congrua motivazione esente da vizi logico-giuridici.
2.2. Dalla ritenuta attendibilità dell’accusa discende l’esatta affermazione della sussistenza dei contestati delitti di violenza privata e di estorsione, i cui elementi costitutivi sono stati tratti dal narrato della vittima.
La sentenza impugnata da, infatti, adeguata contezza del clima di prevaricazioni fisiche e psicologiche in cui venne a trovarsi la parte offesa (conseguente sia ad atti prettamente ingiuriosi, come la pretesa di avere rapporti orali, sia alle minacce di impiccagione e alle vere e proprie aggressioni fisiche), evidenziando come siffatti comportamenti erano finalizzati a costringere il Sa., non solo a pulire la cella e a cucinare anche per gli altri due occupanti, ma anche a compiere atti di disposizione patrimoniale, quali la sottoscrizione dei moduli di ordinazione per l’acquisto di generi alimentari e di conforto.
Le deduzioni dei ricorrenti, volte a "isolare" la minaccia e la violenza dal risultato finale cui le stesse erano funzionali, pur prospettate sotto il profilo della violazione di legge e del vizio logico appaiono, dunque, funzionali ad una rivisitazione del fatto storico non consentita in questa sede.
Nè è illogico avere ipotizzato un’eventuale concorso di reati in relazione al carattere meramente oltraggioso di alcuni atti ovvero ancora all’attività fraudolenta posta in essere con l’aggiunta di ulteriori ordinazioni a quelle inizialmente estorte con la violenza e la minaccia costringendo il Sa. ad apporre la propria firma. In particolare – dal momento che l’attività minacciosa e violenta è risultata finalizzata al compimento di determinati atti di autodeterminazione del soggetto – corretto risulta l’inquadramento della condotta nel paradigma di cui all’art. 610 c.p., configurabile ogni qualvolta il mezzo adoperato sia idoneo a privare coattivamente il soggetto passivo dalla libertà di determinazione e di azione.
Nè la violenza privata può ritenersi assorbita nell’estorsione. E’ ben vero che entrambe le fattispecie incriminatrici in questione (estorsione e violenza privata) tutelano la libertà di autodeterminazione dell’individuo e che il delitto di estorsione costituisce ipotesi speciale fungendo da elementi specializzanti, oltre al conseguimento di un ingiusto profitto, il correlativo danno per la persona offesa che rivesta però la connotazione di ordine patrimoniale e consista in una effettiva deminutio patrimonìì;
tuttavia il reato di violenza privata non può ritenersi assorbito da quello di estorsione, qualora la minaccia profferita, sia pure contemporaneamente a quella estorsiva, tenda a costringere la parte lesa ad un’ulteriore limitazione della sua libertà, tutelata appunto dal disposto dell’art. 610 c.p. (cfr. Cass. pen., Sez. 2, 30/01/1991 Bontempo). E nel caso di specie è stato accertato che vi furono sia atti di violenza e/o minaccia strumentalmente diretti a costringere il Sa. a compiere comportamenti materiali (cucinare, pulire la cella), sia atti di violenza e/o minaccia strumentalmente diretti a costringere il medesimo Sa. a compiere atti di disposizione patrimoniale (ordinativi vari per gli altri detenuti a sue spese).
2.3. Manifestamente attinente ad aspetti implicanti valutazioni in punto di fatto, e come tali inammissibili, appaiono i motivi, svolti dal solo S., relativamente al trattamento sanzionatorio e alla mancata concessione delle generiche.
Invero la misura della pena, la cui applicazione è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito, non risulta contrastante con i parametri legislativi. In particolare la concessione o meno delle attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, che deve motivare nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo (Cass. sez. 1, 4/11/2004, mass. 230591): il che è avvenuto, nel caso all’esame, in quanto la Corte di appello ha messo in evidenza i plurimi precedenti dell’imputato, rivelatori della capacità criminale del soggetto.
In definitiva i motivi di entrambi i ricorsi incorrono tutti nella sanzione di inammissibilità o perchè non nconducibili alla tipologia di cui all’art. 606 c.p.p. o perchè, comunque, manifestamente infondati.
A mente dell’art. 616 c.p.p. alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna in solido dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè, in ragione della responsabilità connessa alla natura dei motivi proposti, al versamento di una somma che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00 per ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento di Euro 1.000.00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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