Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 06-04-2011) 09-06-2011, n. 23328 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Lecce, con ordinanza resa all’udienza camerale del giorno 20.05.2009, rigettava l’istanza di riparazione presentata da R.P. per ingiusta detenzione in regime di custodia, in carcere dal 12/09/05 al 16/08/06 perchè indagato in ordine ai reati di cui agli artt. 81, 609 bis, 605, 628, 610 e 582 c.p. in danno di P.G.; reati da cui lo stesso era stato assolto con la formula "perchè il fatto non sussiste" con sentenza del G.U.P. del Tribunale di Lecce in data 5.12.2006. R. P. proponeva quindi ricorso per cassazione, a mezzo del suo difensore, avverso l’ordinanza della Corte di appello di Lecce e concludeva chiedendo di volerla annullare con rinvio ad altra sezione della stessa Corte di appello.

L’Avvocatura Generale dello Stato, in rappresentanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze, produceva tempestiva memoria e concludeva chiedendo di volere dichiarare l’inammissibilità del ricorso, ovvero di rigettarlo.
Motivi della decisione

Il ricorrente censura l’ordinanza impugnata con un unico motivo per violazione degli artt. 314 e ss. cod. proc. pen. in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).

Si lamentano in sostanza vizi di motivazione dell’atto, consistenti in una errata valutazione della condotta del ricorrente, in quanto la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che la colpa grave si sarebbe sostanziata esclusivamente nel silenzio serbato dal ricorrente in sede di interrogatorio di garanzia, senza valutare il complesso della condotta processuale tenuta dal R., il quale era rimasto in carcere per mesi anche dopo avere chiarito la sua posizione nell’interrogatorio del 10.02.2006. In conclusione si lamenta la mancanza di una convincente e analitica motivazione che possa superare la valutazione della sentenza di assoluzione.

Pertanto, ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale, non poteva ritenere sussistente il dolo o la colpa grave, impeditivi del riconoscimento del diritto all’equa riparazione.

Il ricorso è infondato.

Osserva la Corte che il diritto a equa riparazione per l’ingiusta detenzione, regolato dagli artt. 314 e ss. c.p.p., trova fondamento nella condizione soggettiva della persona sottoposta a detenzione immeritata e in tal senso ingiusta. Il quadro sistematico di riferimento è un quadro di diritto civile ma non è quello dell’art. 2043 c.c. che appresta sanzioni contro chi produce per dolo o colpa un danno ingiusto ad altri. Il principio regolatore è piuttosto quello della riparazione legata ad eventi che producono il sorgere, quali conseguenze di principi di solidarietà e di giustizia distributiva, di responsabilità da atto lecito (la distinzione tra responsabilità per danno ingiusto ex art. 2043 c.c. e responsabilità per atto lecito è ben chiarita da Cass. SS.UU. civ. 11/6/2003 n. 9341). E’ ben fermo, in materia, l’assetto delle regole generalissime che disciplinano l’onere della prova civile ex art. 2697 c.c. posto che il procedimento relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione, quantunque si riferisca ad un rapporto obbligatorio di diritto pubblico e comporti perciò il rafforzamento dei poteri officiosi del giudice, è tuttavia ispirato ai principi del processo civile, con la conseguenza che l’istante ha l’onere di provare i fatti costitutivi della domanda, la custodia cautelare subita e la successiva assoluzione (Corte Cass. Sez. 4 sent. n. 23630 02/04/2004 – 20/05/2004) della quale è talora ritenuta irrilevante la formula (Cass. Sez. 4^ 12/4/2000 n. 2365) e talora rilevante nel senso che indefettibile presupposto del sorgere del diritto sarebbe solo il proscioglimento con una delle formule di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1. Peraltro il sorgere del diritto è condizionato alla esistenza di una condotta del richiedente che al tempo del processo in nulla abbia dato causa o concorso a dare causa a quella ingiusta detenzione. L’operazione intesa a cogliere tali condizioni deve scandagliare solo l’eventuale efficienza causale delle condotte dell’imputato che possano aver indotto, anche nel concorso dell’altrui errore, secondo una valutazione ragionevole e non congetturale il giudice a stabilire la misura della detenzione (Cass. SSUU, Sent. n.34559 del 26/06/02, Rv.222263; Cass., Sez 4^, Sent.

N.2895 del 13/12/2005, Rv. 232884).

Tanto premesso si osserva che la Corte di Appello di Lecce, con motivazione adeguata, ha puntualmente motivato in ordine alle ragioni che ostano all’accoglimento dell’istanza di equa riparazione.

Il provvedimento impugnato indica in effetti proprio gli elementi della condotta che hanno dato origine all’apparenza di illecito penale, ponendosi come causa della detenzione. In particolare evidenzia la circostanza che gravi accuse erano state rivolte all’odierno ricorrente da P.G. e dal figlio di quest’ultima P.M. in merito alle violenze fisiche da lui poste in essere nei confronti della donna. Tali accuse trovavano conferma nel referto del pronto soccorso dell’O.C. di Lecce in data 21.08.2005, che attestava una contusione del rachide cervicale riportata dalla P., giudicata guaribile in giorni sette.

In tale situazione il silenzio tenuto dall’odierno ricorrente in sede di interrogatorio di garanzia in data 16.09.2005 aveva contribuito all’applicazione ed alla protrazione della custodia cautelare, dal momento che il R. avrebbe potuto in quella sede fornire spiegazioni in ordine alle gravi accuse che gli erano state rivolte.

Sul punto infatti la giurisprudenza di questa Corte ritiene che "il silenzio, la reticenza, il mendacio possono avere ripercussioni negative sulla richiesta di riparazione per ingiusta detenzione purchè si accerti che essi abbiano avuto effettivo rilievo causale, contribuendo alla formazione del quadro indiziario che ha determinato l’adozione della restrizione ingiusta" e che "è necessario che, in siffatte ipotesi, il giudice della riparazione accerti, innanzitutto, quali siano tali elementi taciuti o falsamente rappresentati che avrebbero caducatoriamente potuto incidere sul ritenuto quadro gravemente indiziario, non potendo questi ritenersi assiomaticamente (con inammissibile presunzione fattuale) o in via del tutto ipotetica e congetturale e che valuti, poi, il sinergico nesso di relazione causale tra tale circostanza e l’addebito formulato, dando motivata contezza di come essa abbia in effetti influito, concausalmente, nel mantenimento dello stato detentivo" (cfr. Cass., Sez. 4, n. 4154 del 28.01.2008). In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, l’esercizio da parte dell’indagato della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio, la reticenza e persino la menzogna costituiscono legittimo esercizio del diritto di difesa, ma possono rilevare ai fini dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave quando l’interessato non abbia riferito circostanze, ignote agli inquirenti, utili ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare. Pertanto, questo essendo il quadro accusatorio, i motivi proposti dal R. non possono essere accolti.

Il provvedimento impugnato, che definisce il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, supera quindi il vaglio di questa Corte che è limitato alla correttezza del procedimento logico giuridico con cui il Giudice è pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del beneficio indicato. Resta invece nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a motivare adeguatamente e logicamente il suo convincimento, la valutazione sull’esistenza e la gravità della colpa e sull’esistenza del dolo.

Il legislatore non ha infatti riconosciuto incondizionatamente il diritto all’equa riparazione, ma l’ha esplicitamente escluso allorquando il comportamento dell’indagato, come appunto nella fattispecie de qua, abbia indotto in errore il giudice circa l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza a suo carico.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. Si ritiene di compensare le spese tra le parti del presente giudizio in considerazione della genericità della memoria dell’Avvocatura generale dello Stato, che si limita sostanzialmente a riportare la giurisprudenza di questa Corte.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Compensa le spese tra le parti.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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