Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 06-04-2011) 09-06-2011, n. 23225

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La CdA di Catania, con la sentenza di cui in epigrafe, ha confermato la pronunzia di primo grado con la quale C.A. fu condannato alla pena di giustizia in quanto riconosciuto colpevole dei delitti di minaccia e tentate lesioni personali aggravate (così riformulata la originaria imputazione di tentato omicidio) e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulla persona.

Ricorre per cassazione il difensore e deduce:

1) violazione dell’art. 192 c.p.p. e art. 52 c.p. e carenza dell’apparato motivazionale, atteso che erroneamente la Corte ha escluso che ricorressero i presupposti della legittima difesa. Non può assolutamente affermarsi che le dichiarazioni della pretesa PO abbiano carattere di linearità, costanza, coerenza e mancanza di contraddizione, meno che mai può dirsi che le stesse ricevano conferma nelle parole del teste P.; anzi proprio le dichiarazioni di costui, unitamente a quelle degli altri testi ( B. e T.) smentiscono l’assunto della PO con riferimento alle condizioni spazio-temporali in cui va inquadrato l’episodio. In nessun conto poi i giudici del merito hanno tenuto le lesioni riportate dall’imputato, che vengono attribuire alla condotta volontaria del suddetto (il quale si sarebbe procurato escoriazioni alla fronte cadendo all’indietro). Dette lesioni sono comprovate da certificazione medica che i giudicanti hanno del tutto ignorato.

Così stando le cose, non viene minimamente chiarito per qual motivo non sia credibile la versione dei fatti fornita dall’imputato, che ha affermato di avere scagliato il sasso contro il suo "avversario" dopo essere caduto a terra e quando questo ultimo era ormai sulla sua auto che già era in moto. Ciò è comprovato anche dalla dichiarazioni del teste D.V. che accompagnò in ospedale il C..

2) violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p.. Essendo rimasto provato che l’imputato scagliò la pietra contro la presunta PO che era già in auto mentre egli si trovava già al suolo, è di tutta evidenza che trattasi di un gesto reattivo dettato dal senso di frustrazione derivante dalla aggressione che il C. ebbe a subire. Dunque i fatti si sono svolti con modalità ben differenti rispetto a quelle di cui alla contestazione, anche come modificata dal giudice di primo grado.

3) violazione dell’art. 43 c.p. e art. 530 c.p.p. e illogicità della motivazione. Per lo stesso motivo, non può ritenersi sussistente l’elemento soggettivo del delitto contestato. Aver scagliato un sasso contro un’auto ormai in movimento è, appunto, un gesto di stizza e non un’azione diretta a causare lesioni a terzi.

4) violazione dell’art. 612 c.p., comma 2 e art. 69 c.p., atteso che la CdA non motiva affatto in ordine alla aggravante contestata con riferimento al delitto di minaccia, nè in ordine alla richiesta dichiarazione di prevalenza delle attenuanti generiche e di quella della provocazione.
Motivi della decisione

La prima censura è inammissibile in quanto generica (nella parte in cui non tien conto delle argomentazioni svolte dalle sentenze di merito) e articolata in fatto (nella parte in cui propone una alternativa lettura degli elementi di prova posti dalla CdA a sostegno della decisione assunta).

La sentenza di secondo grado, in tutto confirmatoria di quella di primo, fa "corpo unico" con la stessa, di talchè le motivazioni delle due pronunzie devono essere lette come se costituissero un unico apparato giustificativo di una decisione che è rimasta invariata.

Ebbene, la ricostruzione in fatto proposta dalla PO e avallata dalle dichiarazioni del P. ha evidenziato come il C., a seguito di un alterco con il L., lo afferrò per una spalla, strappandogli la camicia; caduto al suolo (e feritosi), l’imputato si rialzò e minacciò il L., impugnando un coltello e brandendo una pietra. L., impaurito, montò in auto e mise in moto, ma la vettura fu raggiunta dalla pietra scagliata dal C., che infranse un finestrino e terminò la sua corsa sul sedile posteriore della vettura.

Il m.llo dei CC, cui la PO denunziò immediatamente il fatto, ascoltato in udienza, ha dato atto che l’auto del L. presentava un finestrino infranto e che, al suo interno, vi era una "pietra non piccola" (sent. primo grado, settima facciata).

Tali essendo le risultanze probatorie, come esposte dai giudici di merito, da un lato, non si comprende come il ricorrente possa sostenere che le parole della PO abbiano trovato smentita in quelle degli altri testi, dall’altro, meno ancorarsi comprende come possa sostenersi che la condotta del C. integri gli estremi della legittima difesa, atteso che non risulta che L. avesse assunto atteggiamento aggressivo.

Quanto all’apporto del teste D.V., è chiarito nelle sentenze di merito che costui non fu presente ai fatti, ma si limitò ad accompagnare il C. (che si era ferito cadendo al suolo) in ospedale.

La seconda censura, come acutamente osservato dal PG in udienza, è in frontale contraddizione con la prima. Sostenere che l’imputato scagliò la pietra quando ormai il L. si era allontanato (ed era quindi "fuori tiro"), significa sostenere, implicitamente che non sussisteva più l’attualità del pericolo e, dunque, la necessità di scongiurarlo con un gesto di violenza. Pertanto; o ricorrevano gli estremi della legittima difesa (e allora la seconda censura non ha senso) o, per accreditare tale seconda censura, devesi ritenere che la reazione non fu necessaria per neutralizzare il pericolo (e allora non ha senso la prima).

In ogni caso, non si vede in cosa consista la dedotta non coincidenza tra imputazione e sentenza, dal momento che la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito (sopra sintetizzata) vuole che la pietra sia stata lanciata da una distanza che certo non ne neutralizzava la pericolosità, se è vero che la stessa mandò in frantumi un finestrino dell’auto della PO. Detta censura dunque è, al tempo stesso, manifestamente infondata e articolata in fatto.

Contraddittoria (con la prima), a ben vedere, è anche la terza censura. Delle due l’una: o il lancio del sasso aveva finalità ed efficacia difensive, o non le aveva. Poichè la CdA (e prima ancora il Tribunale) ha ritenuto e provato che il lancio aveva capacità offensiva e che il C. prima minacciò con un coltello e – appunto – con un sasso la PO e poi lo scagliò, è di tutta evidenza che non illogicamente i giudici del merito hanno ritenuto che fosse sua intenzione colpire il L..

La quarta censura è infondata.

E’ pur vero che manca una esplicita motivazione, sia in ordine alla sussistenza della contestata aggravante, sia in riferimento al giudizio di mera equivalenza operato dal giudicante, ma, per quel che riguarda l’aggravante, si deve notare che, dal contesto della motivazione, si evince che le parole minacciose furono pronunziate mentre il C. impugnava un coltello (dunque ricorre la fattispecie ex art. 612 c.p., comma 2 e art. 339 c.p., comma 1), per quel che riguarda il trattamento sanzionatorio, si deve ricordare che il giudice di primo grado, sia pure con motivazione sintetica, nel riconoscere le circostanze attenuanti generiche, ha chiarito i motivi della ritenuta equivalenza (gravità e modalità della condotta – rubricata, in un primo momento, come tentato omicidio – personalità dell’imputato, indice di un’indole aggressiva e violenta, desumibile, tra l’altro, dalla esibizione del coltello).

Ebbene, è stato ritenuto da questa Corte (ASN 198607097-RV 173344) che, nel caso in cui all’obbligo della motivazione in ordine alla valutazione delle circostanze concorrenti abbiano adeguatamente e correttamente adempiuto i giudici di primo grado e l’imputato abbia, in sede di gravame, motivato la reiterazione della richiesta di prevalenza delle attenuanti con i medesimi, specifici elementi ritenuti inidonei nella sentenza impugnata, i giudici di appello non sono tenuti alla esposizione analitica delle ragioni che li hanno indotti a confermare l’equivalenza, piuttosto che la prevalenza, essendo sufficiente, in tal caso, il richiamo, anche implicito, a quelle esposte dai primi giudici.

Conclusivamente, il ricorso merita rigetto e il ricorrente va condannato alle spese del grado. Va anche condannato al ristoro delle spese sostenute dalla PC in questo grado di giudizio, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonchè alla rifusione delle spese in favore della costituita parte civile, che liquida in Euro milleottocento (1.800) complessivi, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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